Translate

martedì 29 maggio 2012

Crisi. Cercare le cause per trovare le soluzioni.




Questo è il trailer di Margin Call, un film americano proprio in questi giorni nelle sale italiane.  Protagonisti, ancora una volta, banchieri senza scrupoli che per avidità ed incompetenza innescano una crisi devastante. Con opere analoghe forma ormai un vero e proprio sottogenere cinematografico, pur distinguendosi per il coinvolgente realismo e l'assenza del sovraccarico etico didascalico che caratterizza altri prodotti.
La prima fase della crisi, finanziaria, ha colpito duramente gli Stati Uniti. Qui l'attenzione dell'opinione pubblica si è subito concentrata sull'alta finanza e sulle banche. Nell'Eurozona il debito pubblico è imponente, la crescita economica insufficiente. La crisi si è estesa alle finanze pubbliche, coinvolgendo la moneta unica. Pesante è la caduta dell'occupazione, soprattutto giovanile.
Chi sono i colpevoli? Secondo l'opinione prevalente banchieri senza scrupoli, grandi investitori internazionali, tedeschi prepotenti e, in Italia, politici corrotti e sperperatori del denaro pubblico, evasori fiscali. Questa visione largamente condivisa coglie aspetti fondamentali della crisi che ci affligge, ma probabilmente  non ne individua le ragioni profonde, le radici più nascoste e lontane. Si rivela allora prezioso il lavoro degli osservatori meno preoccupati di compiacere l'opinione pubblica. Tra essi Piero Ostellino, che in lungo editoriale sul Corriere della Sera scrive:

" Siamo finiti nei guai, con la crisi del debito sovrano, non per l’evasione fiscale, la corruzione, bensì perché la spesa pubblica si è dilatata per sovvenzionare un modello di welfare «ormai morto» (copyright Mario Draghi), ubbidendo a un’istanza morale, la giustizia sociale".

"La crescita non la si produce per decreto, ma allargando i confini entro i quali si concretano l’autonomia e le capacità creative della società civile. Lo statalismo, qui, non è la soluzione, ma il problema. Si metta, dunque, mano alla riforma dello Stato— dal quale anche il liberalismo non può prescindere, anzi— partendo dalla revisione del suo Ordinamento giuridico, ripristinando lo Stato di diritto, oggi latente, non per aggiungere ai troppi divieti e regolamenti che riducono il cittadino a suddito altri divieti e altri regolamenti, bensì nel segno dell’individualismo metodologico, cioè del primato della centralità e dell’autonomia della Persona".

Ostellino chiama in causa correttamente non solo l'Ordinamento, ma la visione morale e politica che lo ha ispirato. Essa, volgarizzata e diffusa, accompagna però sempre più condotte di vita irresponsabili, contribuendo a creare e legittimando aspettative insostenibili.
Pare ragionevole dubitare che "l'autonomia e le capacità creative della società civile", non più sorrette da adeguate cultura e tradizioni, siano in grado di rendere il sistema Italia di nuovo competitivo. 
"La prevalenza del principio di realtà sul moralismo, delle «dure repliche della storia» sul dover essere" si concreta appunto, purtroppo, nella determinante perdita di competitività che contraddistingue molta produzione Italiana. Se anche il nostro consumatore potesse e volesse spendere di più, comprerebbe prevalentemente beni e servizi prodotti all'estero.
Considerazioni in parte analoghe valgono per la maggior parte delle altre democrazie occidentali. Il declino non è inevitabile. Ma l'opinione pubblica deve conseguire una visione insieme più profonda e realistica dei problemi, accettarne la complessità, comprendere l'amara asimmetria della costruzione/distruzione sociale. Tradizioni, istituzioni, corpi intermedi, capacità produttive, cultura si deteriorano non raramente in pochi anni. Ma per risorgere e rinnovarsi hanno bisogno di molto tempo.

martedì 22 maggio 2012

Economia sociale di mercato islamica.


Su AsiaNews un'attenta analisi di un fenomeno emergente: la politica economica dei movimenti islamici.

"Saliti al potere nei Paesi della Primavera araba, i partiti islamici cercano soluzioni per rilanciare l’economia degli Stati islamici. Per Fawaz A Gerges, docente di relazioni internazionali alla London School of Economics, il capitalismo liberista è il nuovo modello utilizzato dagli islamisti dopo anni di socialismo. La Turchia faro dei nuovi movimenti islamici".

"Dopo le rivolte che hanno sconvolto il mondo arabo, gli islamisti e gli attivisti religiosi stanno prendendo il potere in Nord Africa e Medio Oriente".

"I partiti islamisti stanno diventando sempre di più degli "erogatori di servizi" a conferma che la loro legittimità politica e la probabilità di rielezione si basa sulla capacità di offrire posti di lavoro, crescita economica e trasparenza. Ciò ha introdotto un enorme livello di pragmatismo nelle politiche dei movimenti di ispirazione religiosa".

"Lo sviluppo economico della Turchia ha avuto un forte impatto sugli islamisti arabi, molti dei quali vorrebbero emulare il modello turco... Il modello offerto da Ankara, che ha il suo perno nella borghesia osservante, ha fatto emergere che islamismo e capitalismo sono compatibili e si rafforzano reciprocamente".

"...ciò che distingue i gruppi di ispirazione religiosa da quelli di sinistra o nazionalisti è una spiccata sensibilità verso gli affari, compresa l'accumulazione di ricchezze e l'economia di libero mercato. L'islamismo è un movimento borghese composto in gran parte dai professionisti della classe media, uomini d'affari, negozianti, commercianti e piccoli imprenditori".

"Fra i radicali islamici, l'approccio interventista è appoggiato soprattutto dai salafiti, che chiedono con forza l'utilizzo di misure di ridistribuzione della ricchezza per ridurre la crescente povertà. Tuttavia, per la maggior parte degli islamisti l'approccio dominante all'economia, con poche variazioni, è il capitalismo di libero mercato".

Non pochi osservatori di questo importante fenomeno hanno visto analogie con l'economia sociale di mercato tedesca, teorizzata da Wilhelm Roepke.

In questa "la competizione e il gioco della domanda e dell'offerta non producono per noi tutte quelle risorse «morali» di cui abbiamo bisogno". Il mercato deve "essere controllato e «moderato» - ma, attenzione, non dallo Stato, bensì dall'etica di quanti volontariamente contribuiscono al buon funzionamento del mercato stesso".

Il disegno dei partiti islamici incontra in questa prospettiva parecchi ostacoli. Prima di tutto la grave situazione sociale e politica. La cosiddetta "Primavera araba" ha travolto regimi autoritari più o meno laici, ma il nuovo stenta a decollare. I movimenti islamici hanno sviluppato robuste reti assistenziali, radicate nel territorio. Questo impegno e la prolungata opposizione ai vecchi regimi spiegano la presa sull'elettorato. Ma la borghesia professionale e gli imprenditori urbani restano minoranza. In milioni di contadini, giovani senza lavoro, abitanti delle periferie delle grandi città convivono la richiesta di sviluppo e benessere rivolta al potere pubblico e la insufficiente consapevolezza delle difficoltà.
I principi religiosi e le tradizioni pongono seri problemi. Se il divieto di corrispondere interessi  e l'obbligo di ancorare la finanza all'economia reale rappresentano elementi compatibili con l'auspicato sviluppo, la tradizionale tendenza a far coincidere le regole religiose con le norme civili, i peccati con i reati, può determinare rigidità insostenibili. Anche il ruolo riservato alle donne dalla tradizione può ostacolare il conseguimento dei risultati sperati.
Se dunque il cosiddetto mercato sociale trova in principi morali, tradizioni e corpi sociali intermedi adeguati il presupposto della propria stessa esistenza e la condizione di un positivo ruolo e sviluppo, occorre evitare un giudizio affrettato ed acritico sulle tendenze in atto nelle variegate società islamiche.
Ma se il modello turco, pure non privo di fragilità e debolezze, si affermasse estesamente, una ulteriore importante sfida verrebbe lanciata alle economie occidentali in crisi. Un motivo in più per accelerare le riforme strutturali indispensabili per colmare un divario di competitività ogni giorno più pesante.

mercoledì 16 maggio 2012

Crisi: competitività, consumi e occupazione.


Nel febbraio 2011, quando ancora era il più autorevole candidato alla guida della BCE, Mario Draghi ha concesso un' intervista a Tobias Piller, giornalista tedesco molto noto in Italia. In questa occasione ha discusso i nodi della crisi, diventata oggi più assillante.
A più di un anno di distanza il dibattito pubblico, segnato da un miope eurocentrismo, si concentra sul rapporto tra "rigore" e crescita, senza porre in primo piano il tema della competitività. Mentre invece proprio dall'insufficiente competitività dipende la stagnazione/recessione in atto.

PILLER:

"Accanto alla disciplina di bilancio cos'è necessario per la sopravvivenza dell’unione monetaria?".

DRAGHI:

"La seconda importante condizione è che tutti i paesi conducano riforme strutturali per accelerare la crescita economica. La crescita è la seconda colonna sulla quale si costruisce la stabilità finanziaria".

PILLER:

"Se si seguono le sue idee, la Germania non dovrebbe avere paura di perdere competitività in una europeizzazione della politica economica?".

DRAGHI:

"Al contrario, noi tutti dobbiamo seguire l'esempio della Germania e questo l’ho detto apertamente in diverse occasioni. La Germania ha migliorato la propria forza di competitività portando avanti riforme strutturali. Deve essere questo il nostro modello".

La crisi attuale può essere fronteggiata con successo soltanto affiancando alla disciplina dei bilanci pubblici incisive riforme strutturali capaci di rendere più competitivi le imprese ed il sistema paese intero.
Riduzione del carico fiscale e contributivo su imprese e lavoro, riforma dello stato sociale e della pubblica amministrazione, snellimento della burocrazia, diminuzione dei costi dell'energia, liberalizzazioni, revisione delle leggi sul lavoro e riassetto delle relazioni sindacali. Tutto questo è necessario per promuovere una crescita economica sana e vitale, alimentata dalla ripresa degli investimenti privati.
Lo stesso Tobias Piller, in un suo recente intervento su Panorama del 16 maggio 2012, ha presentato la questione, che rischia di apparire astratta, in termini assai realistici :

" anche se l’Italia potesse e volesse aumentare la spesa e il debito, per sostenere i consumi, sarebbe solo un nuovo spreco. Andrebbe ad arricchire coreani, cinesi, tedeschi. Perché se dai 1.000 euro a un italiano, cosa ne farebbe? Per semplificare, si compra un iPhone Apple prodotto in Cina, un televisore Samsung dalla Corea, paga la prima rata per un’auto tedesca o coreana, o forse spende per una breve vacanza a Sharm el-Sheikh. E quanto rimane in Italia, se i prodotti italiani (o le mete turistiche) non sono competitivi neanche di fronte ai consumatori italiani? E quali sono gli effetti sull’occupazione, se i produttori di successo, quando crescono, assumono solo per nuove fabbriche fuori dall’Italia? Bisogna prima fare le riforme «supply side», per un’Italia più competitiva, poi la spinta alla domanda porta anche soldi all’Italia".

La questione della competitività nella economia globalizzata deve essere posta al centro del dibattito pubblico e compresa a fondo dai cittadini, chiamati a sacrifici che potrebbero rivelarsi altrimenti inefficaci. Del resto solo la realizzazione di tali riforme strutturali può attenuare la pressione della finanza internazionale, che non si lascia ingannare dai conigli usciti dal cappello delle banche centrali e dei governanti illusionisti.                                                                                                                                                                                                                             

mercoledì 9 maggio 2012

Crisi. Chiarezza sulle cause e sui numeri.





Adriana Cerretelli sul Sole24ore di oggi ha espresso il pensiero di molti:

"Basta Europa dei prepotenti, dei padroni che riconoscono solo la legge del più forte. Basta con l'Unione degenerata in una piramide feudale, in cima un grande Stato, l'unico davvero sovrano, e sotto la pletora di vassalli, valvassini e valvassori agli ordini. Basta con l'Europa inconcludente dei proclami: scandalosa quando la crisi economica morde, l'austerità fa il resto e il lavoro si trova sempre meno".

"Senza però una crescita economica tangibile, e non declamatoria, senza nuovi posti di lavoro, ponti e autostrade trans-europee, reti digitali ed energetiche, in breve senza l'Europa delle opportunità e della speranza al posto di quella del rigore e della disperazione, dalla palude non si esce".

La Germania è prepotente, il rigore è ottuso, l'indispensabile crescita si ottiene allentando le redini che frenano la spesa pubblica e consentendo all'Unione Europea di emettere obbligazioni per realizzare infrastrutture. Ma è davvero così? Quali sono le reali cause della crisi? E' possibile un accordo sui suoi numeri? Nei giorni scorsi Irene Tinagli, Nicola Rossi e Luca Ricolfi, squarciando il conformismo che vela lo sguardo dell'opinione pubblica, hanno individuato nella bassa produttività, nell'insufficiente competitività, nelle eccessive spesa pubblica e pressione fiscale le principali cause della crisi italiana.

Tinagli:

"Se l’Italia non è in grado di trasformare in maniera efficiente i suoi fattori produttivi in prodotti e servizi competitivi sui mercati internazionali (e farlo su larga scala, non in pochissime nicchie), non possiamo aspettarci che aumentino le retribuzioni, il Pil, i consumi e quant’altro".

Ricolfi:

"Quel che è venuto a mancare, dagli Anni 90, è invece l’hardware del Paese, ossia quell’insieme di condizioni materiali che permettono di fare impresa e competere con gli altri Paesi: buone infrastrutture, prezzi dell’energia competitivi, contributi sociali ragionevoli, basse aliquote societarie. Insomma, cose molto prosaiche, ma che fanno la differenza, ad esempio convincendo gli investitori stranieri a creare posti di lavoro nel nostro Paese".

Rossi:

"...l’obbiettivo è invece la modifica sostanziale della “way of life”, del modo di essere del settore pubblico italiano. La chiusura di parte dei programmi di spesa esistenti. La ridefinizione dell’ambito d’azione e di intervento dello Stato".

Le considerazioni di Cerretelli paiono fuorvianti. Nuove infrastrutture sono necessarie per incrementare produttività e competitività. Ma la loro realizzazione quanto incide su tali parametri? Quali altre misure sarebbero necessarie? Come ridurre la spesa pubblica e la pressione fiscale?
La crisi è internazionale e richiede risposte nazionali e sovranazionali. Direttamente o indirettamente saranno giudicate dagli elettori, che possono sfuggire all'abbraccio fatale delle illusioni solo disponendo di indicazioni chiare e di numeri condivisi. Chi professionalmente ha il compito di informare ed educare deve essere ben consapevole del proprio ruolo e delle proprie responsabilità.





martedì 1 maggio 2012

Italia in crisi. Diversamente moderni.




Ernesto Galli della Loggia (Tre giorni nella storia d'Italia, 2010, pp. 8-11) ha lucidamente osservato che:

"Pur con molti tratti particolari, l'Italia che nel 1914 si affacciava alla modernità era tutto sommato - nel suo impianto civile, amministrativo e di governo, nei suoi ideali - un paese molto simile agli altri della parte d'Europa che era la sua. Anche perchè, essendo arrivato all'Unità quasi spoglio di tradizioni e di un passato statale significativo, esso aveva dovuto prendere a prestito da altri paesi e trapiantarli in casa propria istituzioni, leggi, modelli organizzativi".
"... avevamo "copiato" da Francia e Germania soprattutto: e ci era riuscito senza troppe difficoltà".
"Dopo il primo conflitto mondiale, invece, inizia un'esperienza novecentesca che sempre più farà dell'Italia un paese con caratteristiche proprie e distinte".

"...essa produce e vede in un ruolo centrale, nel Novecento, alcune culture politiche delle quali, prese nel loro insieme, sarebbe difficile trovare un corrispettivo altrove: il nazionalfascismo, un certo cattolicesimo politico, il socialismo massimalista, il comunismo gramsciano; alle quali non sarebbe forse improprio aggiungere il berlusconismo, che pure si presenta come, e in certo senso è, il superamento di tutte le precedenti".
"...per l'intero arco del Novecento italiano...tutte le culture della nostra tradizione politica... hanno condiviso...un progetto di modernizzazione ideologicamente mobilitante e guidato pedagogicamente dalla politica e dalle sue élite in nome di forti esigenze di carattere collettivo (vuoi nazionale, vuoi sociale, vuoi religioso)".

A questa evoluzione corrispondono l'affermazione del regime mussoliniano, la Resistenza egemonizzata dal partito comunista, la nascita della Repubblica dei partiti, che per lunghi decenni hanno gestito direttamente una parte importante dell'economia italiana, la democrazia bloccata. A tale evoluzione sono pure connessi la distribuzione geografica della popolazione sul territorio e il tessuto produttivo imprenditoriale. Su La Stampa Irene Tinagli sottolinea le peculiarità italiane: 

" Il 66,4% degli italiani vive in città piccole o medie, con meno di 50.000 abitanti, e solo il 22,8% vive nelle 45 città italiane con oltre 100.000 abitanti.

Non solo, ma questo dato fa parte di un trend che va rafforzandosi. I Comuni di dimensione medio-piccola (tra 5 mila e 20 mila abitanti) hanno aumentato la popolazione dell’8,1% (un valore quasi doppio rispetto a quello nazionale).

Quelli di medie dimensioni del 5,2%, mentre nei Comuni grandi la popolazione è rimasta pressoché stazionaria (0,2%). Le grandi città, in sostanza, perdono abitanti mentre sono quelle medie e piccole ad attrarne.

Questi dati colpiscono molto perché sono in controtendenza con quanto avviene nel resto del mondo. Da diversi anni ormai molti osservatori internazionali hanno evidenziato una forte crescita delle grandi città. Un fenomeno trainato non solo dallo sviluppo dell’Asia e di altri Paesi emergenti con le loro megalopoli da decine di milioni di abitanti, ma anche dalla rinascita di molte città occidentali, americane ed europee.

Una rinascita legata sostanzialmente a due fenomeni. Da un lato alla trasformazione del sistema economico globale, che ha visto l’emergere di nuovi settori industriali legati ai servizi avanzati, alla creatività, l’innovazione e al design – tutte cose che non solo non hanno bisogno di grandi fabbriche nelle periferie, ma che anzi traggono beneficio dalla prossimità a servizi, aziende, professionisti e attività «complementari» alle proprie. Dall’altro lato al parallelo cambiamento nella struttura occupazionale di molti Paesi, con l’aumento del peso di professionisti, manager, designer, ingegneri ed altre professionalità altamente qualificate. Persone che, come mostrano molti studi, tendono a preferire uno stile di vita «urbano», con più servizi e con maggiori attività ricreative e culturali a disposizione".

Nel  nostro paese i servizi avanzati e le professionalità altamente qualificate non hanno trovato un ambiente favorevole. Ciò ha concorso a frenare la crescita economica e civile. Ma si deve rilevare che, negli altri paesi con cui ci misuriamo, tali servizi e professionalità non hanno rappresentato una valida e durevole soluzione dei problemi occupazionali se ad essi non è stata collegata una forte produzione manifatturiera di qualità.
Come nei primi decenni dopo la sua unificazione l'Italia può e deve guardare fuori dei propri confini per correggere i propri errori e non ripetere quelli commessi da altri. I rigurgiti nazionalisti e le ossessioni identitarie sono da respingere, ma vanno coltivate le attività non delocalizzabili e le esistenti reti manifatturiere capaci di rispondere alla sfida della globalizzazione.
La Germania ha saputo coniugare lo sviluppo di servizi e professionalità avanzati con una solida e competitiva industria manifatturiera di qualità. Come già nell'Italia giolittiana il sistema tedesco rappresenta  per il paese in larga misura un modello da imitare.



Visite