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venerdì 27 giugno 2014

La progressività della spesa pubblica.




Su Libero del 20 giugno 2014 Nicola Rossi ha così commentato la proposta di "flat tax", cioè di imposizione diretta con aliquota unica:

"...Di per sé è attuabile, bisogna sapere se deve essere realizzata a parità di gettito o meno. Realizzarla a parità di gettito significherebbe aliquote piuttosto elevate, perché per garantire la progressività bisogna organizzare un sistema di detrazioni che accompagni l'aliquota unica e ciò implica che l'aliquota sia alta».

Senza detrazioni sarebbe anche incostituzionale perché non progressiva, giusto? 

«Presterebbe obiezioni di costituzionalità, ma il punto fondamentale è che l'incremento della tassazione su ceti meno abbiente sarebbe insostenibile».

Mentre la flat tax con le detrazioni non sarebbe in contrasto con la Costituzione? 

«Il punto di fondo è soprattutto uno, bisogna partire dal principio che la progressività deve essere una proprietà del bilancio pubblico e non del sistema tributario: la progressività non riguarda solo le aliquote, ma l'intero complesso delle entrate e delle uscite del bilancio statale. Ciò significa che si può avere un'imposta ad aliquota unica e detrazioni, ma si deve lavorare sul fronte delle spese che ora è fortemente regressivo, cioè a vantaggio dei più abbienti». 

Dice che a parità di gettito l'aliquota sarebbe alta. Per avere un'aliquota più bassa bisogna tagliare la spesa pubblica. Non verrebbero colpiti sempre i più poveri?

«No, il tutto potrebbe essere finanziato attraverso tagli di spese che vanno ai più ricchi».

Tipo quali?

«Ce ne sono tante, l'esempio standard di trasferimento di soldi dalle classi povere a quelle più abbienti del paese è l'università. Altri esempi possono essere trovarti nei trasporti, basti pensare ai soldi messi dentro Alitalia, è evidente che è stato un finanziamento ad un sistema di trasporto utilizzato dai più ricchi». 

Quindi è un errore guardare solo alla progressività delle entrate? 

«È stato un abbaglio dei nostri padri costituenti, probabilmente un errore dovuto anche a quella fase storica. Ma se c'è una delle cose che dovrebbe essere rivista nella Costituzione è proprio quell'articolo che guarda al sistema tributario e non all'intero bilancio pubblico. Negli ultimi 60 anni si è guardato al solo lato delle entrate e quello che si ottenuto sono imposte altamente progressive e aliquote marginali molto elevate».

E perché siamo vittime di quest'abbaglio? 

«Perché si ha la sensazione di redistribuzione»".

Il professor Rossi indica esattamente il principio la cui risoluta applicazione può contribuire ad evitare il declino economico e sociale del paese: la progressività non deve riguardare solo le imposte, ma l'intero complesso delle entrate e delle uscite del bilancio statale.
 La necessaria cospicua diminuzione della pressione fiscale deve essere accompagnata da un adeguato taglio della spesa pubblica. La riduzione dello sperpero del denaro pubblico non basta. Sono necessarie una profonda riforma delle autonomie locali e una incisiva ristrutturazione dello stato sociale. Bisogna che la spesa sociale non sia regressiva e non venga spalmata su tutti i ceti.
Due significativi  rilievi possono però essere  mossi alle brillanti considerazioni  di Nicola Rossi.  Per rendere sostenibile il nuovo modello di bilancio pubblico occorre tagliare non solo le spese che vanno ai più ricchi ma anche molte di quelle che vanno ai semplici benestanti. I "più ricchi" infatti sono pochi.
Inoltre  si deve sottolineare che la costituzione italiana vigente già implicitamente accoglie il principio della progressività della spesa pubblica:

Art. 32 Cost.: "La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti".

Art. 34 Cost.: "La scuola è aperta a tutti.
L'istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita.
I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.
La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso".

Le cure gratuite sono garantite agli indigenti. Soltanto l'istruzione inferiore è gratuita. I capaci e meritevoli hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi, ma le provvidenze pubbliche devono essere attribuite per concorso ai soli privi di mezzi. La costituzione, se correttamente interpretata e applicata, già delinea un welfare sostenibile. La disapplicazione del modello previsto dai padri costituenti si è rivelata devastante per la finanza pubblica.

venerdì 20 giugno 2014

La recente politica estera degli Stati Uniti.




Su Analisidifesa.it del 13 giugno 2014 Gianandrea Gaiani ha così  commentato la recente politica estera USA:

"Oggi è meglio non farsi illusioni circa la ventilata disponibilità di Washington a intervenire in armi per aiutare Baghdad poiché l’Amministrazione Obama dall’Iraq all’Afghanistan, dalla Libia all’Ucraina gioca ormai il ruolo di grande destabilizzatore. Molti analisti definiscono fallimentare la politica estera e di difesa di Barack Obama ma in realtà essa rappresenta un successo per una potenza globale che si avvia a diventare il principale produttore ed esportatore di energia.
Il caos in tutte le regioni petrolifere o attraversate da oleodotti e gasdotti sembra infatti rientrare negli interessi attuali degli USA che grazie a shale gas e shale oil non solo trarranno benefici dall’aumento dei prezzi energetici ma indurrà molti Paesi a comprare il loro prodotto, ora più caro del gas russo o del petrolio del Golfo ma che potrebbe presto diventare competitivo grazie a guerre e tensioni determinate dal conflitto allargato tra sciiti e sunniti. In questo contesto va visto il ritiro prematuro dall’Iraq e dall’Afghanistan, il tira e molla di Washington sulla crisi siriana e il nucleare iraniano, la “stupida” guerra di Libia e il supporto diretto americano alla “rivoluzione” in Ucraina".

La destabilizzazione sembra in effetti l'esito generale della politica estera di Obama, anche se non pare un obiettivo lucidamente perseguito. Si consideri la vicenda esemplare del "surge" a tempo determinato realizzato in Afghanistan tra il 2009 e il 2010, mentre avveniva il  disimpegno dall'Iraq. Alessandro Marrone su Affarinternazionali.it del 2 dicembre 2009 ne dette conto in questi termini:

"Obama ha evidentemente tentato di trovare una sintesi tra le opposte visioni presenti nell’amministrazione. Da un lato le richieste dei vertici militari, sostenute più o meno decisamente dal Segretario di Stato Hillary Clinton e dall’inviato speciale Richard Holbrooke, sono state accolte con l’invio di 30.000 rinforzi. Dall’altro l’opposizione all’escalation del vice presidente Joe Biden e del capo dello staff della Casa Bianca Rahm Emanuel, condivisa dall’ala sinistra dei democratici, ha ottenuto la fissazione di una data di inizio del ritiro. In altre parole ciò che sembrava acquisito a marzo, cioè un impegno di lungo termine contro la guerriglia, è cambiato alla luce del deludente processo elettorale afgano, della crescita del debito pubblico statunitense, e soprattutto dell’opposizione alla guerra nell’opinione pubblica americana, che è particolarmente forte nel campo democratico. Il risultato è una strategia che punta a fare counter-insurgency secondo le linee guida già sperimentate con successo in Iraq, ma in un tempo limitato di 18 mesi. Una contraddizione in termini, che rischia di vanificare lo stesso sforzo americano e alleato. Cosa già sottolineata dai repubblicani, che accusano Obama di aver deciso di correre questo rischio al fine di iniziare il ritiro in tempo per la campagna presidenziale del 2012".

Nel "surge" afghano sono già evidenti i diversi fattori che hanno prodotto il disastro generale: crisi della finanza pubblica USA, spasmodica ricerca del consenso dell'opinione pubblica statunitense, visione contraddittoria e velleitaria. Difficile dunque concordare con Gaiani quando afferma che:

"...la politica estera e di difesa di Barack Obama ... in realtà...rappresenta un successo per una potenza globale che si avvia a diventare il principale produttore ed esportatore di energia".

La cassa energetica USA non vale l'ampliamento di problemi  strategici destinati a diventare sempre più gravi ed assillanti. Basti pensare alla eventuale formazione nel cuore del Medio Oriente di un'entità statuale qaedista, tenacemente rivolta all'attuazione del califfato universale. In questo e in altri casi in cui il processo decisionale è viziato dall'ideologia o dal fanatismo la dissuasione mediante intimidazione risulta inaffidabile.
Già un'altra volta la fiducia nella dissuasione si sarebbe potuta rivelare mal riposta. Durante la Guerra fredda i dirigenti sovietici, soprattutto per motivi ideologici, furono a lungo convinti che la guerra nucleare fosse inevitabile e potesse essere vinta.  Ha scritto il compianto professor Victor Zaslavsky, uno dei più autorevoli studiosi del regime sovietico:

"...è indispensabile studiare il ruolo svolto dall'ideologia marxista-leninista nella formulazione della politica estera e nella formazione della mentalità della leadership staliniana e, soprattutto, dello stesso Stalin".

"L'idea che il mondo fosse diviso in due blocchi la cui coesistenza pacifica risultava impossibile e che le guerre, sia tra paesi capitalisti sia, soprattutto, tra il blocco socialista e quello capitalista, fossero inevitabili ha origine nella...formulazione di Lenin "kto kogo" (chi vince contro chi), in cui è sintetizzata l'essenza della concezione bolscevica delle relazioni internazionali" (Victor ZASLAVSKY, Storia del sistema sovietico, 2009, p. 133 e seg.).

Obama brillante allievo di Machiavelli o apprendista stregone? Oggi la propaganda riesce ancora a velare l'inadeguatezza della leadership statunitense. Ma la realtà sempre prevale.

venerdì 13 giugno 2014

Iraq. Un disastro annunciato.



Gli insorti islamisti dell'Isis conquistano rapidamente terreno in Iraq. Lo stato costituito dopo la Seconda guerra del Golfo è ormai prossimo al collasso. Scrive Guido Olimpio sul Corriere della Sera del 13 giugno 2014:

"Gli insorti dell’Isis continuano ad avanzare grazie anche alla scarsa opposizione. Gli islamisti sono entrati nella località di Jalula e Sadiya, a circa 120 chilometri a nord di Bagdad, dopo che i governativi hanno abbandonato le posizioni senza combattere. L’esercito sembra impegnato a riorganizzare la difesa della capitale e al suo fianco – secondo molte indiscrezioni – ci sono i consiglieri iraniani. Intanto l’Onu denuncia esecuzioni sommarie nella regione di Mosul: almeno 17 ufficiali sono stati fucilati dall’Isis. E altre uccisioni potrebbero seguire. I militanti hanno liste nere con i nomi dei civili che hanno collaborato con le autorità. L’Isis non ha solo una forza militare notevole ma dispone di un apparato di intelligence bene informato e diffuso".

Questi drammatici sviluppi potevano essere evitati? Il giudizio storico si presenta sempre come valutazione di alternative.
La Prima guerra del Golfo fu combattuta nel 1991 per liberare il Kuwait dopo l'invasione irachena e lasciò al potere Saddam Hussein. La Seconda guerra del Golfo iniziò nel 2003 con il reale obiettivo di fare cadere il regime di Saddam. Questo secondo conflitto che alternative aveva? La gabbia in cui era stato costretto il regime dopo la conclusione delle ostilità era  efficace e sostenibile? Se Saddam fosse riuscito a presentarsi alle masse islamiche sunnite come il leader capace di farsi beffe delle potenze occidentali cosa sarebbe successo?
Dopo la caduta di Saddam l'Iraq fu straziato da una guerra lunga e sanguinosa. All'inizio del 2007 il generale David Petraeus assunse il comando delle forze armate USA in Iraq. In un solo anno conseguì rilevanti successi, ridusse le violenze e ottenne una sostanziale stabilizzazione del paese.
Nel gennaio 2009 Obama divenne presidente degli Stati Uniti. Egli avviò un rapido disimpegno dall'Iraq a fronte di un maggior impegno statunitense in Afghanistan. E' verosimile che il troppo rapido disimpegno USA dal teatro iracheno abbia compromesso la stabilizzazione in atto e sia in larga misura all'origine della successiva involuzione.


venerdì 6 giugno 2014

Brasile e India. Le nuove classi medie.



La globalizzazione ha determinato rapidi e imponenti mutamenti sociali. Nella maggior parte dei paesi occidentali i ceti medi sono in difficoltà. Le vecchie fonti di reddito sono indebolite o scomparse. I patrimoni finanziari e relazionali non permettono ormai di fronteggiare i cambiamenti epocali. Lo stato sociale non può più dare tutto a tutti.
A fronte di questo declino le economie emergenti hanno consentito lo sviluppo di nuove ampie classi medie. Si tratta di individui e famiglie dalla posizione ancora fragile e precaria, spesso pesantemente indebitati.
 Proprio questi nuovi ceti hanno un ruolo decisivo, soprattutto nei paesi democratici. Possono premere sull'acceleratore delle rivendicazioni sociali, respingendo un assetto produttivistico del welfare, della scuola e delle istituzioni economiche. Oppure possono accettare responsabilità e compiti gravosi, scegliendo competitività e produttività come fattori dello sviluppo, coniugando modernità e tradizione.
Mentre ceti emergenti e gruppi dirigenti brasiliani non riescono a condividere un percorso virtuoso e sostenibile, la classe media indiana sembra più consapevole delle difficoltà e cerca soluzioni fuori dello statalismo che ha contraddistinto l'India dopo l'indipendenza.
Su Il Sole 24 ORE del 30 maggio 2014 Gabriele Meoni ha così dato ragguaglio della situazione brasiliana:

"L'economia brasiliana arriva ai Mondiali in una forma a dir poco precaria. I dati sul primo trimestre dell'anno diffusi ieri dall'Istituto di statistica fotografano un Paese in cui le aziende non investono e le famiglie stentano a consumare. Se non fosse per la spesa pubblica che sostiene artificialmente l'economia, il quadro sarebbe anche peggiore".

"A ben vedere, i dati sono davvero preoccupanti. Il Brasile soffre da almeno tre anni di un malessere difficile da curare. Gli investimenti aziendali, frenati da infrastrutture arretrate e servizi pubblici inefficienti, sono in calo costante. La quota di investimenti privati sul Pil non arriva al 18%, uno dei tassi più bassi tra i grandi Paesi emergenti. I consumi sono stagnanti, depressi da un'inflazione superiore al 6% che riduce il potere d'acquisto dei salari. Quello zero virgola di crescita allora è solo il frutto di una spesa governativa generosa che continua a finanziare il welfare e le costruzioni popolari".

Su La Stampa del 6 giugno 2014 Subhash Agrawal così presenta l'India uscita dalle recenti elezioni:

"Negli ultimi sei mesi, molti europei e americani hanno espresso grande disprezzo per la classe media indiana e la sua attrazione per Modi...Molte di queste reazioni contengono pietà esagerata, stereotipi insultanti, ipotesi sbagliate e un malcelato disprezzo per la classe media indiana. È probabilmente una delle letture più gravemente distorte dell’India da parte del mondo esterno, e per questo merita un’analisi attenta".

"... il regime precedente ha rappresentato la peggiore combinazione di populismo, corruzione e incompetenza. Milioni di indiani hanno sperimentato una dolorosa caduta del reddito, del risparmio e della sicurezza economica, a causa del forte rallentamento della crescita durante il periodo del Partito del Congresso al potere. Il populismo di vecchio tipo non funziona più neanche in India, e i poveri ora si rendono conto che le promesse populiste li hanno lasciati completamente alle dipendenze del governo, ma incapaci di fare qualsiasi cosa. Invece di promesse populiste, come “diritto all’istruzione”, che significa molto poco quando non ci sono tetti, bagni, o anche insegnanti di scuole pubbliche, questa volta gli indiani hanno votato per chi proponeva loro politiche economiche sensate in grado di fornire energia elettrica affidabile, acqua, sanità, strade, posti di lavoro e sicurezza. Tutti bisogni semplici e naturali che l’Occidente dovrebbe rispettare".

La recente svolta indiana è comprensibile e va seguita con attenzione. Può una grande democrazia come quella indiana adottare un assetto produttivistico e abbandonare davvero l'abituale statalismo, continuando ad attribuire alla famiglia compiti fondamentali?
E' un'evoluzione auspicabile, che si realizzerà quando la famiglia e il matrimonio diventeranno spazio di affetto e libertà, segnato dalla piena parità.

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