"Per diminuire in modo significativo la spesa pubblica, e quindi consentire una flessione altrettanto rilevante della pressione fiscale, è necessario ridurre lo spazio che lo Stato occupa nella società, cioè spostare il confine fra attività svolte dallo Stato e dai privati. Limitarsi a razionalizzare la spesa all'interno dei confini oggi tracciati (la cosiddetta spending review) non basta. Nel 2012 il governo ha tagliato 12 miliardi di euro; altri 12 miliardi di risparmi sono previsti dalla legge di Stabilità per il 2013. Troppo poco per ridurre la pressione fiscale. Abbassare la spesa al livello della Germania (di quattro punti inferiore alla nostra) richiederebbe tagli per 65 miliardi. Per riportarla al livello degli anni Settanta (quando la nostra pressione fiscale era al 33 per cento), si dovrebbero eliminare spese per 244 miliardi".
"C'è poi un problema di finanziamento della spesa sanitaria. Come abbiamo ripetuto più volte, non possiamo più permetterci di fornire servizi sanitari gratuiti a tutti senza distinzione di reddito. Che senso ha tassare metà del reddito delle fasce più alte per poi restituire loro servizi gratuiti? Meglio che li paghino, e contemporaneamente che le loro aliquote vengano ridotte".
"Oggi l'università è pubblica e funziona male. È finanziata da tutti i contribuenti, ma frequentata soprattutto dai più ricchi. È un sistema che trasferisce (con grandi sprechi) reddito dai poveri ai ricchi. Perché non far pagare le rette universitarie in modo meno regressivo?".
"Con un debito al 126 per cento del reddito nazionale e una pressione fiscale tra le più alte al mondo non si può sfuggire al problema di ridisegnare i confini fra Stato e privati. Illudersi che sia sufficiente "riqualificare la spesa" con la spending review rischia di nascondere agli italiani la gravità del problema".
E' noto da tempo il legame tra struttura del welfare e crescita economica. In Italia, nel 2004, sempre sul Corriere della Sera, il professor Maurizio Ferrera, con riferimento ai paesi asiatici allora emergenti, rilevò che:
"Se è vero che il fiume dello sviluppo economico porterà il welfare state anche in Asia, non è detto però che si tratti di un welfare all' europea. Non è detto, in altre parole, che le economie asiatiche vedano in futuro esaurirsi il proprio vantaggio comparativo sotto questo profilo. Ciò che sta emergendo in Corea, Taiwan e Singapore è un sistema diverso dal nostro, molto più strettamente integrato con il mercato, tanto che la letteratura specialistica ha coniato il nuovo termine di "welfare state produttivistico". Tre sono gli ingredienti principali di questo modello: priorità all' istruzione e alla formazione; regolazione pubblica (ad esempio, obbligo di assicurazione medica o previdenziale), ma fornitura di prestazioni da parte di soggetti privati, tramite i canali del mercato; copertura gratuita solo per i più poveri".
Eppure, nonostante i ripetuti interventi di Alesina e Giavazzi, nel nostro paese stenta a decollare un dibattito pubblico su questi problemi di vitale importanza. Quali sono le ragioni di questo disinteresse? Quelle proposte dai due autorevoli economisti sono misure impopolari. Il ceto medio non intende assumersi la responsabilità di se stesso, non intende partecipare a una scommessa su un futuro che vede troppo lontano e indistinto. I politici non vogliono perdere consensi in questo settore decisivo dell'elettorato. Gli intellettuali, giornalisti compresi, si accodano ai loro referenti politici ed evitano di irritare un uditorio che mostra di preferire le illusioni alle analisi dirette a rappresentare la complessità e l'inadeguatezza del paese reale.
Occorre un'ampia, sincera e coraggiosa discussione pubblica che stimoli nell'elettorato una riflessione attenta e aperta. Purtroppo la propaganda elettorale sembra ancora in larga misura volta a suggestionare e a cercare facile consenso.