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venerdì 28 novembre 2014

Russia e Occidente. Il ruolo della Germania.




Su analisidifesa.it del 26 novembre 2014 Luca Susic ha così commentato la posizione di Angela Merkel sulle difficili relazioni tra Russia e Occidente:

"Uno degli aspetti recenti più sorprendenti della crisi che sta scavando un solco fra Usa-Europa da una parte e Russia (e Cina) dall’altra è rappresentato dall’improvvisa accelerazione in materia di politica estera voluta dalla Bundeskanzlerin Angela Merkel. Inizialmente fredda sul tema delle sanzioni e fautrice di una linea più morbida verso Mosca, la leader tedesca ha deciso di cambiare passo, lanciando pesanti accuse contro il Cremlino e il suo modo (giudicato troppo aggressivo) di difendere gli interessi Nazionali. La posizione espressa dalla Cancelliera è stata subito fatta propria dai principali esponenti del suo governo che, come riporta Der Spiegel, si sono scagliati contro l’imprevedibilità delle azioni di Putin e la veemenza di quest’ultimo nel cercare di espandere la propria influenza in talune parti del mondo".

"Sebbene sembri chiaro che queste dichiarazioni sono il frutto della strategia politica della Merkel per aumentare l’influenza di Berlino in aree storicamente di interesse russo...".

"Dal canto loro, gli Stati Uniti hanno iniziato una vera e propria campagna di “riconquista” dei Paesi ancora esterni all’ambito euro-atlantico, con lo scopo dichiarato di favorirne quanto prima l’ingresso nella UE e, soprattutto, nella NATO. Si tratta, però, di un progetto estremamente ambizioso che, oltre a non tenere in considerazione le inclinazioni delle popolazioni in questione, si basa sul presupposto che tutto ciò debba avvenire a tappe forzate, al fine di impedire a Mosca di riottenere il prestigio perduto e ostacolare il piano".

Lo stesso 26 novembre, su bloomberg.com,  Patrick Donahue, Arne Delfs e Ilya Arkhipov hanno dato conto della ferma opposizione della stessa Merkel all'adesione alla NATO dell' Ucraina:

"German Chancellor Angela Merkel’s government is alarmed by President Petro Poroshenko’s plan to hold a referendum on Ukraine joining NATO, seeing it as a dead end that would only inflame tensions with Russia.
Ukrainian membership of the North Atlantic Treaty Organization is not on the table for Merkel, according to one German official, who said that a referendum wouldn’t bring Ukraine closer to NATO since decisions on membership are made by Alliance countries and not voters".

Si tratta di analisi che colgono l'ambiguo, difficile  ruolo che la Germania di Merkel è indotta a svolgere. Stretto tra le pressioni dello storico alleato americano e quelle degli imprenditori danneggiati dal peggioramento delle relazioni con la Russia, obbligato a destreggiarsi tra paesi vicini dall'atteggiamento divergente, il governo tedesco persegue un equilibrio inevitabilmente precario, fragile.
Occorre scegliere con lungimiranza. L'Occidente non ha interesse a destabilizzare la Russia.  Dalla compagine sorta dalle ceneri dell'Unione Sovietica può e deve ottenere un aiuto determinante nella lotta contro il fondamentalismo islamico. Il grande competitore delle democrazie occidentali è la Cina. Compito della Germania è riportare alla ragione gli Stati Uniti e la Russia di Putin. Merkel dispone delle doti e dell'influenza necessarie.

venerdì 21 novembre 2014

USA. La bolla dello shale oil complica il quadro economico.




Su Il Sole 24 Ore del 12 novembre 2014 Sissi Bellomo ha dato conto della crisi dello shale oil negli Stati Uniti. La caduta del prezzo del petrolio mette in grave difficoltà le piccole e medie compagnie che lo estraggono con la costosa tecnica del fracking:

"Finanziarsi sta diventando sempre più caro e più difficile per gli operatori dello shale oil: società quasi tutte di piccole o al massimo medie dimensioni, molto spesso costruite dal nulla e con fortissimi livelli di indebitamento, tanto che persino con il barile a 100 dollari faticavano in molti casi a pagare gli interessi".

"... per sua stessa natura l'estrazione di shale oil necessita di un flusso incessante di investimenti: la vita produttiva di questi pozzi è tuttora brevissima, tanto che l'output crolla del 65-90% dopo il primo anno. Anche solo per mantere stabile la produzione bisogna quindi trivellare continuamente nuovi pozzi, spendendo ogni volta milioni di dollari. Il che molto spesso significa contrarre nuovi debiti: un meccanismo perverso, che ha spinto alcuni osservatori a paragonare lo shale a un gigantesco schema Ponzi".

"Un ridimensionamento dello shale oil americano, con eventuale corollario di imprese in bancarotta, potrebbe comunque richiedere tempo. Il crollo del petrolio nell'immediato può anzi addirittura accelerare le estrazioni, se gli operatori – come sembra che stia accadendo – cercano di contrastare con maggiori volumi il calo delle entrate che minaccia di renderli insolventi".

La fragilità del settore petrolifero complica ulteriormente il quadro dell'economia statunitense, assai meno incoraggiante dell'immagine a lungo diffusa dai media prima delle recenti elezioni di medio termine.
Su Il Sole 24 Ore del 20 novembre 2014 la professoressa Adriana Castagnoli ha indicato alcuni nodi irrisolti dell'economia USA:

"...i salari ristagnano e la partecipazione alla forza lavoro si è ridotta al livello del 1978. Questa fiacchezza può dipendere dal tipo di occupazione in crescita: con contratti a termine, nei settori dei servizi alla salute e della ristorazione. Manifattura e costruzioni sono cresciute poco..."

"...anche negli Usa la polarizzazione politica su questioni cruciali per il lavoro, come la legge sull'immigrazione, nonché le elevate tasse sui redditi d'impresa (39,1%, almeno sulla carta) hanno finito per rallentare l'industria. Come ha sottolineato Janet Yellen, preoccupa la contrazione nel numero di nuove imprese, tradizionale segno di vitalità. Né si vede un significativo slancio nella ripresa dei consumi. Pertanto, alle elezioni del 4 novembre, gli americani hanno bocciato innanzitutto la politica economica del presidente Obama. E per questo i repubblicani hanno promesso di assicurare il loro appoggio a una rapida conclusione della Trans-Pacific Partnership".

"Si prevede che la Federal Reserve aumenterà i tassi di interesse nella prima metà del 2015. Ciò stimolerà la domanda per azioni, bond e nel settore immobiliare ma non si tradurrà in migliori condizioni di vita per molti americani. Anzi, tenderà ad acuire i già alti livelli di ineguaglianza perché la proprietà degli asset è concentrata nelle mani dei più ricchi, e premierà lo strapotere della finanza".

Le difficoltà della economia USA e di quella giapponese costituiscono un duro richiamo alla realtà per gli europei in cerca di modelli e visioni. Purtroppo non esistono pasti gratis. Meglio riflettere su fattori di crescita prosaici ma di solida efficacia: capitale umano (conoscenze tecniche, matematiche, scientifiche), pressione fiscale, investimenti privati, istituzioni economiche. Incisive riforme strutturali possono fermare il declino dei paesi che hanno già conosciuto il benessere legato alla modernità, ma che ora sono appesantiti da debito, pressione fiscale, stato sociale, insufficiente competitività e demografia sfavorevole.

venerdì 14 novembre 2014

Come uscire dalla crisi? Buoni produttori, buone istituzioni.




Il dibattito sulla crisi continua ad avvitarsi intorno ai temi del debito, pubblico e privato, della sua monetizzazione, del deficit, del rapporto di cambio tra le valute, della deflazione/inflazione.
Occorre essere chiari: la sistematica monetizzazione del debito appare misura da apprendisti stregoni. Può produrre un'inflazione incontrollata, che avvantaggerebbe i grandi debitori, lo stato prima di tutti, e gli speculatori. Gli altri vedrebbero ridotti i loro redditi e i loro risparmi. Inoltre comprometterebbe una corretta allocazione delle risorse e degli incentivi. Non verrebbero premiati i più capaci ed efficienti.
Altrettanto evidenti, ancorché taciuti, sono i veri effetti della svalutazione della moneta da molti auspicata. Una moneta serve non solo per vendere, ma anche per comprare. Materie prime, energetiche e non, semilavorati e tecnologia di consumo di buona qualità dovrebbero essere importati a prezzi reali immutati, cioè a caro prezzo con moneta svalutata. In realtà sarebbe ridotto il valore  soltanto del lavoro e dei risparmi nazionali. Inoltre provvedimenti analoghi sarebbero adottati dai paesi concorrenti. Dunque neppure la svalutazione e l'uscita dall'euro possono salvarci.
Meglio riflettere sui fattori di una crescita sana e sostenibile: capitale umano, investimenti privati, pressione fiscale, istituzioni economiche. Occorre ricostruire le principali agenzie educative, rendendole capaci di formare cittadini responsabili e dotati di una buona formazione tecnica, scientifica e matematica. E' urgente diminuire la pressione fiscale, riducendo la spesa pubblica e ricorrendo ampiamente a strumenti previdenziali privati. Bisogna allargare il ruolo del mercato e aprire professioni e servizi alla concorrenza. E' necessario combattere a fondo concorrenza sleale, corruzione, criminalità organizzata, capitalismo clientelare.
Soltanto buoni produttori possono essere buoni consumatori. E buoni produttori possono nascere e prosperare solo con istituzioni favorevoli, in una società fortemente caratterizzata dalla certezza del diritto. Un vasto programma, soprattutto nella economia globalizzata, che per non produrre effetti perversi deve convergere su modelli virtuosi. Ma le illusioni, la vuota retorica e il disprezzo dei fatti non rappresentano una valida alternativa. Stiamo affidando a giovani non educati a sostenerla un'Italia in declino, segnata da un degrado che solo massicce dosi di verità possono arrestare.

venerdì 7 novembre 2014

Stati Uniti. Cosa c' è dietro alla vittoria repubblicana?



                                      Civilian labor force participation rate


Sul Corriere della Sera del 6 novembre 2014 Serena Danna racconta un aspetto dell'evoluzione del costume USA che non va sottovalutato:  la normalità è diventata cool.

"...il «new normal» è quasi un prodotto degli hipster degli anni 00, ma con una differenza non da poco: mentre quelli rubavano dalle sottoculture le idee e gli stili più elitari e superficiali per affermare disperatamente una diversità apparente, i «normali» del nuovo millennio recuperano dal passato valori e principi: la famiglia (contro l’individualismo dell’egocentrico hipster), il cibo sano ma «laico» (contro la dittatura del bio), l’impegno politico (contro il cinismo del tutto-fa-schifo) e la fine dell’ambiguità sessuale come cifra stilistica (contro gli eunuchi con la barba in fondo più maschilisti di un idraulico bresciano degli anni Cinquanta). Ancora una volta, viene in mente un cantante italiano, Lucio Dalla, che in Disperato Erotico Stomp dichiarava quaranta anni fa «l’impresa eccezionale, dammi retta, è essere normale...».

Si tratta della tessera non trascurabile di un mosaico idoneo a rappresentare la società americana che si è espressa nel recente voto mid-term. Ma gli elettori, votando o non votando, hanno manifestato soprattutto un chiaro malcontento per la situazione economica e il degrado sociale ed educativo. Il pesante deterioramento della situazione internazionale ha fatto il resto.
La politica economica di Obama ha lasciato irrisolti i problemi dell'economia statunitense, indebolita strutturalmente sul lato dell'offerta dal deficit di competitività e dal fallimento delle principali agenzie educative. Tale deficit è stato colmato solo parzialmente con software e automazione. Così la partecipazione alla forza lavoro (occupati o attivamente in cerca di lavoro) resta molto al di sotto del livello pre-crisi. A ciò si aggiunga che i nuovi posti di lavoro sono di solito di bassa qualità e mal retribuiti, creati nei settori dell'assistenza sanitaria e agli anziani, del commercio e della ristorazione. Restano perfettamente attuali le considerazioni espresse su La Repubblica del 9 febbraio 2014 da Maurizio Ricci:

"Se si scava nei dati, si scopre che la storia americana non è molto più allegra di quella europea: il tasso di disoccupazione, negli Usa, cala perché sempre più gente rinuncia a cercare un lavoro. Il totale di persone che lavorano o cercano attivamente lavoro (in gergo, la forza lavoro) è rimasto più o meno uguale in Europa, negli ultimi anni. Ma è drammaticamente crollato negli Stati Uniti, dove sempre più gente, esaurito il tempo in cui può fruire del sussidio di disoccupazione, rinuncia cercare un lavoro che non riesce a trovare: dal 2010 ad oggi, il tasso di partecipazione americano alla forza lavoro è diminuito di oltre il 3 per cento. Parallelamente, e per motivi del tutto statistici, è diminuito anche il tasso di disoccupazione, visto che i disoccupati si chiamano fuori dalla forza lavoro. Se Eurolandia avesse sperimentato una caduta della partecipazione alla forza lavoro di dimensioni simile a quella americana, il tasso di disoccupazione europeo non sarebbe del 12 per cento, ma del 9,5 per cento. Finanche inferiore a quello che era prima della crisi del debito europeo. Nella giusta prospettiva, la distanza fra i due tassi di disoccupazione è circa la metà di quello che dicono i numeri ad una prima lettura".

Importante  dunque, ma non determinante, il fallimento della politica estera di Obama. Il mondo di oggi non è più sicuro, bensì molto più pericoloso. Gli americani lo sanno però, come sempre, hanno votato assillati dai problemi economici e sociali del loro grande paese. 
Agli europei e agli italiani in particolare i media hanno somministrato una narrazione della situazione degli USA e dei risultati economici della presidenza Obama di solito edulcorata, apologetica, spesso priva di cenni ai nodi irrisolti della crisi. Perchè? In qualche caso si è trattato di giornalisti, opinionisti e analisti "catturati" dalla grande impresa non competitiva e dalla grande speculazione, vere, sole beneficiarie dell'approccio monetario alla crisi. Ma lo scarto tra narrazione e realtà si spiega in larga misura con il tradizionale fenomeno della militanza ideologica, che produce una informazione segnata dalla propaganda.
Karl Popper il 31 maggio 1970 in una lettera "confidenziale" a Lord Coleraine scrisse:

"Per motivi a me del tutto ignoti, la propaganda di sinistra ha ottenuto una vittoria in quasi tutti i Paesi occidentali che può essere definita solo come completa. Sembra che essi si siano accaparrato il monopolio nel controllo di tutti i "mass-media" (la loro orribile terminologia). Come ciò possa essere accaduto non so... Il vero problema è che nessuno sembra essersi reso conto di ciò che è accaduto: quale tipo di vittoria sia stata conseguita dalla sinistra; neppure gli stessi vincitori ritengono, o si rendono conto, che, per quanto riguarda i mezzi di propaganda, essi sono già diventati la "Classe dirigente"" (Karl POPPER, Dopo La società aperta, 2009, p. 386).

Questa propaganda egemone della sinistra, diventata "liberal", ha portato Obama al ripetuto successo, ma oggi non riesce più a coprirne il fallimento. Gli Stati Uniti voltano pagina, forse per sempre.



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