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giovedì 23 dicembre 2010

Handel a Roma: un protestante tra i papisti.

George Frideric Handel (così si firmò nella seconda parte della sua vita il musicista tedesco diventato suddito inglese) nacque a Halle nel 1685 e morì in Inghilterra nel 1759. Grande compositore dell'età barocca, esercitò una profonda influenza sulla musica occidentale e riscosse un immenso successo già in vita. Visse in Italia dal 1706 al 1710 e dopo un breve soggiorno in Germania si trasferì in Inghilterra. Nel 1727 ottenne la naturalizzazione inglese. Le sue composizioni riflettono un'ampia conoscenza della musica europea contemporanea, in particolare degli autori e degli stili tedeschi, italiani e britannici.
 Memorie della vita del fu G. F. Handel, è con ogni probabilità la prima biografia di un compositore. Redatta da un ecclesiastico inglese, John Mainwaring, che raccolse i racconti del suo assistente John Christopher Smith, fu pubblicata soltanto un anno dopo la morte dello stesso Handel, nel 1760. Lo scritto è importante non soltanto nell'ambito della storia musicale. Come altri documenti del genere contribuisce efficacemente a delineare una più viva e realistica immagine della vita e della cultura dell'epoca.
Da non perdere, tra molti altri, il brano delle Memorie che narra l'approccio del protestante Handel all'ambiente cattolico controriformistico romano. A Roma infatti il compositore tedesco frequentava i palazzi degli influenti cardinali Colonna, Ottoboni e Pamphili e di alcuni dei più importanti esponenti della nobiltà pontificia.
Scrive Mainwaring (pag. 36 ed.1985 a cura di Lorenzo Bianconi): "Siccome era in famigliarità con parecchie persone dell'ordine sacro, ma aveva persuasioni affatto ripugnanti a costoro, è facile immaginare che alcuni di loro si condolessero con lui su tale argomento. Perchè come si può pensare che codesti buoni cattolici, che gli volevano davvero bene, non si sforzassero di trarlo fuori dalla strada della dannazione? Messo alle strette da uno di codesti infiammati ecclesiastici, rispose che non era capace né disposto a entrare in questioni del genere, ma che era ben deciso di morire fedele alla confessione, vera o falsa che fosse, nella quale era nato e cresciuto. Spenta la speranza di una vera conversione, si tentò di indurlo a un ossequio quantomeno esteriore. Ma né argomenti né profferte sortirono effetto alcuno, se non quello di confermarlo anche più nei principii del protestantesimo. Invero furono in pochi a esercitare su di lui tali pressioni. I più lo consideravano un uomo di onesti anche se errati principii, e quindi concludevano che non sarebbe stato facile indurlo a mutarli.
In Roma Handel compose una sorta di oratorio intitolato Resurrezione, e centocinquanta cantate, oltre a varie sonate e altre musiche.
Da Roma andò a Napoli, dove (come in altre città) aveva a disposizione un palazzo, ed era assistito con tavola, carrozza ed ogni altra comodità".
Handel, nel difendere le sue convinzioni, mostra tutta la fermezza e la fierezza del suo carattere. Ma certamente da questo racconto emerge un ambiente cattolico dai tratti assai più tolleranti di quelli che certe leggende propongono.





  Del periodo romano è l'oratorio "Il Trionfo del Tempo e del Disinganno", di cui è parte Tu del ciel ministro eletto, splendidamente eseguito da Roberta Invernizzi


sabato 18 dicembre 2010

Cuba: repressione e miseria dietro il mito della rivoluzione.

Il regime cubano ha recentemente impedito al dissidente Guillermo Farinas di lasciare il paese per ritirare il Premio Sakharov per la libertà di pensiero, promosso dal Parlamento Europeo.
Bisogna denunciare con chiarezza la drammatica condizione dei cubani. Da sempre il regime castrista imprigiona, tortura e uccide gli oppositori. Ma dopo la caduta dell'Unione Sovietica, con la fine delle sue sovvenzioni dirette ed indirette, anche la situazione economica si è notevolmente deteriorata. Si tratta del cosiddetto "periodo speciale" aperto nei primi anni Novanta e non ancora davvero terminato.
L'URSS cedeva a Cuba petrolio a prezzi inferiori a quelli di mercato ed acquistava zucchero a prezzi superiori. Forniva aiuti finanziari come corrispettivo dell'attività di sovversione svolta dal regime prevalentemente, ma non solo, in America Latina e dell'intervento dell'esercito cubano nel continente africano, soprattutto nelle guerre del Corno d'Africa e nei conflitti scoppiati nelle ex colonie portoghesi Angola e Mozambico.
Cessati gli aiuti sovietici le condizioni di vita sono drasticamente peggiorate. Solo recentemente Cina e Venezuela sono intervenute a sostegno del regime, con forniture a condizioni di favore.
Il governo accusa gli Stati Uniti di essere la causa delle difficoltà economiche cubane. Ma l'embargo statunitense, "el bloqueo", da tempo non è in grado di rappresentare un serio ostacolo alle relazioni economiche di Cuba con il resto del mondo. La situazione presente ha piuttosto origine nell'inefficienza economica del regime, che a differenza di altri regimi comunisti non ha intrapreso un percorso di liberalizzazione economica e non ha tratto vantaggi dalla globalizzazione, evidentemente consapevole che tale apertura avrebbe posto a rischio la sua stessa sopravvivenza.
Un testimone, che pochi giorni fa ha visitato le principali città cubane al di fuori dei comuni circuiti turistici e che deve rimanere segreto per non porre in pericolo i suoi contatti locali, non solo conferma quanto già si sa sulle condizioni di vita, sulla delazione diffusa e sulla repressione poliziesca della dissidenza, ma apre nuovi squarci sulla realtà della sanità e dell'istruzione, fiori all'occhiello del regime.
Sembra che le prestazioni sanitarie non siano in realtà gratuite. Mentre infatti l'opera dei medici in senso stretto non deve essere pagata, non sono gratuiti molti dei materiali e dei farmaci che gli operatori sanitari devono usare. Succede, ad esempio, che l'anestesia durante un'estrazione dentaria debba essere pagata. Come pure che si debbano pagare i punti di sutura necessari per chiudere ferite. I pazienti sono spesso così costretti ad indebitarsi pesantemente per ottenere banali cure mediche ed odontoiatriche. Considerazioni analoghe possono essere fatte per il sistema scolastico. L'accesso ad esso è garantito a tutti. Ma la qualità dell'apprendimento è minata dal pesante indottrinamento ideologico, mentre l'esercizio delle professioni è soggetto a regole e limiti rigidissimi, con retribuzioni assai modeste anche con riferimento agli standards cubani.
Emerge insomma l'immagine di una società immersa nella miseria e nella paura, dove si diffonde un fatalismo senza concrete speranze di rinnovamento.
Altre notizie si possono leggere qui.

giovedì 9 dicembre 2010

Personal computer e telefonino, conoscenza e comunicazione, dieta tecnologica e mobilità sociale.

Su Panorama del 9 dicembre 2010 il professor Luca Ricolfi, sociologo e esperto di analisi dei dati, riflette su un dato già noto, la diversa diffusione di PC e telefonini in ogni paese, tale da consentire l'individuazione per ciascun paese di un proprio "stile" tecnologico.
Scrive Ricolfi: "... sarebbe un errore credere che le tecnologie si sviluppino secondo percorsi simili in tutti i paesi, o anche solo in quelli avanzati...Anche se le varie tecnologie tendono oggi a convergere, la sorgente di tutto sta in due oggetti radicalmente diversi: il computer, originariamente nato per il calcolo scientifico e amministrativo, e poi evoluto, grazie a internet, in strumento di gestione dell'informazione e della conoscenza; e il cellulare, nato per ampliare le possibilità di comunicazione e di interazione. Ed è proprio rispetto a queste due radici distinte, computer e telefonino, conoscenza e comunicazione, che i vari paesi hanno imboccato strade diverse. Ci sono paesi in cui si è affermata una dieta tecnologica dominata dal computer: è il caso dei paesi scandinavi, della Germania, del Giappone. E ci sono paesi in cui si è affermata una dieta tecnologica dominata dal telefonino: è il caso dei paesi mediterranei, Grecia, Spagna, Portogallo e Italia, con il nostro Paese a guidare la graduatoria mondiale".
Come conclude lo stesso professor Ricolfi, i paesi avanzati preferiscono il computer, quelli arretrati il telefonino. Resta da spiegare perchè ciò accade. Viene prima di tutto da pensare alle modalità di avanzamento sociale e professionale, al modo ed alla misura in cui la mobilità sociale si realizza.
Dove conoscenza e informazione sono premiate, dove rappresentano uno strumento importante di ascesa sociale e professionale, l'intero paese avanza, mentre il computer prevale sul telefonino. Dove invece sono prevalentemente le relazioni personali a determinare la posizione professionale e quella sociale, dove la comunicazione interpersonale svolge un ruolo decisivo, i paesi arrancano e domina il telefonino, sia pure sempre più intelligente.
Giustamente osserva Luca Ricolfi: "Forse, a ben pensarci, non dovremmo essere così fieri di tutta la tecnologia che ci portiamo addosso".
Gli articoli di Luca Ricolfi su La Stampa si possono leggere qui, in La voce di Luca Ricolfi:

giovedì 2 dicembre 2010

Scuola italiana: leggiamo la Costituzione.

Gli articoli 33 e 34 della Costituzione italiana disciplinano direttamente scuola ed istruzione:


"L'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento.
La Repubblica detta le norme generali sull' istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi.
Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato.
La legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità, deve assicurare ad esse piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali.
E` prescritto un esame di Stato per l'ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi e per l'abilitazione all'esercizio professionale.
Le istituzioni di alta cultura, università ed accademie, hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato".


"La scuola è aperta a tutti.
L'istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita.
I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.
La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso".


Il dettato costituzionale è chiaro. Viene disegnata una scuola meritocratica e selettiva dove il diritto di "raggiungere i gradi più alti degli studi" è riservato ai "capaci e meritevoli" ed è reso effettivo, per i "privi di mezzi", "con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso".
Siamo dunque ben lontani dallo "stipendificio/diplomificio/laureificio" poi realizzato dai governi della Repubblica. Una riforma della scuola italiana che si ispiri alla Costituzione deve mirare all'efficienza ed all'eccellenza. Deve cioè avere come primo obiettivo la qualità dell'insegnamento e dell'apprendimento e concentrare su di esso le risorse disponibili.
La scuola non è un ammortizzatore sociale con il compito di assumere i diplomati e i laureati che il mercato del lavoro non riesce ad assorbire. Ad essa è attribuita la funzione di preparare adeguatamente i giovani al lavoro ed a una cittadinanza attiva e responsabile.
Proprio grazie alla scuola i "capaci e meritevoli", anche "privi di mezzi", devono accedere a una ripristinata mobilità sociale, idonea a premiare il merito e a rendere così più dinamico ed efficiente l'intero paese.
Tra gli intellettuali italiani impegnati a promuovere una radicale riforma del sistema scolastico si distingue per coerenza e lucidità il professor Dario Antiseri. Egli ne auspica un rinnovamento imperniato sul principio di sussidiarietà, sui "buoni scuola" e sui "crediti d'imposta", sull'abolizione del "valore legale" dei titoli di studio.
Le considerazioni di Antiseri, chiare sotto il profilo dei principi ispiratori, vanno invece sviluppate e precisate da un punto di vista tecnico giuridico e quanto alla loro compatibilità con le norme costituzionali.
A proposito dei "buoni" e dei "crediti" l'obiezione più frequente fa riferimento alla disposizione "Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato" (art. 33 Cost.). Si tratta di un rilievo superabile se si tiene conto che, con un insegnamento di qualità almeno equivalente, all'attribuzione dei buoni ed alle minori entrate fiscali corrisponde una minor spesa per le scuole statali.
Più complessa è la questione dell'abolizione del "valore legale" dei titoli di studio. La proposta intende rispondere ad un problema grave. Attualmente atenei ed istituti fanno spesso a gara nel rilasciare lauree e diplomi con maggior facilità invece di competere sul piano della qualità dell'insegnamento.
Ma, da un lato, del concetto di "valore legale" appare difficile dare una definizione generale sulla base della legislazione vigente. Da un altro, bisogna fare i conti con il dettato costituzionale: "E` prescritto un esame di Stato per l'ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi e per l'abilitazione all'esercizio professionale" (art. 33 Cost).
Da un altro lato ancora, pur riguardando la difficoltà soprattutto le pubbliche amministrazioni, rimane in primo piano la necessità di fissare criteri e strumenti che consentano ad esse di confrontarsi in modo semplice, controllabile ed efficace con la prevedibile ulteriore proliferazione di corsi, istituti e titoli.
La proposta abolizione del "valore legale" insomma non può non essere tradotta in una riforma della certificazione pubblica della qualità dell'insegnamento e della preparazione personale. Certificazione che dovrà essere rigorosa, con effetti ben definiti e rispettosa della libertà dell'impresa e dell'insegnamento. Come sempre pare da privilegiare un approccio comparativo, che conduca ad un attento esame delle soluzioni adottate nei paesi dove libertà e qualità dell'insegnamento superiore raggiungono un livello soddisfacente.


giovedì 25 novembre 2010

Un approccio comparativo, uno sguardo globale. Come si bara nel dibattito pubblico italiano.

In Italia si guarda troppo poco fuori dei confini nazionali. Ma è sbagliato imputare ciò a semplice provincialismo. In realtà, nel dibattito pubblico, più spesso si tratta di uno stratagemma per ingannare e fuorviare. L'attenzione alla situazione internazionale ed il confronto con ciò che accade nelle altre democrazie possono infatti determinare il rovesciamento di giudizi e decisioni.
Anche nel Secondo dopoguerra il nostro paese è stato segnato da conflitti politici e culturali durissimi. Non sembra eccessivo parlare di una guerra civile strisciante, per certi aspetti tuttora in atto. Nessun colpo è stato escluso. Perfino storiografia, dottrina giuridica, giurisprudenza e riflessione sulla scienza hanno costituito terreno di scontro. In un dibattito pubblico siffatto un approccio comparativo ed uno sguardo globale fanno la differenza. Due esempi risultano particolarmente significativi.
Lo schieramento politico dell'Italia repubblicana si è distinto in ambito occidentale per l'egemonia sulla sinistra a lungo esercitata da un forte ed influente partito comunista. Mentre nelle altre democrazie occidentali tale ruolo dominante è stato svolto a sinistra da partiti socialdemocratici o genericamente progressisti.
Il giudizio storico sul Partito comunista italiano è importante per l'individuazione di eventuali responsabilità morali e politiche dei suoi dirigenti. Ma non è privo di rilevanza per l'indagine storico-politica sulle formazioni che ne hanno accolto l'eredità. Se isoliamo certi atti dal contesto storico internazionale ci apparirà un partito genuino protagonista e fautore della democrazia nazionale. Se invece consideriamo relazioni e rapporti di forza internazionali, ma soprattutto la documentazione di fonte sovietica resa disponibile con la caduta dell'URSS, vedremo una forza politica largamente dipendente dalle direttive e dai finanziamenti sovietici.
Così nelle aspre discussioni sul ruolo, sulle prerogative, sulle attribuzioni, sulla posizione costituzionale dei pubblici ministeri e della pubblica accusa. Certe proposte di riforma assumono un senso differente se si prendono in considerazione le soluzioni tradizionalmente adottate nelle altre democrazie liberali.
Giudizi affrettati o più spesso ingannevoli e fuorvianti possono in questo modo essere ribaltati e smascherati. Purchè tutti possano parlare liberamente. Sempre più spesso in Italia si ritiene di poter esercitare la libertà di espressione impedendo ad altri di esercitarla. La vecchia guerra civile strisciante riprende forza. Occorre la massima attenzione. Essa come i fiumi carsici può riemergere e dilagare. Gli sconfitti sarebbero i lavoratori, i giovani, le famiglie, il risparmio, i diritti e le libertà. I cui veri difensori nel nostro paese si sono tradizionalmente manifestati soprattutto nel segreto delle cabine elettorali.

giovedì 18 novembre 2010

La politica estera italiana. Unione Europea, Stati Uniti, Russia e Turchia.

Sergio Romano


E' del 1993, poco dopo la caduta del regime comunista sovietico, quando il nostro paese stava convulsamente passando alla cosiddetta Seconda repubblica, la Guida alla politica estera italiana di Sergio Romano. L'ex ambasciatore in URSS con quest'opera delineò il percorso della politica estera dell' Italia nel mezzo secolo che va dalla caduta del fascismo alla fine dell'Unione Sovietica.
L'Italia era un paese sconfitto, inserito nell'area di influenza occidentale e afflitto da gravi problemi politici, economici e sociali. Alleata degli Stati Uniti aveva al proprio interno, eredità della sua anomala Resistenza, un forte e influente partito comunista, in questi lunghi decenni diretto e finanziato dai sovietici.
L'altro punto di riferimento della politica estera italiana era la Comunità europea, guidata dall'asse "carolingio" franco - tedesco. L'intesa tra Francia e Germania Federale, come scrive lo stesso Romano su Panorama del 18 novembre 2010, "era costruita su una forte convenienza reciproca e sulla condivisione di alcuni ideali. La Germania era il partner economico più forte, ma doveva espiare le colpe del Terzo Reich, era divisa, non aveva la forza militare della Francia. La Francia era economicamente più debole, ma poteva fare valere, nel sodalizio, il suo titolo di potenza vincitrice e nucleare. Insieme i due paesi avevano il peso necessario per garantire l'approvazione della loro linea. Anche coloro a cui l'asse non piaceva dovevano riconoscere che dava un contributo al progresso della costruzione europea".
La politica estera italiana è stata in questo periodo la conseguenza di tali premesse: ambigua, velleitaria, nel contempo ondivaga e durevolmente contenuta in uno stretto spazio di oscillazione. Con un'incisiva espressione Sergio Romano, nell'opera citata (pag.11), parla di "microgollismo" della nostra diplomazia.
Dall'inizio degli anni Novanta ad oggi sono cambiate tante cose. L'Unione Sovietica non c'è più. La globalizzazione ha fatto emergere nuove potenze mentre quelle occidentali si sono relativamente indebolite, in particolare gli Stati Uniti, fiaccati non solo dalla crisi economica determinata dall'eccessivo consumo a debito, ma anche dall'erosione delle tradizionali fondamenta culturali e morali della loro struttura politico-sociale.
Nella stessa Unione Europea l'asse franco - tedesco ha mutato profondamente natura, perdendo la connotazione ideale e strategica che lo caratterizzava, come fa notare il professor Romano nel suo scritto su Panorama.
Un dato appare particolarmente importante nell'Italia degli ultimi venti anni: la nascita di un tendenziale bipolarismo, l'alternanza tra governi di centrodestra e di centrosinistra. In politica estera, mentre i governi di centrosinistra hanno tentato di riprendere l'impostazione tradizionale dei primi decenni repubblicani, pur essendone venuti meno i presupposti, i governi di centrodestra hanno provato ad approfittare dei nuovi spazi e delle mutate opportunità, con alterni risultati.
Tra i loro successi vanno segnalati il significativo contributo al riavvicinamento tra Russia e Alleanza Atlantica e la cosiddetta diplomazia commerciale, molto attiva in particolare nell'Est Europa, nei Balcani, in Nord Africa e nel Vicino Oriente.
Recentemente il ministro degli esteri Franco Frattini ha indicato in una intervista all'Occidentale le linee essenziali della attuale politica estera italiana.
Secondo Frattini "più che in termini di "bastione", come abbiamo fatto per decenni, dovremmo... abituarci ben presto - e un po' tutti - a ragionare in termini di una NATO quale possibile cerniera strategica di sicurezza fra Oriente ed Occidente. Ed in questo disegno Mosca è chiamata a fare la sua parte non in contrapposizione ma insieme all'Alleanza Atlantica".
A proposito della Turchia ha detto: "Alla Turchia non va applicata una strategia di "containment", al contrario Ankara deve far parte a pieno titolo del sistema occidentale anche attraverso la sua adesione all'Unione Europea che l'Italia appoggia attivamente".
La diplomazia italiana guidata da Frattini segue anche con la Turchia le linee ormai tradizionali della politica estera degli Stati Uniti. Ma qui si manifesta un problema di ordine generale. L'attrazione nel sistema occidentale di paesi come la Russia e la stessa Turchia, alle prese con eredità storico-culturali che ne frenano il passaggio alla libera democrazia, deve avvenire con una costante realistica attenzione ai risultati via via ottenuti e adottando le necessarie cautele. Doppiezze e riserve mentali devono trovare una ferma opposizione.


mercoledì 10 novembre 2010

Stephen Jay Gould. Anche lo scienziato non sa e non può.


S.J.Gould

Stephen Jay Gould, nato nel 1941 a New York e scomparso nel 2002, è stato un insigne biologo e paleontologo. Ha insegnato ad Harvard e alla New York University. Come storico della scienza e divulgatore ha esercitato una profonda influenza. Le sue opere sono state tradotte in tutto il mondo.
Cresciuto in una famiglia ebrea del ceto medio, con genitori progressisti ed aperti, era agnostico e politicamente vicino alla sinistra radicale americana.
Come scienziato della natura si è dedicato prevalentemente allo studio dell'evoluzione, contribuendo all'elaborazione della teoria degli equilibri punteggiati. Secondo tale teoria, nel corso della lunga storia dell'evoluzione della vita sulla terra, i cambiamenti evolutivi si concentrano in periodi relativamente brevi, a causa di eventi intensamente stressanti.
Ma forse ancor più rilevante è stato il suo contributo alla riflessione sulla scienza. In quest'ambito si è distinto per l'incisivo approccio critico, per la vastità degli interessi e soprattutto per la profonda comprensione degli esiti migliori della filosofia occidentale.
Sono da ricordare, in particolare, le sue idee sulla compatibilità tra fede religiosa e scienza, le sue convinzioni indeterministe, la sua accettazione del dualismo fatti - norme e della inderivabilità delle prescrizioni morali dalle descrizioni della natura (legge di Hume).
Ha sostenuto la compatibilità tra scienza e fede sulla base della distinzione dei loro ambiti. La scienza descrive la natura, mentre la religione si occupa di morale e del rapporto tra l'uomo e la divinità. Gould così sostanzialmente ha ripreso il pensiero di Galileo Galilei, secondo il quale la scienza ci dice come va il cielo, mentre le Scritture ci indicano come si va in Cielo.
Gould, assertore dell'inderivabilità dei valori dai fatti, fu sempre vivace fautore della libertà di coscienza, contrario a ogni positivismo morale. Il vantaggio evolutivo rappresentato da determinati abitudini e comportamenti non ne determina la bontà sotto il profilo morale.
Egli ha spesso messo in rilievo la grande asimmetria tra la costruzione e la distruzione dei sistemi complessi, che sono costruiti lentamente ma possono essere distrutti rapidamente, spesso in pochi istanti da eventi catastrofici. Gould è stato indeterminista non solo rispetto alla natura e all'evoluzione indistintamente, ma anche con riguardo particolare alla storia umana. L'uomo non può prevedere il futuro. Egli ha esposto lucidamente la sua posizione con queste parole, da Le pietre false di Marrakech, ed. 2007, pagg. 366 e 367:

"L'uomo può anche essere l'organismo più intelligente che sia mai apparso sulla faccia della Terra, ma rimane estremamente inetto su certi problemi, specialmente quando l'arroganza emotiva si combina con l'ignoranza intellettuale. L'incapacità di predire il futuro è fra le nostre maggiori inettitudini, non tanto - in questo caso - per un limite del nostro cervello, quanto come conseguenza di principio della genuina complessità e dell'autentico indeterminismo del mondo.
Conosco soltanto un antidoto al pericolo principale derivante da questo miscuglio incendiario di arroganza e ignoranza. Data la nostra incapacità di predire il futuro, e specialmente la nostra frequente incapacità di prevedere, in un futuro non immediato, le funeste conseguenze di fenomeni che inizialmente sembrano insignificanti e addirittura risibili (qualche renna malata di carbonchio oggi, un'intera popolazione umana colpita dall'epidemia domani), un freno morale potrebbe essere la nostra unica àncora di salvezza.
Il buon senso, nella forma vitale di freno morale, è stato sfidato nel modo più serio e grave dagli scienziati che sviluppano tecnologie d'avanguardia e immaginano perciò di poter controllare, o almeno prevedere con precisione, qualsiasi sviluppo futuro. Io faccio parte della comunità degli scienziati, ma vorrei illustrare il valore del freno morale come contrappeso a vie pericolose tracciate o dall'autocompiacimento o da un'attività deliberata, e alimentate dalla falsa fiducia di saper prevedere il futuro."

Di Gould si può leggere in rete questo brillante scritto, compreso anche nell'ultimo volume pubblicato in Italia dello scienziato statunitense, I Have Landed.
Stephen Jay Gould è stato uno dei grandi scienziati capaci di pensare criticamente la scienza. Rappresenta un ottimo rimedio contro i vizi del dibattito sulla scienza in corso nel nostro paese, strumentalizzato ed avvelenato da chi se ne avvale nella guerra politico culturale in atto, soffocandolo nelle angustie di un positivismo di stampo ottocentesco.


venerdì 5 novembre 2010

Movimento del Tea Party. Cosa devono insegnare quelle vecchie casse di tè.

I coloni americani che nel 1773 gettarono il tè inglese nelle acque del porto di Boston erano esasperati non per le tasse troppo alte sul tè bensì, paradossalmente, per l'esenzione da tasse e dazi sul tè stabilita con il Tea Act a favore della Compagnia inglese delle Indie orientali.
La drastica riduzione del carico fiscale consentì alla Compagnia delle Indie di vendere il tè nelle colonie americane a prezzi fortemente ribassati. I commercianti e i contrabbandieri di tè americani furono danneggiati e reagirono buttando in mare le casse di tè della Compagnia. Si trattò soprattutto, insomma, di una questione di concorrenza.
La galassia di gruppi che formano il movimento del Tea Party ha svolto un ruolo decisivo nel passaggio di consensi verso i candidati repubblicani nelle recenti elezioni statunitensi. Meno tasse, meno stato, più trasparenza, ritorno alla Costituzione, più spazio alla iniziativa ed alla libertà individuali, meno potere a Wall Street. Queste le idee guida del movimento.
Le vecchie casse di tè nel porto di Boston devono però ricordare ai sostenitori contemporanei del Tea Party la dimensione globale dei problemi. La libertà che si chiede per l'economia è vantaggiosa in ambito internazionale? A quali condizioni?
Vale poi la pena di chiedersi se uomini come quelli che crearono una grande nazione ci sono ancora. Quei coloni avevano spalle robuste e spesso una solida famiglia alle spalle.
Quanti americani di oggi hanno le qualità necessarie per assumersi la responsabilità di sè e del proprio paese? Quanto è significativa la caduta dell'etica della responsabilità e del lavoro?
Alcune grandi compagnie statunitensi hanno bilanci in ordine e si affermano nei mercati internazionali. Ma quante aziende invece non sono competitive? Quante non sono in grado di affrontare con successo la concorrenza straniera?
Se lo stato diventa più leggero, meno invadente ed oppressivo, gli individui e le imprese, le famiglie, le chiese, le associazioni sapranno riprendere il posto che a loro spetta? La ricostruzione delle istituzioni non basta. Occorre una ricostruzione morale dei cittadini ed una ripresa di quella libertà responsabile che ha fatto grandi gli Stati Uniti.
Il movimento del Tea Party è insieme espressione della crisi presente e motivo di speranza. Per i repubblicani, che porteranno alle urne sostenitori finora non attivi elettoralmente. Per il paese, che ha bisogno di trovare in una tradizione rinnovata e ravvivata ragioni, strumenti ed obiettivi per risalire la china.
Ma devono emergere leaders capaci di coordinare spinte contraddittorie, di trasformare in efficiente amministrazione aspirazioni, sentimenti e volontà che nascono anche dal rifiuto di fare i conti con la complessità dei problemi.
In bocca al lupo USA!


lunedì 1 novembre 2010

Teoria del complotto o della cospirazione. La leggenda che allontana dalla verità e aiuta i peggiori.






Soprattutto in periodi di crisi vengono con insistenza proposte spiegazioni complottiste e cospirative dei mali che ci affliggono. Essi sarebbero in larga misura il frutto intenzionale dell'opera di potenti, o gruppi di potenti, cinici ed avidi. Si tratta di una lettura della realtà irrazionale, errata e fuorviante. Perchè i potenti non sono abbastanza potenti, sbagliano, ignorano. La loro condotta produce conseguenze impreviste, non volute.
Le teorie del complotto affascinano. Forniscono una spiegazione facile ed immediata, ma ci allontanano dalla verità, che raramente è evidente, manifesta. La realtà è sotto i nostri occhi, ma è complessa, sfuggente. Se vogliamo tentare seriamente di risolvere i nostri problemi dobbiamo accettare la complessità, fare i conti con essa, lavorare duramente per scoprire errori, responsabilità e possibilità. Che, appunto, sono visibili ma difficili da leggere, da comprendere, da realizzare. Quando un intellettuale imputa i nostri guai a complotti e cospirazioni, se non ci sta vendendo un romanzetto, diffidiamo. Difficilmente ci dirà cose interessanti.


Scrive Karl Popper in Congetture e confutazioni (pagg. 580 e 581 - ed. 2000):

la "teoria sociale della cospirazione... E' l'opinione secondo cui tutto quel che accade nella società - comprese le cose che la gente, di regola, non ama, come la guerra, la disoccupazione, la povertà, le carestie - sono il risultato di un preciso proposito perseguito da alcuni individui, o gruppi potenti. Quest'opinione è assai diffusa, anche se si tratta, in certo senso, indubbiamente, di una specie di superstizione primitiva... è, nella sua forma moderna, il tipico risultato della secolarizzazione delle superstizioni religiose."

"Contro questa teoria sociale della cospirazione non sostengo, ovviamente, che le cospirazioni non abbiano mai luogo. Affermo invece due cose: in primo luogo, che non sono molto frequenti e non modificano le caratteristiche della vita sociale. Supposto che le cospirazioni cessino, ci troveremmo ancora di fronte, fondamentalmente, agli stessi problemi di sempre.
In secondo luogo, sostengo che esse riescono assai di rado. I risultati conseguiti, di regola, differiscono ampiamente da ciò cui si mirava (si pensi, ad esempio, alla cospirazione nazista)".

"...comprendiamo, chiaramente, che non tutte le conseguenze delle nostre azioni sono intenzionali, e dunque, che la teoria sociale della cospirazione non può essere vera, perché equivale all'asserzione che tutti gli eventi, anche quelli a prima vista non premeditati da alcuno, sono l'esito deliberato dell'azione di coloro che ad essi miravano per interesse".

Concetti analoghi Popper ha espresso nella Società aperta e i suoi nemici, in particolare nel suo capitolo quattordicesimo.

Per la comprensione del problema è ancora utilissima la lettura del Saggio sui potenti di Piero Melograni (ed. 1977), che scrive (pag. 123):

"Ma in tutti i luoghi l'assetto politico-sociale è il risultato di tendenze e di forze numerose e complesse, materiali e spirituali, razionali e irrazionali, difficilmente controllabili. Nel continuo, intricato, ondeggiante accavallarsi di tutte queste forze e tendenze deve essere cercata la spiegazione delle diverse situazioni storiche nelle quali gli individui e le collettività si trovano concretamente ad operare. Gli stessi capi... sono profondamente condizionati e spesso addirittura travolti dalla circostante realtà".



domenica 24 ottobre 2010

Victor Zaslavsky. Una vita per la libertà e la verità.

Il professor Victor Zaslavsky è nato a San Pietroburgo, allora Leningrado, nel 1937. Suo padre, professore di metallurgia, era un "vecchio bolscevico", cioè era entrato nel partito prima del 1917. Sua madre, medico, divenne membro del partito due anni dopo la rivoluzione d'Ottobre. Come altri bolscevichi del periodo rivoluzionario che riuscirono a sopravvivere al Terrore staliniano furono da questo duramente colpiti nelle convinzioni e negli affetti.
Victor Zaslavsky intraprese lo studio della sociologia quando già esercitava la professione di ingegnere minerario. Passò successivamente al lavoro universitario. Costretto ad emigrare con la sua famiglia si stabilì in Canada, ottenendone la cittadinanza. Insegnò in università statunitensi e canadesi. Negli ultimi anni ha insegnato sociologia politica in Italia. E' scomparso nel 2009. Sua moglie e collaboratrice è stata la professoressa Elena Aga Rossi, insigne storica dell'Italia contemporanea e della Guerra Fredda.
Si deve principalmente al professor Zaslavsky il recente profondo rinnovamento della storiografia relativa al Partito comunista italiano. Egli, avvalendosi della conoscenza del russo, sua lingua madre, dell'esperienza diretta della Russia sovietica e soprattutto della possibilità di consultare fondamentali documenti conservati negli archivi russi, ha riscritto la storia del comunismo italiano collocandolo in un contesto internazionale.
Alla luce delle direttive sovietiche e dei rapporti di forza tra le grandi potenze, le decisioni dei dirigenti comunisti italiani e le vicende del partito sono state rilette e ricostruite su basi nuove e realistiche, abbandonando l'impostazione apologetica prevalente nell'opera degli storici italiani.
A Victor Zaslavsky va anche riconosciuto il merito di aver posto con chiarezza il problema dell'eredità politica e culturale lasciata dal vecchio partito comunista italiano, nonchè di aver sollevato con coraggio la questione della responsabilità morale e politica dei dirigenti e degli intellettuali italiani che fino al crollo dell'Unione Sovietica ne hanno agevolato l'azione e favorito l'influenza.
Scrive Zaslavsky nel suo fondamentale "Lo stalinismo e la sinistra italiana" (pag. 8 e 39):

"Ci sono purtroppo numerosi indizi significativi che i conti con lo stalinismo non sono stati ancora fatti e che l'eredità totalitaria continua a pesare sulla società italiana. Ancora oggi persistono la cultura politica della divisione del mondo in due campi, la mentalità della lotta permanente che necessita di avere un "altro" come nemico; l'esagerazione dei contrasti e il rifiuto dell'azione politica bipartisan; la mobilitazione sociale costante, i cui tradizionali scopi, bersagli e metodi risalgono ai totalitarismi del secolo passato".

"Per l'insieme dei dirigenti politici e degli intellettuali si pone con tutta la sua gravità il problema della complicità con un regime totalitario. Stabilire il grado di questa complicità dovrebbe diventare uno dei compiti dello storico che, facilitato dalla distanza temporale e basandosi su documenti e su testimonianze, cerchi di arrivare a una sua imparziale valutazione".

In rete Zaslavsky si può leggere qui:


http://www.ideazione.com/rivista/1998/marzo_aprile_1998/agarossi_zaslavski_2_98.htm

http://www.loccidentale.it/autore/victor+zaslavsky


Tra le principali opere pubblicate in Italia di Victor Zaslavsky da segnalare il notevole Lo stalinismo e la sinistra italiana, già citato.
Poi Storia del sistema sovietico. L'ascesa, la stabilità, il crollo.
Quindi, con Elena Aga Rossi, Togliatti e Stalin - Il PCI e la politica estera staliniana negli archivi di Mosca.

Sempre validissimo, per uno sguardo approfondito sulla Russia del Novecento, é:

Mihail HELLER e Aleksandr NEKRIC, Storia dell'Urss. Dal 1917 a Eltsin.

venerdì 15 ottobre 2010

Luigi Einaudi. Un liberale contro il proporzionalismo.





Luigi Einaudi (1874 - 1961) è stato uno degli esponenti più autorevoli, lucidi ed influenti del liberalismo italiano.
Laureato in giurisprudenza, fu professore universitario e giornalista. Senatore del Regno già nel 1919, con l'avvento del regime fascista la sua attività subì progressive limitazioni.
Si rifugiò in Svizzera dopo l'8 settembre 1943 e rientrò in Italia nel 1944. Nel 1946 fu eletto deputato all'Assemblea costituente. Dal 1945 al 1948 fu governatore della Banca d'Italia. Con De Gasperi presidente del Consiglio fu titolare di ministeri economici. Nel maggio 1948 diventò il secondo presidente della Repubblica italiana.
Nell'ambito del liberalismo italiano si distinse per la sua concezione unitaria della libertà, tratta dalla tradizione dei paesi di lingua inglese. Per Einaudi ogni aspetto della libertà contribuisce alla sua affermazione. Le libertà civili ed economiche sono interdipendenti e tutte necessarie alla realizzazione di una società liberale. In un articolo del 1944 espresse la sua radicale opposizione ai sistemi elettorali proporzionali, unitamente ad una visione del ruolo del parlamento pragmatica e dominata dalla preoccupazione di assicurare al paese governi stabili ed efficienti:

"È necessario dichiarare invece apertamente che questa della rappresentanza delle opinioni è, come tante altre, come ad esempio quella della autodecisione dei popoli o della separazione assoluta del potere legislativo da quello esecutivo o della sovranità dei parlamenti sui governi, e, peggiore di tutte, della sovranità piena degli stati indipendenti, una concezione distruttiva, anarchica, inetta a dar vita a governi saldi".

"I parlamenti non sono società di cultura od accademie scientifiche. Sono organi, il cui scopo unico è quello di formare governi stabili e di controllarne l'azione. Come disse il primo ministro del primo governo laburista, Ramsay Mac Donald, le elezioni non si fanno per contare le opinioni... ma si fanno per mettersi d'accordo in primissimo luogo sul nome della persona che in qualità di primo ministro sarà chiamato a governare il paese, e in secondo luogo sul nome di coloro che collaboreranno con lui o che ne criticheranno l'operato. Le elezioni hanno cioè per scopo di creare il consenso (consensus e non census) intorno ad un uomo ed al suo gruppo di governo ed intorno a chi oggi sarà il suo critico e domani ne prenderà il posto se gli elettori gli daranno ragione. Se non si vuole l'anarchia, questo e non una sterile accademica rassegna di opinioni è lo scopo unico preciso di un buon sistema elettorale".

"Vogliamo che il numero dei partiti, dei gruppi, dei sottogruppi parlamentari si moltiplichi all'infinito? Dobbiamo in tal caso scegliere la proporzionale; ma dobbiamo nel tempo stesso sapere che, così facendo, avremo fatto quel che meglio si poteva per impedire il funzionamento di un governo solido, duraturo ed operoso".

"In fondo, la proporzionale è il trionfo delle minoranze; ognuna delle quali ricatta le altre ed il governo, il quale dovrebbe essere l'espressione della maggioranza, per costringere parlamenti e governi a votare e proporre leggi volute dai singoli gruppi".

"L'errore massimo di principio della proporzionale è di confondere la lotta feconda delle parti, dei gruppi, degli ideali, dei movimenti, la quale ha luogo nel paese, con la deliberazione e l'azione dei parlamenti e dei governi".

Una lezione alta ed ancora pienamente attuale.

venerdì 8 ottobre 2010

Nobel per la pace al dissidente cinese Liu Xiaobo. Per Obama non cambia niente.

Gli stessi ambienti politico-culturali che hanno deciso l'attribuzione ad Obama del Nobel per la pace questa volta hanno conferito il prestigioso premio al dissidente cinese Liu Xiaobo.
Da tempo i rapporti tra USA e Cina sono tesi. Commercio, valute, crisi coreana e Taiwan rappresentano i principali problemi in discussione. Il Nobel di oggi, mentre difende principi irrinunciabili, mette in difficoltà sotto il profilo dell'immagine un competitore duro, sempre meno disposto a compromessi, ma non muta significativamente il quadro dei rapporti internazionali.
Anche in questo ambito la posizione del presidente americano sembra molto difficile. In Afghanistan si prepara un'uscita di scena che assume sempre più i tratti del fallimento, della resa. Obama ha investito le risorse del proprio paese in una guerra che non si può vincere, quella afghana, ponendo a rischio il faticoso successo ottenuto da Bush in Iraq.
I militari iracheni sanno di non essere autosufficienti per almeno altri dieci anni e si oppongono al ritiro USA, che dovrebbe avvenire entro il 2011. Perfino l'ex ministro di Saddam Tarek Aziz afferma che in questo modo il suo paese sarà "lasciato in mano ai lupi".
Obama, espressione di una cultura politica che ha perso ogni genuino contatto con la realtà, prigioniero della propria propaganda, si comporta ogni giorno di più come il liquidatore della potenza americana.
L' intenzione di fronteggiare la nuova emergenza irachena con il ricorso a molte migliaia di contractors mostra tutta la sua inadeguatezza di fronte a problemi che richiederebbero ben altre risorse politiche, morali e materiali. Gli USA sono sempre di più la "tigre di carta" che la satira di regime maoista allora poteva soltanto sognare.


giovedì 30 settembre 2010

Fede e ragione. "Quando sono debole, è allora che sono forte".

Il Cristianesimo si rivolge all'uomo nella sua interezza, quindi non solo al cuore ma anche alla ragione. Il suo nucleo è costituito dalla cristologia, cioè da quanto attiene a Gesù Cristo, alla sua morte e risurrezione. E' del tutto privo di caratteristiche esoteriche. Si offre tutto alla conoscenza di tutti. Non ci sono parti della dottrina cristiana riservate alla conoscenza di iniziati. Questa sua apertura è talmente netta da fargli assumere significativi tratti antintellettualisti.
Nel corso della sua storia millenaria è venuto a contatto con le più importanti correnti filosofiche. Il Magistero della Chiesa cattolica ne ha utilizzato quando necessario l'apparato concettuale per presentare, diffondere e difendere il messaggio cristiano, quindi prevalentemente nella prospettiva apologetica.
Individuerei in particolare due linee di sviluppo dottrinale, sempre ricondotte ad una visione sostanzialmente unitaria, segnate da accentuazioni diverse e non prive di qualche elemento apparentemente divergente.
La prima pone in rilievo la capacità umana di cogliere oggettive ed assolute verità metafisiche e morali. L'uomo già con le sue sole facoltà razionali sarebbe in grado di avvicinarsi alla Rivelazione, di predisporsi ad essa, perfino di conseguire, sia pure assai confusamente ed imperfettamente, alcuni suoi contenuti.
A questa linea è riconducibile, ad esempio, questo passo dell'enciclica Humani Generis di Pio XII:

"Benché la ragione umana, assolutamente parlando, con le sue forze e con la sua luce naturale possa effettivamente arrivare alla conoscenza, vera e certa, di Dio unico e personale, che con la sua Provvidenza sostiene e governa il mondo, e anche alla conoscenza della legge naturale impressa dal Creatore nelle nostre anime, tuttavia non pochi sono gli ostacoli che impediscono alla nostra ragione di servirsi con efficacia e con frutto di questo suo naturale potere".


La seconda linea invece mette in evidenza l'insufficienza della sapienza umana e la radicale novità della Rivelazione, indicando nella consapevolezza dei limiti e della debolezza di tale sapienza una condizione necessaria per l'accoglienza della salvezza che Dio ci offre. Questa via sembra percorrere Giovanni Paolo II nel seguente brano della sua enciclica Fides et Ratio:

" Il rapporto del cristiano con la filosofia, pertanto, richiede un discernimento radicale. Nel Nuovo Testamento, soprattutto nelle Lettere di san Paolo, un dato emerge con grande chiarezza: la contrapposizione tra "la sapienza di questo mondo" e quella di Dio rivelata in Gesù Cristo. La profondità della sapienza rivelata spezza il cerchio dei nostri abituali schemi di riflessione, che non sono affatto in grado di esprimerla in maniera adeguata.
L'inizio della prima Lettera ai Corinzi pone con radicalità questo dilemma. Il Figlio di Dio crocifisso è l'evento storico contro cui s'infrange ogni tentativo della mente di costruire su argomentazioni soltanto umane una giustificazione sufficiente del senso dell'esistenza. Il vero punto nodale, che sfida ogni filosofia, è la morte in croce di Gesù Cristo. Qui, infatti, ogni tentativo di ridurre il piano salvifico del Padre a pura logica umana è destinato al fallimento. " Dov'è il sapiente? Dov'è il dotto? Dove mai il sottile ragionatore di questo mondo? Non ha forse Dio dimostrato stolta la sapienza di questo mondo? " (1 Cor 1, 20), si domanda con enfasi l'Apostolo. Per ciò che Dio vuole realizzare non è più possibile la sola sapienza dell'uomo saggio, ma è richiesto un passaggio decisivo verso l'accoglienza di una novità radicale: " Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti [...]; Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono " (1 Cor 1, 27-28). La sapienza dell'uomo rifiuta di vedere nella propria debolezza il presupposto della sua forza; ma san Paolo non esita ad affermare: " Quando sono debole, è allora che sono forte " (2 Cor 12, 10)"

Si tratta, come detto, di una diversa accentuazione di elementi tutti presenti nelle Scritture e nella Tradizione. E la differenza non cade sulla parte centrale della fede cristiana, rappresentata dalla cosiddetta cristologia.
Viene in sostanza in questione l'approccio apologetico da adottare. E allora vale la pena di considerare con attenzione le opinioni del professor Dario Antiseri che, indagando il possibile rapporto tra fede e ragione, prende le mosse dalla tendenza per seconda esaminata e propone un approccio alla fede cristiana imperniato su una concezione critica della ragione umana. Arrivando a valutare favorevolmente perfino gli esiti relativistici dell'etica contemporanea che, quando demolisce gli assoluti terrestri, fa spazio alla Rivelazione cristiana. Antiseri si richiama al pensiero di Pascal anche nella critica della morale naturale e del diritto naturale.
Egli scrive:

"In realtà, sebbene non sia stata l'unica, persiste nel mondo cattolico una tradizione che, dichiarandosi come la sola filosofia cristiana ortodossa, sostiene che c'è un sapere razionale con "tratti di oggettività e magari di incontrovertibilità" in grado di portare alla dimostrazione dell'esistenza di entità metaempiriche. La ragione, insomma, dimostrerebbe l'esistenza di quell'Ente metaempirico che poi il cristiano individuerebbe nel Dio di Gesù Cristo. E' così che la metafisica, dimostrando l'esistenza di Dio, appronterebbe i praeambula fidei configurandosi come ancilla theologie".

"Ad una ragione forte (o supposta tale), troppo sicura di sé e che presume di dimostrare la negazione dello spazio della fede ovvero, viceversa, di dimostrare l' esistenza di enti metaempirici, si è venuta progressivamente sostituendo un'idea di razionalità sempre più consapevole dei suoi limiti e che impone di reimpostare la questione dei rapporti tra ragione e fede. Di contro ad una ragione fondazionista e giustificazionista si impone una ragione non-giustificazionista stando alla quale la scienza non offre certezze, l'etica è senza verità, le metafisiche sono prive di fondamenti assoluti.
In tale prospettiva...svaniscono le dimostrazioni certe o magari incontrovertibili dell'esistenza di Dio ovvero della negazione dell'esistenza di Dio. Al loro posto subentra uno spazio di possibilità dove si fa ineludibile, perché ineludibile è la "grande domanda", la scelta atea o quella di fede". (D. ANTISERI, Cristiano perché relativista, relativista perché cristiano, 2003, pagg. 4 e 5)

E poi ancora:

"Per un cristiano, ciò che è bene e ciò che è male lo stabilisce il Vangelo o la ragione umana? E se lo stabilisse la ragione umana, non dovremmo allora dare ragione ai sostenitori della “dea ragione”, per i quali “mestier non era parturir Maria”?
Per un cristiano solo Dio è assoluto, per cui tutto ciò che è umano non può essere che storico, contestabile, relativo.
Il cristiano, pena la sua metamorfosi in idolatra, può predicare l’assolutezza di qualche cosa umana, comprese le proposte etiche?"

" L’umana ragione non è capace di fondare in modo univoco e incontrovertibile i valori, e la morale non trova il suo porto nella ragione. Lo trova nella fede, nel Dio dei cristiani. “La vera religione c’insegna i nostri doveri”. La vera giustizia è quella “secondo a Dio piacque di rivelarcela”. Solo Dio è “il vero bene” dell’uomo. In fondo, tutti i nostri “lumi” potranno solo farci conoscere che in noi non troveremo “né la verità né il bene”. In breve, “senza la fede l’uomo non può conoscere né il suo vero bene né la giustizia”. E la fede cristiana – dono da parte di Dio e scelta da parte dell’uomo – è una fede che va predicata, proposta e testimoniata, e non imposta. E se Pascal ha ragione, la presunzione di sapere, di conoscere, al di fuori della Sacra Rivelazione, che cosa sia il vero bene, non è forse una presunzione anticristiana? "





Come non pensare appunto a san Paolo che afferma: "Quando sono debole, è allora che sono forte "?



venerdì 24 settembre 2010

Le difficoltà di Obama e la crisi americana.

La ripresa economica americana è più lenta e debole del previsto. La popolarità di Obama scende mentre tra poco più di un mese le elezioni di midterm potrebbero rovesciare l'attuale maggioranza al Congresso. Gli Stati Uniti sono oggi come due anni fa un paese diviso e disorientato. Lo stesso disorientamento che ha portato Obama alla presidenza oggi, in altre direzioni e con differenti modalità, determina il successo del Tea Party.
Ma le ragioni profonde della crisi restano troppo spesso in ombra. La globalizzazione rapida e senza regole ha messo a nudo problemi di produttività e di competitività soltanto in parte mascherati dal successo di alcune grandi compagnie. Appare insostenibile una crescita stimolata dal debito privato ed ora anche da quello pubblico. La disgregazione delle famiglie, l'indebolirsi dell'etica del lavoro e della responsabilità, l'insufficiente propensione al risparmio individuale e familiare, l'inefficienza della scuola pubblica, la diffusione di stili di vita autodistruttivi minano i pilastri di una ripresa economica diffusa e solidamente proiettata nel futuro.
Le riforme di Obama, dirette a tamponare la crisi con l'imponente ricorso alla spesa pubblica e con discussi interventi in ambito assistenziale, non incidono realmente su quelle fondamenta sociali e morali che sono chiamate a reggere il paese ed a consentirne un solido sviluppo. Si tratta del resto di ambiti dove le tradizioni svolgono un ruolo decisivo. Esiste una significativa asimmetria tra la capacità dello stato di contribuire alla distruzione di un assetto tradizionale tramite riforme dalle conseguenze spesso impreviste e l'idoneità dello stato stesso a promuovere ed a consolidare altre auspicate tradizioni. Qui distruggere è assai più facile che costruire.
Occorre insomma ottenere una consapevolezza più precisa delle ragioni profonde della debolezza del paese ed assumere comportamenti conseguenti, abbandonando visioni e programmi che di questa debolezza sembrano insieme causa ed espressione. Con l'obiettivo di ricostruire una solida e vitale democrazia liberale, capace di confrontarsi con successo con il rinnovato autoritarismo cinese.
Se Obama non rinnegherà se stesso, le sue promesse ed i suoi programmi del suo grande paese potrà essere solo il liquidatore, il curatore fallimentare. E non per molto. Questo video, uno spot di Sarah Palin, mostra un'America profonda che noi europei spesso non comprendiamo. La sua reazione può ancora sorprendere. Vedremo quale direzione prenderà.




mercoledì 15 settembre 2010

Il nuovo autoritarismo nell'età della globalizzazione. I problemi di efficienza delle democrazie liberali.

Nell'economia globalizzata gli imprenditori si procurano ormai liberamente i fattori della produzione in qualsiasi parte del mondo, dove sono più convenienti, mentre i consumatori acquistano beni e servizi provenienti anche dai paesi più lontani.
Queste relazioni collegano gli interi sistemi paese come vasi comunicanti. Si produce una pressione ad uguagliare tutti gli elementi che determinano, anche indirettamente, la convenienza dei fattori della produzione, dei prodotti e dei servizi. 
Tali elementi comprendono le caratteristiche della pubblica amministrazione, la presenza e il modo di operare di partiti e sindacati, perfino le forme di stato e di governo. Sono rilevanti la prontezza dei governi a prendere decisioni, la rapidità nell'eseguirle, la loro capacità di fare, tener fermi ed attuare programmi a lunga scadenza, di imporre la costruzione di infrastrutture necessarie a comunità locali recalcitranti, di influire adeguatamente sulla propensione di individui e famiglie al risparmio ed al differimento della soddisfazione dei desideri.
Bisogna francamente ammettere che i rinnovati regimi autoritari del Ventunesimo secolo, tra i quali il cinese rappresenta ormai un modello, eliminati o ridotti i tratti di ferocia ed ottusità che prima li caratterizzavano pesantamente, costituiscono ormai sotto questo profilo antagonisti delle democrazie liberali assai insidiosi.
Tali democrazie tendono al contrario ad avere processi decisionali pubblici lenti e farraginosi, a subordinare l'azione dei governi alle tendenze ondivaghe dell'opinione pubblica sotto la pressione di scadenze elettorali ravvicinate, a subire eccessivamente il condizionamento dei sindacati. Esistono insomma per le democrazie occidentali evidenti problemi di efficienza.
Quali soluzioni? Premesso che le tradizioni in questo ambito rivestono un ruolo molto importante e si formano in larga misura spontaneamente, occorre riconoscere che le riforme ipotizzabili sembrano assai impopolari.
Si dovrebbe limitare il ruolo degli istituti di democrazia diretta, rafforzare per converso i tratti rappresentativi delle istituzioni democratiche, diradare le consultazioni elettorali, diminuire il peso dei parlamenti, soprattutto escludendo la possibilità di modificare i provvedimenti di spesa presentati dai governi al vaglio dei parlamenti stessi, adottare sistemi elettorali intensamente maggioritari su base nazionale, favorire la stabilità dei governi, circoscrivere attentamente le competenze delle autonomie locali.
Svolta autoritaria? Morte della libera democrazia? No! Ritorno al suo ruolo essenziale di consentire la sostituzione dei governi cattivi senza spargimento di sangue, seguendo percorsi istituzionali predeterminati. Nell'Atene democratica classica Pericle pose a fondamento e giustificazione della democrazia rappresentativa il principio secondo il quale non tutti possono governare, ma tutti devono poter giudicare chi governa. Troppo a lungo ci siamo allontanati da questa corretta visione delle possibilità e del ruolo della democrazia.



giovedì 9 settembre 2010

Libertà religiosa e tolleranza. Libertà e tolleranza non devono essere causa della propria distruzione


Negli Stati Uniti la proposta di costruire una moschea a Ground Zero ha determinato una accesa controversia tra favorevoli e contrari. I primi, tra i quali il sindaco Bloomberg e lo stesso presidente Obama, hanno invocato i principi costituzionali di libertà religiosa e di tolleranza.
Però il richiamo di Obama a tali principi presta il fianco ad obiezioni fondamentali. In realtà libertà e tolleranza non solo possono ma devono essere limitate e regolate. Va poi sottolineato che le religioni sono molto diverse tra loro quanto a contenuti ed effetti sul piano sociale, culturale, istituzionale e perfino economico.
Solo regole e limiti possono garantire a tutti uguale libertà e tolleranza. Ed ancora solo regole e limiti possono evitare che libertà e tolleranza siano causa della propria distruzione. Uno dei più lucidi ed influenti intellettuali liberali del Novecento, Karl Popper, scrive nella Società aperta e i suoi nemici, nota 4 al capitolo settimo del volume primo:

"Se estendiamo l'illimitata tolleranza anche a coloro che sono intolleranti, se non siamo disposti a difendere una società tollerante contro l'attacco degli intolleranti, allora i tolleranti saranno distrutti, e la tolleranza con essi."

"Noi dovremmo quindi proclamare, in nome della tolleranza, il diritto di non tollerare gli intolleranti. Dovremmo insomma proclamare che ogni movimento che predica l'intolleranza si pone fuori legge e dovremmo considerare come crimini l'incitamento all'intolleranza e alla persecuzione, allo stesso modo che consideriamo un crimine l'incitamento all'assassinio, al ratto o al ripristino del commercio degli schiavi."

Molto importante è inoltre porre in rilievo che non tutte le religioni sono compatibili con le istituzioni libere e la società aperta. Oggi l'esigenza di osservare i canoni del "politicamente corretto" prevale sul rispetto della verità. Ma non è sempre stato questo l'approccio prevalente. I grandi precursori del pensiero liberale non erano certo dominati da tali preoccupazioni.
Significative le parole di Tocqueville nella Democrazia in America, libro terzo, parte prima, capitolo quinto:

"... nel Corano non solo dottrine religiose, ma anche massime politiche, leggi civili e criminali e teorie scientifiche. Il Vangelo, invece, parla solo dei rapporti generali degli uomini con Dio e fra loro. Al di fuori di questo non insegna nulla e non obbliga a credere nulla. Questo soltanto, fra mille altre ragioni, basta a mostrare che la prima di quelle due religioni non può dominare a lungo in tempi di...democrazia, mentre la seconda è destinata a regnare anche in quei secoli come in tutti gli altri."

E, prima di lui, Montesquieu, nel libro ventiquattresimo, capitoli quarto e terzo dello Spirito delle leggi:

"Per quanto riguarda il carattere della religione cristiana e quello della religione musulmana, si deve senz'altro abbracciare l'una e respingere l'altra: perchè per noi è molto più evidente che una religione debba addolcire i costumi degli uomini, di quanto non sia evidente che una religione è la vera.

E' una sciagura per la natura umana che la religione sia data da un conquistatore. La religione maomettana, la quale non parla che di spada, influisce ancora sugli uomini con quello spirito distruttore che l'ha fondata.

La religione cristiana è lontana dal dispotismo puro: infatti, essendo la mitezza tanto raccomandata nel Vangelo, essa si oppone alla collera dispotica con cui il principe si farebbe giustizia e metterebbe in pratica le sue crudeltà.

.....dobbiamo al cristianesimo, nel governo un certo diritto politico, e nella guerra un certo diritto delle genti, di cui l'umanità non potrebbe mai essere abbastanza riconoscente."

La società aperta e le istituzioni libere hanno bisogno di difensori forti ed attenti. Senza di essi anche i più solidi baluardi cadono.



sabato 28 agosto 2010

Elezioni. La scelta importante.

Mentre si affaccia la possibilità di elezioni anticipate, assai criticata è la legge elettorale vigente. Si lamenta l' impossibilità di esprimere preferenze. Si propone il passaggio ai collegi uninominali. Ma bisogna essere franchi. Per queste vie la libertà di scelta dell' elettore ed il peso del suo voto possono essere ridotti invece che crescere.
Sulle preferenze va detto che, senza elezioni primarie, una o poche che siano, le candidature vengono comunque decise dai partiti o dalle loro correnti. La concorrenza tra candidati dello stesso partito produce un aumento dei costi della politica e quasi certamente un aumento degli illeciti commessi per ottenere i soldi necessari. L' accentuarsi del fenomeno delle correnti dei partiti ne riduce la capacità di proposta e decisione. L' eventuale introduzione delle cosiddette elezioni primarie non esclude l' ingerenza dei vertici dei partiti mentre non offre alcuna garanzia che siano scelti candidati più capaci di quelli che emergono dalla tradizionale selezione interna.
Quanto ai collegi uninominali, a prescindere dalla questione del turno unico o doppio, oltre a quanto premesso, va sottolineato che essi non incrementano la probabilità di maggioranze parlamentari stabili nè assicurano che l' elettore possa scegliere direttamente chi dovrà governare. Nelle recenti elezioni inglesi, proprio con i tradizionali collegi uninominali, la scelta della coalizione di governo è stata fatta non dagli elettori ma dai vertici dei partiti, con trattative successive. In effetti la disomogenea distribuzione territoriale dei consensi e la ristrettezza dei collegi può non raramente escludere la scelta diretta dei governanti. Mentre disegnando i confini dei collegi stessi si può furbescamente influenzare l' esito della consultazione elettorale.
La scelta diretta dei governanti e soprattutto il diretto giudizio su chi ha governato rappresentano invece le questioni fondamentali e le libertà più preziose per il cittadino elettore. Solo situazioni straordinarie possono giustificare misure volte a rendere meno diretta l' efficacia del voto popolare.

sabato 21 agosto 2010

La ripresa dei negoziati diretti tra Israeliani e Palestinesi. Pace possibile oppure operazione propagandistica?

Presto riprenderanno i negoziati diretti per porre fine al conflitto israelo-palestinese. Il presidente Obama ed il suo segretario di stato Clinton hanno promesso un forte impegno della amministrazione americana per ottenere risultati concreti entro un anno.
Ma i problemi da risolvere per avere una pace genuina e duratura sono tuttora privi di una possibile soluzione. Il carattere ebraico dello stato israeliano è considerato irrinunciabile e non negoziabile dagli Israeliani. Mentre altrettanto irrinunciabile e non negoziabile è per i Palestinesi il ritorno dei profughi palestinesi in Israele.
Queste sono le premesse reali della trattativa, che consentono al massimo il consolidamento di una tregua. Ma Obama deve affrontare le elezioni imminenti. Il bilancio della sua presidenza è fallimentare. Anche un successo esclusivamente propagandistico sulla scena internazionale sembra importante. I governanti israeliani e palestinesi staranno al gioco.

sabato 14 agosto 2010

Giovanni Giolitti. Memorie della mia vita







Mentre si prepara la celebrazione dell'Unità d'Italia ricordiamo il primo vero grande statista dell'Italia unita, Giovanni Giolitti. Piemontese, di estrazione borghese e formazione giuridica, segnò con la sua opera un'intera stagione politica italiana. I suoi governi modernizzarono il paese e ne allargarono la base democratica.
Cercò di evitare la Prima guerra mondiale e la partecipazione ad essa dell'Italia. Tentò di coinvolgere i socialisti nel governo. Lavorò per inserire il movimento fascista nelle istituzioni costituzionali e smorzarne così l'impeto eversivo. Ad altri in larga misura è imputabile il fallimento di questi obiettivi.
Le Memorie della mia vita sono un documento fondamentale per la comprensione di una grande parte della storia dello stato italiano unitario e dei suoi problemi. Da esse emergono l'Italia che è stata e quella che sarebbe potuta essere.
Si possono interamente e gratuitamente leggere qui:

Volume I

Volume II

Alcune brevi citazioni evocano con immediatezza i tratti antiretorici e pragmatici del suo carattere e la sua lucida e lungimirante intelligenza.

"Quando sopraggiunse la guerra del cinquantanove, avevo diciassette anni; ero figlio unico di madre vedova, e non potevo lasciarla."

Poi, sulla Prima guerra mondiale:

"Ricordavo i due tentativi dell'Austria, che avevo concorso a sventare, per aggredire la Serbia nell'anno precedente, e sentivo e sapevo che il partito militare austriaco mirava ostinatamente a tale scopo; ma io confidavo che le ragioni della pace, che erano così grandi e universali, avrebbero prevalso contro quella criminale infatuazione. La guerra con la Serbia era voluta dai militaristi austriaci come mezzo per sanare le discordie interne, con l'illusione che essa potesse rimanere isolata; ma io pensavo che le altre potenze, che non avevano quelle ragioni e non potevano farsi illusioni sul contegno della Russia di fronte ad una tale provocazione, e che avrebbero dovuto comprendere l'enormità del disastro che la guerra europea sarebbe stata per tutti, avrebbero all'ultimo trovato un compromesso ed una transazione che evitasse l'immane rovina."

"...io osservavo che non si può portare il proprio Paese alla guerra per ragione di sentimento verso altri popoli, ma solo per la tutela del suo onore e dei suoi primari interessi. Tali sono le ragioni pratiche...per le quali io esprimevo parere contrario all'entrata dell'Italia in guerra; e le quali, per quanto riguarda le previsioni della durata della guerra, delle sue difficoltà e dei sacrifizi di uomini e di ricchezza che essa implicava, furono poi pienamente confermate dagli avvenimenti."


domenica 8 agosto 2010

Riforme liberali. Riforme per il consenso, consenso per le riforme.




Uno dei pochi genuini intellettuali liberali che l'Italia può vantare, Piero Ostellino, ha scritto sul Corriere della Sera:

"...il presidente del Consiglio ha un solo modo di ripristinare la propria leadership appannata. Recuperare la vecchia spinta propulsiva liberale della prima ora. Interpretare le esigenze economiche e sociali e le pulsioni di «piccoli», imprese, professionisti e autonomi...".

Qui Ostellino, certo perché costretto negli spazi angusti di un quotidiano, salta alcuni passaggi fondamentali. Quale dovrebbe essere la struttura di un programma liberale? Quali le condizioni per la sua realizzazione? E' molto diffusa nell'opinione pubblica una visione caricaturale del liberalismo, concepito come assenza di regole che consente abusi e sopraffazioni. Il liberalismo è favore per la libertà individuale ma, proprio in vista di questo obiettivo fondamentale, richiede invece ai governi che vogliano ispirarsi ad esso un impegno vasto e multiforme. Appare ancora insuperata l'indicazione dei compiti di un governo liberale che Adam Smith destinò a contrassegnare il libro quinto del suo La ricchezza delle nazioni:

" Al primo dovere del sovrano, quello di proteggere la società dalla violenza e dall'aggressione di altre società indipendenti, si può adempiere solo per mezzo di una forza militare."

"Il secondo dovere del sovrano, quello di proteggere, per quanto possibile, ogni membro della società dall'ingiustizia e dall'oppressione di ogni altro membro della società stessa, cioè il dovere di instaurare un'esatta amministrazione della giustizia"

"Il terzo e ultimo dovere del sovrano o della repubblica è quello di erigere e conservare quelle pubbliche istituzioni e quelle opere pubbliche che, per quanto estremamente utili a una grande società, sono però di natura tale che il profitto non potrebbe mai rimborsarne la spesa a un individuo o a un piccolo numero di individui, sicché non ci si può aspettare che un individuo o un piccolo numero di individui possa erigerle o conservarle...opere e istituzioni di questo genere sono principalmente quelle per facilitare il commercio della società e quelle per promuovere l'istruzione della popolazione".

Questi principi conducono ad una azione riformatrice capace di rafforzare l'autorevolezza dei governi e di procurare loro consensi. Ciò però è meno semplice di quanto appare. Una parte di queste riforme pesa su una spesa pubblica che già pone notevoli problemi. Ma alcune di esse possono costare anche sotto il profilo del consenso. Tanti sono i beneficiari di assetti e metodi corporativi ed illiberali, anche tra i soggetti citati da Ostellino. Basti pensare alla necessaria riforma degli ordini professionali. Mentre il tentativo di riformare giustizia e scuola sta già provocando resistenze che non sembrano guardare tutte all'interesse del paese.
Dunque non è facile procedere nel senso auspicato da Ostellino. E' necessaria una cultura liberale diffusa che non c'è. Mentre potrebbe mancare il consenso proprio a quelle riforme che lo stesso Ostellino considera idonee a crearlo.

venerdì 30 luglio 2010

L' informazione militante. Purchè non sia la sola.


In una lettera a Lord Coleraine del 31 maggio 1970, che si può leggere in Karl POPPER, Dopo La società aperta, ed. 2009, pagg. 385 e 386, il filosofo austriaco scrive:

" Per motivi a me del tutto ignoti, la propaganda di sinistra ha ottenuto una vittoria in quasi tutti i Paesi occidentali che può essere definita solo come completa. Sembra che essi si siano accaparrato il monopolio nel controllo di tutti i "mass-media" (la loro orribile terminologia). Come ciò possa essere accaduto non so..."

Questo pare vero in larga misura anche oggi. Il giornalismo militante "liberal", progressista, mostra ancora una straordinaria capacità di costruire reti e collegamenti, di conquistare redazioni, ordini professionali, scuole di giornalismo.
Il primo organizzatore e l'insuperato maestro di questa forma di militanza è stato con ogni probabilità il vecchio Willi Munzenberg. Comunista tedesco al servizio dei sovietici, editore ed organizzatore apparentemente indipendente di movimenti, campagne propagandistiche ed eventi culturali, diffuse idee e visioni del mondo tuttora presenti e vive nella opinione pubblica delle democrazie occidentali. Molti, di solito senza sapere nulla di lui, oggi applicano ancora i suoi metodi ed adottano le sue tattiche.
Non è possibile separare i fatti dalle opinioni. Informare vuol dire inevitabilmente anche formare. Individuare i fatti rilevanti e presentarli in un modo piuttosto che in un altro è necessariamente il frutto di una scelta. Ogni giornalista informando tenta di convincere, di accreditare una lettura della realtà.
Ma il giornalista militante va oltre. Cerca di influenzare la vita politica, di aiutare o danneggiare politici o movimenti politici. Tenta addirittura di redigere l'agenda politica, di diventare l'effettivo titolare dell'indirizzo politico. La ricerca della verità viene in subordine. La verità è per lui solo un sottoprodotto eventuale, uno strumento di cui talvolta avvalersi.
Tutto sommato meglio il giornalista che cerca lo scoop per guadagnare di più e vivere nel lusso. E' meno pericoloso per la libertà. E qualche volta finisce pure per darle una mano.

martedì 20 luglio 2010

Cristianesimo e condizione femminile. I musulmani alla scoperta dell'Europa.




Quello dell'influenza del cristianesimo sulla condizione della donna occidentale è un tema controverso e lungamente dibattuto. Sembra però prevalere la convinzione che la religione tradizionalmente dominante in Occidente abbia svolto in quest'ambito un ruolo negativo. E' opinione comune che quindici secoli di egemonia cristiana abbiano costituito un lungo periodo di limitazione della libertà della donna, di lesione della sua dignità e di repressione sessuale. Ma è davvero così?
Almeno qualche dubbio fanno sorgere le testimonianze dei musulmani che hanno visitato l'Europa cristiana dal nono al diciannovesimo secolo, prima che il disincanto e la secolarizzazione che hanno progressivamente segnato gli ultimi duecento anni ed in particolare il Secondo dopoguerra mutassero di nuovo radicalmente costumi, visioni del mondo ed assetti giuridici. Il merito di aver raccolto e reso accessibili al grande pubblico queste testimonianze è del professor Bernard Lewis, uno dei più autorevoli studiosi dell'Islam e del Medio Oriente del Novecento. Nel suo I musulmani alla scoperta dell'Europa, ed. 2004, pagg. 351 e segg., Lewis scrive:

"Dall'esame dei libri di viaggio tramandatici, possiamo asserire che, fino al XIX secolo, i visitatori musulmani in Europa furono tutti, senza eccezione, uomini.
Tuttavia, la maggior parte di essi esprime qualche osservazione sul tema della donna e del suo ruolo nella società...: l'istituzione cristiana del matrimonio monogamico, l'assenza di norme sociali che limitino in modo sostanziale la libertà della donna e la considerazione in cui sono tenute anche dalle persone di elevato rango destano immancabilmente meraviglia, sebbene mai ammirazione, nei visitatori provenienti dalle terre islamiche".

"Un fatto che non poteva lasciare indifferenti gli osservatori musulmani sia dell'età medievale che dell'età moderna era, per esprimerci con i loro termini, la licenziosa libertà delle donne e la straordinaria mancanza di virile gelosia negli uomini"

"C'era un connotato della società cristiana che puntualmente sconcertava gli stranieri musulmani: il rispetto con cui venivano trattate le donne in pubblico. Evliya osserva:

In quel paese vidi una cosa straordinaria. Se l'imperatore incontra una donna per strada ed è a cavallo, si ferma e cede il passo alla donna. Se, invece, egli è a piedi e incontra una donna, si ferma in atteggiamento cortese. Poi la donna saluta l'imperatore ed egli si leva il cappello e si rivolge alla donna con deferenza e riprende il cammino solo dopo che ella sia passata. E' uno spettacolo straordinario.
In questo paese, come pure in altre terre degli infedeli, l'ultima parola spetta alle donne, che vengono onorate e riverite per amore di Madre Maria".

Di straordinaria importanza queste ultime parole di Evliya. Viene messo in rilievo il consapevole rapporto tra tradizione cristiana e trattamento riservato alla donna.
Le fonti musulmane qui citate rappresentano testimonianze certamente dirette a stupire il lettore. Ma la preoccupazione di sorprendere, di meravigliare, non le rende meno significative. Emerge un quadro sostanzialmente inaspettato, capace di porre in discussione più d'un luogo comune.

Bernard LEWIS, I musulmani alla scoperta dell'Europa, prima edizione, 2004.



sabato 10 luglio 2010

Soldi e politica. L'altra faccia della luna.


Molti italiani, soprattutto giovani, e moltissimi stranieri non riescono a capire come l'elettorato italiano possa aver determinato con il suo voto l'attuale assetto politico. Sembra difficile da comprendere una scelta che indagini della magistratura, conflitti di interesse e notevoli anomalie dovrebbero precludere.
In realtà basta raccontare qualcosa del rapporto tra soldi e politica negli ultimi decenni. La Repubblica italiana è nata nel 1946 come repubblica dei partiti, soprattutto di partiti di massa, costosi e distributori impenitenti di impieghi, prebende, sinecure. Fin da subito uomini politici e partiti hanno avuto bisogno di denaro, lo hanno cercato e lo hanno ottenuto. La situazione internazionale, la gestione pubblica di attività economiche e certi tratti della società italiana hanno reso piuttosto agevole tutto ciò.
Alcune date e qualche numero. Tra il 1974 ed il 1975 il parlamento si occupa del finanziamento dei partiti. Prevede forme di finanziamento pubblico e sanzioni penali per i finanziamenti fuori legge. Dunque almeno da questa data la magistratura può colpire sistematicamente il passaggio illecito di denaro ai politici ed alla politica, di cui si avvantaggia pesantemente anche il Partito comunista italiano.
Nel solo periodo dal 1973 al 1979, secondo la documentazione sovietica esaminata dal professor Zaslavsky, esso riceve dall' Unione Sovietica 32-33 milioni di dollari. Eppure, stranamente, per quindici lunghi anni la magistratura non riesce ad intervenire se non sporadicamente e con indagini a carico soltanto di esponenti della maggioranza di governo.
Pochi casi, non più di cinque. Tra essi qualche scandalo: il caso Lockheed, quello Italcasse.
Molto rumore, un presidente della repubblica sicuramente innocente, Leone, costretto vergognosamente alle dimissioni da una campagna di stampa e dalla richiesta del PCI. Ma, appunto, nulla di sistematico. Basti pensare che dal 1987 al 1992 alla Camera non giunse nessuna richiesta di autorizzazione a procedere per reati di questo tipo.
Quando arriva il 1989 tutto comincia a muoversi. Nell'autunno, quasi contemporaneamente, cade il Muro di Berlino ed il parlamento italiano con voto unanime approva un'amnistia per i reati di finanziamento illecito dei partiti. Colpo di spugna, con il consenso di tutti. Nessuno, o quasi, grida allo scandalo.
Pochi anni dopo, dal 1992 al 1994, la magistratura italiana scatena l'operazione Mani pulite.
Inchieste promosse dalle principali procure, con numerosi arresti ed estese indagini patrimoniali, portano alla scomparsa di interi partiti politici di governo, la DC ed il PSI prima di tutti.
L'ex PCI resta sostanzialmente indenne, toccato solo marginalmente dalle indagini, senza conseguenze di rilievo. Lo schieramento politico italiano è azzerato nella sua parte moderata. Una storia italiana, certamente non priva di contraddizioni, zone d'ombra, interrogativi senza risposte convincenti, anomalie.
Quando Berlusconi si propone nel 1994 gli elettori moderati non hanno più chi li rappresenti e si stanno abituando alle anomalie, alle non invidiabili peculiarità italiane. Da allora accettano un'anomalia che ai loro occhi appare una risposta inevitabile ad altre anomalie che non possono accettare.



Per questo scritto devo molto ad un libro breve ma importante, che già ho consigliato su questo blog: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA, Tre giorni nella storia d'Italia.




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