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venerdì 31 agosto 2012

I liberali e l'Europa.


Non pochi liberali italiani giudicano negativamente l'Unione Europea e la sua moneta unica, l'euro. Criticano la burocrazia europea, le istituzioni e le regole farraginose, la carenza di legittimazione democratica, l'inefficiente allocazione delle risorse direttamente o indirettamente realizzata, il ruolo della Germania, il peso costituito da una valuta che considerano commisurata ai bisogni dei paesi più influenti e meno fragili sotto il profilo economico. Carlo Stagnaro, dell'Istituto Bruno Leoni, su L'Occidentale (intervista di Edoardo Ferrazzani)  indica invece buone ragioni che dovrebbero indurre i liberali a difendere la moneta unica e a sostenere l'integrazione europea:

"Non credo che la crisi sia necessariamente fatale per l'euro. Anzi, per certi versi la crisi è segno del fatto che l'euro funziona e costringe i paesi che vi aderiscono a rispettare una disciplina finanziaria che precedentemente era sconosciuta a molti di loro. Il malumore anti-euro è spesso figlio di una sorta di "blame game" dei politici europei, che scaricano sulla moneta unica la colpa di un fallimento che invece è tutto delle nostre classe dirigenti: l'incapacità di garantire nei rispettivi paesi un pareggio strutturale di bilancio e la tendenza ad alimentare una spesa pubblica incontrollata, finanziata in buona parte a debito".

"L'Europa per uscire dalla crisi ha un'unica strada, cioè ridurre la spesa pubblica. In questa fase non è tanto una questione di cultura quanto una questione di necessità. Le conseguenze dell'operazione dipendono molto da quanto e come si taglia, ma che si debba farlo almeno un po' è, credo, indiscutibile e chiaro a tutti (inclusi quelli che opportunisticamente vi si oppongono). Sarebbe utile che questo intervento necessario fosse metabolizzato culturalmente, ma non è affatto detto e se accadrà dipende molto dalla maturità del dibattito politico nei vari paesi".

"...se il modello di business di molte imprese è basato anche sull'evasione, difficilmente esse possono crescere, perché crescendo diventano visibili e devono strutturarsi e ciò rende complicato mantenere una parte dei loro ricavi sommersa. Ma l'evasione è a sua volta conseguenza di un fisco troppo oneroso e troppo complicato. Lo stesso vale per lo scarso rispetto di molte norme e regolamenti: per essere davvero rispettati, dovrebbero anzitutto essere rispettabili..."

"Le infrastrutture non servono in assoluto: servono quando sono utili. Generalmente, lo Stato finanzia cattedrali nel deserto. L'Italia dovrebbe lasciare ai privati il compito di investire in infrastrutture, scegliendo quali siano prioritarie, e concentrarsi sull'infrastruttura più importante: creare un quadro giuridico stabile e favorevole agli investimenti".

Nelle parole di Stagnaro si ravvisa il nucleo di un'alternativa liberale per uscire dalla crisi. Tale alternativa dovrebbe comprendere una riforma in senso produttivistico del welfare. "Tre sono gli ingredienti principali di questo modello: priorità all'istruzione e alla formazione; regolazione pubblica (ad esempio, obbligo di assicurazione medica o previdenziale), ma fornitura di prestazioni da parte di soggetti privati, tramite i canali del mercato; copertura gratuita solo per i più poveri (Maurizio Ferrera, Corriere della Sera, 10 maggio 2004)".

E i diritti costituzionali? Leggiamo davvero la Costituzione italiana:

"La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti" (art. 32).

L'Europa e l'Italia in particolare sono di fronte a un bivio. La via sbagliata conduce al declino. Tempi e modi devono essere scelti con attenzione, ma la direzione deve essere quella giusta. 

venerdì 24 agosto 2012

La Chiesa cattolica e gli Ebrei alla vigilia della Seconda guerra mondiale. Enrico Caviglia.

Periodicamente si riaccende la polemica sull'atteggiamento della Chiesa cattolica nei confronti degli Ebrei  e del regime nazista. Nei convulsi anni che precedettero la Seconda guerra mondiale la Chiesa cattolica si oppose fermamente all'ideologia e ai crimini del regime nazista tedesco. Sono da ricordare in particolare l'enciclica Mit brennender Sorge di papa Pio XI e l'eroico comportamento del vescovo Clemens August von Galen, poi cardinale.









La posizione della Chiesa era ben chiara ai contemporanei. Enrico Caviglia, uno dei più brillanti generali del Ventesimo secolo, colto e lucido osservatore, scrisse nel suo diario (I dittatori, le guerre e il piccolo re - Diario 1925 - 1945, 2009, pp. 226 e 227):


10 febbraio 1939

"E' morto il Santo Padre Pio XI...In generale la morte del Pontefice è sentita. Il suo atteggiamento in favore degli ebrei ha fatto un'ottima impressione in tutto il mondo, e l'autorità morale della Santa Sede ha acquistato influenza anche presso le altre religioni.
Oggi il Re è andato verso le 19 a visitare la salma. Mussolini non è andato: forse non ha voluto dare un dispiacere a Hitler".

2 marzo 1939

"In questi ultimi tempi l'autorità della Chiesa è accresciuta in tutto il mondo per aver difeso a viso aperto gli ebrei e la religione. Impressione enorme ha fatto il vecchio Papa, quasi morente, che dà per radio un messaggio a tutto il mondo in difesa degli ebrei. Pacelli fu il suo segretario e consigliere".


L' autorevole giudizio di Caviglia era allora largamente condiviso. Solo dopo la Seconda guerra mondiale, nell'ambito della durissima battaglia politico ideologica, si pose in dubbio ciò che non era dubbio.

mercoledì 15 agosto 2012

La cattiva proposta politica.


In un editoriale sul Corriere della Sera Sergio Romano ha scritto:

" In tempi di crisi economiche e forte conflittualità politica la zona intermedia si è ristretta e le soluzioni più radicali, di destra o di sinistra, esercitano una maggiore attrazione.

Potremmo consolarci pensando che i vincitori saranno costretti a tenere conto della realtà e ad annacquare i loro programmi. Nessuno oggi, nemmeno il presidente degli Stati Uniti, può fare una politica economica che prescinda da una pluralità di incontrollabili fattori esterni, dal futuro dell’euro a quello del sistema politico cinese. Ma un governo che non mantiene le promesse elettorali avrà l’effetto, soprattutto in questo momento, di esasperare le delusioni degli elettori che a quelle promesse avevano creduto e di alimentare i movimenti dell’anti-politica, oggi presenti in tutti i Paesi occidentali. Abbiamo già una grave crisi dell’economia e corriamo il rischio di avere domani, di questo passo, una crisi peggiore: quella della democrazia".

Romano qui pone in evidenza un tema importante. La proposta e la propaganda politiche possono danneggiare durevolmente il processo democratico, possono contribuire a determinare la crisi della democrazia liberale rappresentativa.
Ma il danno si verifica non, come sembra sostenere l'editorialista del Corriere, per la radicalità delle soluzioni proposte o semplicemente quando le promesse elettorali non vengono mantenute. Bisogna essere ben consapevoli del ruolo e delle possibilità della democrazia rappresentativa. Il suo fondamento resta il principio enunciato da Pericle nell'Atene democratica, poi ripreso e teorizzato da Karl Popper nella Società aperta e i suoi nemici : "Benchè soltanto pochi siano in grado di dar vita a una politica, noi siamo tutti in grado di giudicarla". Non tutti possiamo governare, ma tutti possiamo giudicare chi governa.
In una democrazia liberale efficiente l'elettorato non può e non deve contribuire a formulare la politica futura. E' invece giudice della politica realizzata, contribuisce a manutenere tale democrazia mandando a casa i cattivi governi senza spargimento di sangue. "Dar vita a una buona politica" vuol dire fronteggiare rischi ed eventi imprevisti, prendere misure impopolari, compiere scelte che presuppongono conoscenze non diffuse, tener conto della complessità dei problemi e delle normali conseguenze impreviste degli atti di governo. Un governo democratico non può e non deve essere vincolato dalle promesse elettorali. La sua democraticità si esprime nella soggezione al giudizio popolare successivo.
Neppure la radicalità della proposta politica di per sè pone a rischio la libera democrazia. Semmai si rivelano pericolosi i piani troppo estesi, per questo insuscettibili di ripensamenti e correzioni di rotta efficaci. Basti pensare a uno dei principali problemi che affliggono le democrazie occidentali contemporanee: quello di un welfare costoso, insostenibile e deresponsabilizzante.
Il professor Maurizio Ferrera, uno dei migliori esperti italiani di comparazione dei welfare, nel 2011 sul Corriere della Sera ha scritto:

"I diritti sono una cosa seria, ma proprio per questo bisogna riconoscere che non sono tutti uguali. Alcuni (quelli civili e politici) tutelano libertà e facoltà dei cittadini e sulla loro certezza non si può transigere. I diritti sociali sono diversi: conferiscono spettanze, ossia titoli a partecipare alla spartizione del bilancio pubblico, che a sua volta dipende dal gettito fiscale e dal funzionamento dell'economia. Dato che al mondo non esistono pasti gratis, i diritti sociali non possono essere considerati come delle garanzie immodificabili nel tempo. Il loro contenuto deve essere programmaticamente commisurato alle dimensioni della torta di cui si dispone e all'andamento dell'economia e della demografia.
Purtroppo il welfare italiano è stato costruito ignorando questa elementare verità".

Lo stesso Ferrera, sempre sul Corriere, già nel 2004, con lungimiranza ed  esaminando il welfare cinese ha osservato che:

"Se è vero che il fiume dello sviluppo economico porterà il welfare state anche in Asia, non è detto però che si tratti di un welfare all' europea. Non è detto, in altre parole, che le economie asiatiche vedano in futuro esaurirsi il proprio vantaggio comparativo sotto questo profilo. Ciò che sta emergendo in Corea, Taiwan e Singapore è un sistema diverso dal nostro, molto più strettamente integrato con il mercato, tanto che la letteratura specialistica ha coniato il nuovo termine di «welfare state produttivistico». Tre sono gli ingredienti principali di questo modello: priorità all' istruzione e alla formazione; regolazione pubblica (ad esempio, obbligo di assicurazione medica o previdenziale), ma fornitura di prestazioni da parte di soggetti privati, tramite i canali del mercato; copertura gratuita solo per i più poveri. Anche la Cina sembra avviata in queste direzioni: in molti settori è stato ad esempio recentemente introdotto l' obbligo di copertura sanitaria, ma attraverso forme assicurative semi-private. La scelta di una via «produttivistica» al welfare ha in parte motivazioni ideologico-culturali: l' influenza dell' etica confuciana, la tradizione del paternalismo autoritario, oggi gli entusiasmi iperliberisti. In parte si tratta però di motivazioni prettamente economiche: a differenza dei Paesi europei, che hanno storicamente costruito il welfare all' interno di economie protette verso l' esterno, i Paesi asiatici devono incamminarsi verso la protezione sociale in un mondo di scambi e competizione globali".

Esiste una stretta correlazione tra struttura del welfare e attitudine alla crescita di un sistema paese. Un buon governo di fronte a una profonda crisi strutturale del welfare deve intraprendere riforme radicali. Se si sottraesse a questo dovere compromettendo le possibilità di crescita del sistema porrebbe a rischio la democrazia stessa.
Dunque quando la proposta politica diventa cattiva, quando danneggia il processo democratico? Quando rende durevolmente cattiva la domanda politica, quando diseduca l'elettore, lo spinge a non accettare la complessità e la globalità dei problemi, ingenera la convinzione che possano esistere pasti gratis, fuorvia il giudizio sui problemi della finanza pubblica nascondendo i suoi aspetti strutturali insieme più semplici ed importanti, induce ad aspettative insostenibili e tra loro inconciliabili, quando insomma contribuisce a ridurre la capacità dell'elettore di manutenere la democrazia valutando la condotta dei governi che si sottopongono al suo giudizio. Una proposta politica moderatamente demagogica può fare più danni di una proposta saggiamente e responsabilmente radicale. 



domenica 5 agosto 2012

La Russia di Putin e l'Occidente.


Russia OGGI, tramite la Rossiyskaya Gazeta, è uno strumento di informazione e analisi controllato dal governo russo. Il 4 marzo 2012 Vladimir Putin è stato eletto per la terza volta presidente della Federazione Russa. Su Russia Oggi Dmitri Babich ha pochi giorni dopo proposto una lettura della politica estera russa diversa da quella che prevale sui media occidentali. Babich cita il leader comunista Sergej Udalcov, secondo il quale:

"Putin è il politico russo più filo-occidentale...Ha fatto chiudere le basi miliari sovietiche a Cuba e in Vietnam, ha permesso alla Nato di estendersi sui territori dell’ex blocco sovietico con l’adesione delle Repubbliche baltiche nei primi anni del 2000, e infine ha investito i soldi del bilancio del Paese in buoni del tesoro americani”.

L'analisi di Babich continua così:

"Con grande dispiacere dei nazionalisti russi, le parole di Udalcov corrispondono alla realtà. Le altre mosse “amichevoli” di Putin nei confronti dell’Occidente comprendono l’autorizzazione allo schieramento di basi americane in Asia Centrale nel 2001 e la cooperazione con i Paesi Occidentali nella lotta contro i talebani in Afghanistan".

"Ma allora perché la politica di Putin è definita anti-occidentale? “I media stanno alimentando un mito che hanno creato loro stessi”, scrive il giornalista russo Stanislav Belkovskij, che critica Putin per ciò che egli chiama la sua “posizione nazional-democratica”. “Putin è tutto fuorché un nazionalista. Sotto la sua direzione, la Russia è passata dall’essere una potenza mondiale a un Paese tranquillo che ha solo ambizioni politiche a livello regionale, e persino queste non sono aggressive. È stata l’insistenza dei mezzi di comunicazione occidentali che, con il passare degli anni, ha fatto sì che la gente pensasse inconsciamente a Putin come a una figura bellicosa".

"La “nuova Russia di Putin” non cercherà di entrare in conflitto con l’Occidente. La “nuova Russia di Putin” vuole solo diventare un Paese normale e noioso con un’opposizione non radicale, senza “un’alternativa rivoluzionaria” e intrattenere relazioni di buon vicinato con i Paesi circostanti. I rapporti con l’Occidente si guasteranno solo qualora l’Occidente cerchi di imporre sulla Russia “un’alternativa rivoluzionaria”".

Recenti sviluppi sembrano, nella sostanza, in qualche misura corroborare la visione di Babich. Si rifletta, in particolare, sull'incremento della presenza americana nelle repubbliche ex sovietiche dell'Asia centrale. " L'Uzbekistan ha deciso di uscire dall'Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva (Csto), alleanza militare difensiva guidata da Mosca, per dare nuovo impulso alla cooperazione militare con gli Stati Uniti (Analisi Difesa)". Ciò senza apparentemente far lievitare l'irritazione del governo russo. Significativo, in questo senso, l'atteggiamento di un'altra fonte di informazione governativa, La Voce della Russia, che supporta la campagna per la rielezione di Obama. E' infine di questi giorni la notizia della concessione alla NATO di un "corridoio" sul territorio russo.
Tutto risolto dunque nei rapporti Russia - Occidente? Certamente no. Tra i punti di attrito sono da segnalare per importanza le situazioni di crisi in Medio Oriente, la questione dei diritti umani in Russia e lo scudo antimissile europeo. Ma senza il retaggio della propaganda dell'era sovietica, che ancora segna le rispettive opinioni pubbliche, e senza le insufficienti prestazioni del modello socio - economico occidentale, che spaventano i leaders russi, potrebbe meglio emergere ed esercitare la propria influenza la comunanza di interessi fondamentali. La potenza cinese e il fondamentalismo islamico sono destinati, con buona probabilità, a riavvicinare Occidente e Russia, in passato resi nemici dall'ideologia marxista leninista.


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