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domenica 25 marzo 2012

Il modello Lee Kuan Yew. Singapore.


Lee Kuan Yew è stato il primo ministro di Singapore dal 1959 al 1990. Successivamente ha svolto nel governo un ruolo di influenza e consulenza. Si è ritirato nel 2011, pur continuando a partecipare al dibattito pubblico nazionale ed internazionale con scritti, interviste e conferenze.
Dopo una breve fusione con la Malesia, firmò nel 1965 un accordo di separazione che fece di Singapore uno stato indipendente e sovrano. Nei lunghi anni del suo governo il paese ha conosciuto un intenso sviluppo economico, realizzato grazie a una originale combinazione di autoritarismo politico, pianificazione familiare, approccio multiculturale, apertura agli investimenti stranieri, impulso alla costruzione di infrastrutture, edificazione di un efficiente sistema scolastico.
Il modello di governo di Singapore, caratterizzato da una repressione capillare del dissenso, dal ricorso alla pena di morte ed alle punizioni corporali (fustigazione), ma anche dalla lotta alla corruzione e dal conseguimento di obiettivi economici e sociali eclatanti, viene attentamente studiato dai gruppi dirigenti dei paesi nuovi protagonisti nel contesto internazionale segnato dalla globalizzazione.
Spesso il dibattito su questi temi esce dalle stanze del potere e dagli ambienti accademici e occupa spazi significativi sui media, vecchi e nuovi. Si confrontano sistemi autoritari come quello cinese e forme di stato democratiche, come quella indiana, che hanno consentito un notevole sviluppo economico. Alla democrazia rappresentativa liberale vengono riconosciute una maggiore efficacia legittimante, una maggiore trasparenza e una migliore capacità di gestire i conflitti. Non si deve nascondere però che le istituzioni della democrazia rappresentativa liberale vengono messe a dura prova nei periodi di grave crisi economica. Basti pensare al discredito in cui caddero negli anni Trenta del secolo scorso e che oggi si ripresenta in forme sempre più preoccupanti.
La tradizionale democrazia rappresentativa occidentale ha mostrato rilevanti problemi di efficienza. Processi decisionali pubblici farraginosi e inconcludenti, tendenza ad una espansione incontrollata della spesa pubblica, alta pressione fiscale, incapacità di far crescere le economie di mercato assicurando l'applicazione di regole generali adeguate, compromettono tradizioni e istituzioni che hanno permesso di attribuire e tutelare diritti individuali e collettivi in una misura mai prima conosciuta.
Occorre riprendere un percorso di sviluppo insieme economico e civile. La via maestra resta l'educazione alla libertà responsabile e all'autocontrollo. La manutenzione della nostra democrazia è infatti non da ora affidata ai cittadini elettori. Si formi un largo genuino consenso sulle misure necessarie. I governanti disposti a realizzarle si trovano sempre.




domenica 18 marzo 2012

Crisi: competitività decisiva.

Nonostante la cospicua riduzione dello spread relativo al tasso di interesse applicato al debito pubblico italiano, nei primi due mesi del 2012 sono rapidamente aumentate le ore di cassa integrazione autorizzate.
Secondo il segretario confederale Cgil Vincenzo Scudiere: "Il nostro sistema produttivo è invischiato in una crisi profondissima con prospettive pericolose di declino. La cosiddetta recessione tecnica comincia a dispiegare i suoi effetti sui lavoratori con un balzo deciso nella richiesta di ore di cassa. È sempre più difficile immaginare una inversione di tendenza senza una ripresa nelle produzioni e nei consumi". Scudiere riporta al centro dell'attenzione la produzione, correttamente, e i consumi, meno correttamente, perché se la competitività delle imprese che producono in Italia è bassa i consumatori acquisteranno in larga misura beni e servizi prodotti fuori del nostro paese.
Prima che il governo attualmente in carica suscitasse enormi speranze, il professor Pietro Reichlin, con riferimento alla manovra di inizio estate del precedente governo, aveva scritto sul Sole 24 ORE :

" La scommessa alla base dell'Uem è la determinazione di un equilibrio in cui un insieme di Paesi con culture, redditi e istituzioni diverse, possono crescere insieme senza ricorrere a trasferimenti unilaterali eccessivi nei confronti delle aree svantaggiate".

"Le caratteristiche del mercato interno di ogni Paese dell'Eurozona deve adattarsi alle condizioni economiche sovranazionali. Ciò significa una maggiore liberalizzazione nella circolazione di lavoro e capitale, politiche che favoriscano l'afflusso di investimenti diretti verso i Paesi periferici, liberalizzazioni per ridurre il peso dei settori protetti, una riqualificazione della spesa pubblica che favorisca la crescita del capitale umano e dell'innovazione, un sistema più efficiente di relazioni industriali e un alleggerimento della tassazione su lavoro e imprese".

"I commenti sulla manovra del Governo di questi giorni si sono concentrati molto sulla dimensione dei tagli e delle entrate. Ma se la manovra non affronta i problemi che sono alla base della mancanza di competitività del nostro Paese, l'obiettivo di portare il disavanzo primario in territorio negativo nei tempi previsti potrebbe non essere sufficiente".

Le considerazioni di Reichlin sembrano tuttora valide. Porre un freno al deficit pubblico o addirittura riportare il bilancio in pareggio non basta. Solo riducendo il divario di competitività che presentano molte imprese italiane e l'intero sistema paese si potranno creare nuovi vitali posti di lavoro e nuova ricchezza, realizzando la necessaria premessa di una riduzione del debito pubblico che non determini un insostenibile impoverimento di ampi settori della società.
Alle indicazioni dell'economista citato giova aggiungere quelle ricavabili da un incisivo studio/manifesto della Cgia di Mestre, ancora sostanzialmente corrispondente alla situazione italiana, che propone un "decalogo dei «costi diretti e indiretti che il nostro sistema economico sconta, rispetto alla media Ue, in materia di tasse, infrastrutture, giustizia civile, energia, pagamenti della Pubblica Amministrazione e competitività».
Pressione fiscale, infrastrutture, ritardi nei pagamenti della Pubblica Amministrazione, giustizia civile e istruzione, costi dell'energia, qualità delle istituzioni, criminalità organizzata, legislazione del lavoro, burocrazia, welfare costoso e inefficiente, alimentato con trasferimenti che gravano sulle regioni più produttive. Ecco il programma di governo di cui il paese ha bisogno. Vedremo se retorica e propaganda non sostituiranno una attività di governo pronta e coraggiosa.


sabato 10 marzo 2012

Cina e USA secondo Kissinger.



In un recente editoriale su La Stampa Gianni Riotta ha scritto:

"E' scontato che il prossimo conflitto del nostro pianeta veda Stati Uniti e Cina affrontarsi in guerra per l’egemonia? Lo sostengono a Pechino i falchi, persuasi da 3000 anni di timori di accerchiamento del Regno di Mezzo".

" Insomma per interessi economici, geopolitica, cultura e valori, è «inevitabile» la guerra Usa-Cina?".

"Per scongiurare la catastrofe della III guerra mondiale, la prima del XXI secolo, interviene il decano della diplomazia Henry Kissinger, con il saggio «The future of U.S. Chinese relations», che qui anticipiamo dal prossimo numero della rivista Foreign Affairs, e che già sta facendo discutere Casa Bianca e Dipartimento di Stato".

" Dopo aver criticato gli oltranzisti di Pechino e Washington, Kissinger compie il passo più astuto del buon stratega, cerca di capire quali sono le paure dei contendenti che possano scatenare mosse azzardate. La paura cinese, scrive, è essere accerchiati nei confini nazionali, senza accesso alle vie dei commerci e della comunicazione globale: ogni volta che la fobia scatta, Pechino va in guerra, Corea 1950, India 1962, Urss 1969, Vietnam 1979. La speculare angoscia americana è perdere accesso e influenza sull’Oceano Pacifico, e Kissinger, profugo europeo da bambino, ricorda che solo questo fattore trascina gli Usa in guerra nel 1941".

"Con freddezza che impressiona, Kissinger, l’uomo che col presidente Nixon ha riportato la Cina nel mondo e isolato l’Urss ai tempi della Guerra Fredda, ammonisce i rivali: non fatevi illusioni, lo scontro sarebbe nucleare, feroce e vi indebolirebbe entrambi per sempre. Devastando città ed economia e paralizzando anche, per la prima volta nella storia dell’umanità grazie alla cyber guerra, Internet e le comunicazioni, satelliti tv, Gps inclusi. «Le stesse culture» cinesi ed americane, conclude Kissinger, porterebbero i duellanti a non darsi tregua fino in fondo, lasciandosi alle spalle macerie e vittime".

L'analisi pare sbagliata a partire dalle sue premesse storiche. Secondo l'ex segretario di stato USA, come citato da Riotta, ogni volta che la fobia dell'accerchiamento scatta "Pechino va in guerra": Corea 1950, India 1962, Urss 1969, Vietnam 1979. Si tratta di conflitti profondamente diversi tra loro. Ma quello che sembra in ogni caso inesistente è proprio il fattore "accerchiamento" delineato da Kissinger.
La guerra di Corea cominciò per iniziativa del regime nord coreano e solo con il consenso di Stalin, quando la Repubblica popolare cinese, appena costituita, era ancora legata all'Unione Sovietica (Christopher ANDREW e Vasilij MITROKHIN, L'Archivio Mitrokhin - Una storia globale della guerra fredda, 2005, p. 265).
Victor Zaslavsky in Storia del sistema sovietico, 2009, pag.142, ha ben riassunto le ragioni e le circostanze dell'intervento cinese in questa guerra:

"Stalin ha formulato molto chiaramente la sua posizione riguardo alla inevitabilità e persino all'opportunità della Terza guerra mondiale in una lettera a Mao Tse-tung dell'ottobre 1950 in cui proponeva alla Cina di inviare le sue truppe in Corea". "La politica estera staliniana, basata sull'idea dell'inevitabilità della guerra, stava portando sull'orlo della Terza guerra mondiale".

Successivamente la Cina diventò un duro avversario dell'URSS. Il contrasto cino-sovietico venne alla luce nella primavera del 1960 (v. ANDREW e MITROKHIN, op.cit., pag. 273). Nel corso del 1969 ci furono alcuni scontri armati tra truppe cinesi e sovietiche, poco più che scaramucce, ma lo stesso Kissinger, come risulta da un altro suo scritto, espresse la convinzione che gli aggressori fossero i sovietici (Henry KISSINGER, White House Years, 1979, pp. 174-177).
Nel febbraio 1979 forze cinesi invasero il Vietnam, alleato dell'Unione Sovietica. Un mese prima Cina e USA avevano instaurato regolari relazioni diplomatiche, a suggello di un'intesa in funzione antisovietica (v., ancora, ANDREW e MITROKHIN, op cit, p. 288). L' invasione cinese dell'India nell'ottobre 1962 rappresentò invece una fase cruenta dell'annosa controversia sul confine tra i due paesi tuttora in atto.
Nel pensiero di Kissinger, presentato da Riotta, "L’alternativa alle armi è l’idea di una «Comunità del Pacifico», con Pechino e Washington a convivere intorno ad organizzazioni tipo Trans-Pacific Partnership, zona di libero scambio economico cui il presidente Obama vuole associare la Cina. Se i due ultimi giganti si legano reciprocamente - sul modello di Usa e Europa - possono risolvere i conflitti negoziando, magari con maratone diplomatiche estenuanti. Washington, Londra, Parigi, Berlino e Roma possono dividersi e riunirsi, ma senza spargere mai sangue".
Però Europa e USA condividono istituzioni democratiche e principi liberali. Si tratta di un'apertura reciproca fondata su comuni principi e regole fondamentali. Comunanza che non è senza conseguenze sulla competizione economica. Democrazia, libertà, rispetto dei diritti umani e dell'ambiente "costano", fanno crescere pressione fiscale, debito pubblico, costo del lavoro, costi di produzione, rallentano i processi decisionali pubblici e la costruzione di infrastrutture.
La Cina in questo senso trae dai tratti autoritari del suo regime importanti vantaggi competitivi in ambito economico. Quando l'Occidente sostiene i dissidenti cinesi persegue indirettamente l'obiettivo di una competizione economica leale, secondo regole comuni che non attribuiscano ai cinesi vantaggi ingiustificati. Una pressione di questo tipo spingerà la superpotenza cinese alla guerra? Diversamente da ciò che sembra sostenere Kissinger, pare da escludere. I governanti cinesi non sono più pesantemente condizionati dall'ideologia e non sono realmente accecati dal nazionalismo. Sono tecnocrati astuti, che non porteranno alla distruzione il loro paese e il loro popolo. Più Ronald Reagan e meno Kissinger dunque, se si vuole evitare che l'Occidente diventi sempre più terra di speculatori e di disoccupati.


sabato 3 marzo 2012

Mario Draghi. Un' Europa meno sociale e più competitiva.


Il presidente della Bce Mario Draghi in una recente intervista al Wall Street Journal ha dichiarato:
"Il modello sociale europeo è già andato nel momento in cui alcuni paesi hanno un tasso di disoccupazione giovanile elevato. Le riforme strutturali sono necessarie per aumentare l'occupazione, specialmente giovanile, e, quindi, i consumi e la spesa".
"Rudi Dornbusch era solito dire che gli europei sono così ricchi da potersi permettere di pagare tutti per non lavorare. Questo tempo è andato"

Il welfare europeo è stato costruito in economie protette. Ma la globalizzazione ha posto le economie europee in competizione con quelle di paesi caratterizzati da un "welfare produttivistico" che protegge gratuitamente, e neppure sempre, soltanto gli indigenti.
Da un lato un modello sociale che determina elevata spesa pubblica, alta pressione fiscale e spesso un imponente debito pubblico. Dall'altro sistemi che consentono di contenere spesa pubblica, pressione fiscale e debito pubblico, stimolando l'impegno individuale ed il risparmio.
Ciò si traduce in uno svantaggio competitivo che non può durare a lungo senza compromettere la vitalità delle imprese e la possibilità di conseguire un alto tasso di occupazione.
Sembra dunque indispensabile riformare il nostro stato sociale. Del resto, come ha efficacemente precisato il professor Maurizio Ferrera, "I diritti... non sono tutti uguali. Alcuni (quelli civili e politici) tutelano libertà e facoltà dei cittadini e sulla loro certezza non si può transigere. I diritti sociali sono diversi: conferiscono spettanze, ossia titoli a partecipare alla spartizione del bilancio pubblico, che a sua volta dipende dal gettito fiscale e dal funzionamento dell'economia. Dato che al mondo non esistono pasti gratis, i diritti sociali non possono essere considerati come delle garanzie immodificabili nel tempo. Il loro contenuto deve essere programmaticamente commisurato alle dimensioni della torta di cui si dispone e all'andamento dell'economia e della demografia".
Ma gli osservatori più avveduti del nostro difficile tempo vedono gli ostacoli e le difficoltà. Scrive Antonio Polito sul Corriere della Sera:
"si sta creando una tensione molto forte tra ciò che va fatto e ciò che gli elettorati sono disposti ad accettare, e questa tensione «democratica» è da sempre il pericolo maggiore per l'Unione, progetto di élite e tecnocratico per eccellenza. La Merkel è nei guai che abbiamo visto, e deve conquistarsi un terzo mandato l'anno prossimo. Ma già tra poche settimane in Francia una vittoria del socialista Hollande potrebbe portare alla richiesta francese di rinegoziare il Trattato fiscale appena varato. Senza contare che i sondaggi in Grecia pronosticano un trionfo di estremisti di ogni colore, e che in Italia nessuno sa chi governerà tra un anno, e se per vincere dovrà promettere di fermare la marcia delle riforme. Neanche ancora scampato ai mercati, l'euro è ora nelle mani degli elettorati".
L'editorialista del Corriere non esplora a sufficienza una prospettiva inquietante. Si moltiplicano i segnali della trasformazione dell'opposizione alle riforme in una temibile questione di ordine pubblico. Lo scenario diverrebbe segnato da convulsioni politico - sociali difficili da superare.
Probabilmente è nel giusto chi, al di là delle apparenze, vede in insufficienze culturali e morali i fattori decisivi della inadeguata risposta alla crisi. Emergono chiari il fallimento delle principali agenzie educative, l'efficacia devastante di lunghi decenni di propaganda politica demagogica, la pochezza intellettuale e morale di tanti cattivi maestri che hanno occupato cattedre, riempito di assurdità gli scaffali delle librerie, imbrattato le pagine dei quotidiani.
Non bisogna però pensare che sia troppo tardi per iniziare una correzione di rotta. Uno sforzo sufficientemente condiviso, che trovi la propria premessa nell'accettazione di amare verità, può rallentare il declino, quel tanto che basta a rendere insostenibili le contraddizioni dei nostri spregiudicati competitori. Poi si vedrà.







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