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mercoledì 30 novembre 2011

I soldati USA lasciano l'Iraq.

Analisi Difesa è una rivista on-line che si occupa di difesa, sicurezza, forze armate. E' diretta da Gianandrea Gaiani. Nel numero di novembre un ampio rapporto sul ritiro delle truppe USA dall'Iraq, che dovrebbe essere completato entro il 2011.
Gli ultimi 39.000 mila militari americani lasceranno ai civili del Dipartimento di Stato la responsabilità dei programmi di sicurezza e addestramento intrapresi dagli Stati Uniti.
Alla tutela del personale e delle strutture dovranno provvedere almeno 5.000 contractors, civili addetti alla sicurezza.
Pur essendo il ritiro previsto da un accordo tra i due paesi stipulato nel 2008, il governo iracheno ha chiesto che 5.000 soldati restino in Iraq con compiti ufficialmente di addestramento. Ma non ha garantito alle truppe USA l'immunità per errori e reati compiuti nell'esercizio delle loro funzioni, considerata irrinunciabile dal governo americano.
L'amministrazione USA sta fornendo all'Iraq armi per la difesa da attacchi esterni, tra le quali blindati, carri armati Abrams e cacciabombardieri F-16. Però le forze irachene resteranno a lungo inidonee. Per tentare di porre rimedio a tale debolezza gli Stati Uniti schiereranno nuove forze in Kuwait e probabilmente accresceranno la presenza navale nel Golfo Persico.
I soldati americani lasciano l'Iraq. Tra un po' forse lasceranno anche l'Afghanistan. Ma i problemi in ambito internazionale che Obama ha trovato sono irrisolti e spesso aggravati. Gli Stati Uniti non hanno più le risorse materiali e morali sufficienti per esercitare globalmente un'influenza determinante. L'attuale amministrazione, svanite le illusioni e le suggestioni utilissime in campagna elettorale, naviga a vista non trovando partners adeguati neppure nei tradizionali alleati europei.
Il movimento Occupy Wall Street toglie spazio nei media al Tea Party, mentre Obama addebita agli europei i guai economici dell'Occidente. Sono preoccupanti sintomi del declino della grande e libera democrazia americana, che può uscire davvero dalla crisi soltanto affrontando efficacemente i problemi di competitività e ridando ampia vigenza ai valori tradizionali.








martedì 22 novembre 2011

Russia e Cina. Una relazione complicata.

Dai ricercatori del SIPRI un ampio e puntuale rapporto sullo stato delle relazioni tra Russia e Cina. Dopo lo scioglimento dell'Unione Sovietica i governi dei due grandi paesi hanno presto avviato una collaborazione fondata su alcuni interessi condivisi.
Sicurezza dei confini comuni, più efficace contrasto del fondamentalismo islamico, del terrorismo e della proliferazione di armi non convenzionali, affermazione del principio di non ingerenza nelle questioni interne degli altri stati, costruzione di un assetto internazionale multipolare hanno costituito gli obiettivi della cooperazione strategica intrapresa già nel 1996 da Jiang Zemin e Boris Yeltsin, anche se preponderante è subito apparsa la collaborazione in ambito militare.
Negli anni successivi la Cina è diventata la seconda economia mondiale e il primo o secondo importatore di petrolio, mentre occupa il secondo posto nel mondo anche per la spesa militare.
Dagli anni Novanta ad oggi la cooperazione in ambito politico militare e addestrativo è stata continua e fruttuosa. Si stima inoltre che nel periodo 1991 - 2010 più del 90% delle principali armi convenzionali importate in Cina sia stato fornito dalla Russia. Ma dopo il 2005 gli ordini da parte del governo cinese sono crollati. La Cina resta assai interessata alle tecnologie militari russe, ma con lo scopo prevalente di sviluppare la sua industria degli armamenti e di incrementare le proprie già imponenti esportazioni di armi. Le tecnologie militari e l'esportazione di armi sono oggi tra i più importanti punti di frizione nei rapporti fra i due paesi.
La Cina è il secondo - per alcuni il primo - importatore di petrolio. Mentre la Russia ne è forse il maggior produttore, raggiungendo il secondo posto per produzione di gas naturale. Ma le divergenze sui prezzi e la volontà di ridurre la dipendenza energetica hanno limitato le importazioni cinesi, negli ultimi anni mai superiori al 10% del totale.
Continua una pragmatica collaborazione suggerita dalla convenienza, ma sembrano mancare una comune visione del mondo e interessi strategici fondamentali condivisi. La Russia si considera un paese europeo ed i suoi gruppi dirigenti nutrono una profonda diffidenza per la Cina, vista come principale minaccia strategica. Entrambe le potenze sono interessate a sviluppare soprattutto le relazioni con gli Stati Uniti. La Russia per i cinesi diventa sempre meno importante.





sabato 12 novembre 2011

Poteri forti o Occidente debole?

Ormai da alcuni anni le due sponde dell'Atlantico sono unite da una comune grave crisi economica, che in questo momento colpisce in particolare le finanze pubbliche. Le lobbies finanziarie-bancarie spingono i governi ad intervenire, mentre i loro esponenti riescono spesso a ottenere cospicui guadagni. La gente vede tutto questo e addebita le difficoltà e i danni subiti proprio a tali lobbies, a operatori economici senza scrupoli, pretendendo dai governi misure drastiche contro gli speculatori.
Finanzieri e banchieri cercano di massimizzare i profitti, mentre le loro lobbies esercitano una incisiva influenza. Ma in realtà si tratta di condotte abituali nelle economie occidentali, anche in periodi di crescita e diffuso benessere. L'attenzione dovrebbe invece soprattutto fermarsi su alcuni dati capaci di indirizzare la ricerca in altre direzioni.
La Cina ha una pressione fiscale oltre venti punti più bassa di quella italiana, tedesca e francese (meno del 20% contro oltre il 40% del PIL). Ha un debito pubblico quasi certamente inferiore al 20% del PIL, mentre sono intorno al 90% Francia e Germania, a loro volta virtuose rispetto a Italia e Giappone, che presentano un debito pubblico ben maggiore del 100% del PIL.
Bassa pressione fiscale e debito pubblico contenuto sono ottenuti grazie ad un welfare cortissimo, che "copre" poco, costa poco, utilizza strumenti semiprivati, costringe individui e famiglie a risparmiare, studiare e lavorare duramente. Anche a ciò è connessa l'alta capacità di esportare. Tutto questo consente di accumulare ingenti riserve valutarie.
E' poi indispensabile confrontare mentalità, tradizioni, visione del mondo e della vita. Pur con qualche adattamento, sono largamente applicabili considerazioni svolte dal professor Luca Ricolfi a proposito degli immigrati in Italia (La Repubblica delle tasse, 2011, pagg. 45 e 46):

"E infatti i nuovi posti sono spesso di livello modesto, e finiscono per essere accettati soltanto dagli stranieri".
"La differenza è che "loro" vivono in un altro tempo, che noi abbiamo dimenticato. Un tempo in cui la cosa fondamentale era avere un lavoro, non importa quanto adeguato all'immagine che abbiamo di noi stessi, un tempo in cui fare sacrifici era normale, un tempo in cui il benessere non era considerato un diritto".


A tali fattori si devono aggiungere processi decisionali pubblici più rapidi, burocrazia in via di razionalizzazione, stipendi tuttora più bassi.
Considerazioni analoghe valgono per altri paesi asiatici e, in parte, per Russia e Brasile.
La finanza internazionale guarda l'Occidente in crisi e valuta realisticamente prospettive di crescita, sostenibilità del debito pubblico, struttura dello stato sociale, possibilità di sviluppo dei consumi interni, in una economia globalizzata, vendendo, acquistando, speculando di conseguenza.
Dunque cinici poteri forti o piuttosto Occidente debole, in declino? I nostri politici ed economisti non nascondano ai loro concittadini l'inevitabile risposta.


giovedì 10 novembre 2011

La Repubblica delle tasse.

E' in libreria dal mese scorso La Repubblica delle tasse, di Luca Ricolfi. Il professor Ricolfi è docente di analisi dei dati presso l'Università di Torino. Il libro costituisce una rielaborazione dei suoi ultimi scritti pubblicati sulla "Stampa" e su "Panorama".
I principali temi che infiammano il dibattito pubblico - sistema fiscale, fattori politici del declino italiano, federalismo, questioni meridionale e settentrionale, effetti della globalizzazione, prospettive del paese - sono discussi con ricchezza di argomenti. Particolare attenzione è prestata al problema della insufficiente crescita economica.
Ricolfi chiude il suo lavoro con queste parole:

"D'altronde la spudoratezza con cui le forze politiche eludono il problema della crescita ha la sua base nell'immaturità dei cittadini-contribuenti. L'unico tema che sembra davvero appassionare i cittadini è chi dovrà pagare di più: il Nord o il Sud, i pensionati o i lavoratori, i dipendenti o gli autonomi, i ricchi o i poveri, gli evasori o gli onesti. Mentre il punto centrale per il futuro di tutti noi è un altro: non tanto se le misure saranno giuste, ma se saranno efficaci. Ed è su questo, solo su questo, che - temo - ci giudicheranno i mercati".
Un taglio insolitamente franco in un paese come il nostro, dove gli intellettuali sono spesso al prevalente servizio di corporazioni e gruppi politici, da cui dipende la propria personale affermazione.
La Repubblica delle tasse è un' agile opera indispensabile per comprendere l'Italia contemporanea. Rappresenta una lettura utilissima anche per i nostri giovani, che possono trovare in essa un modello di approccio critico e di ricerca della verità.


Luca Ricolfi è direttore della rivista Polena, dove è possibile leggere numerosi suoi interessanti scritti.




giovedì 3 novembre 2011

Che fare?

Piero Ostellino in un coraggioso editoriale sul Corriere della Sera di oggi (pdf) denuncia l'immobilismo e le piccole furbizie della classe dirigente italiana:

"Le divisioni, sia nella maggioranza, sia fra le opposizioni, riflettono il rifiuto di ogni cambiamento, che le tocchi da vicino, delle corporazioni, socialmente, economicamente ed elettoralmente più forti. Sono riformiste solo quando si tratta di dissodare il terreno altrui. La politica ha abdicato alla propria funzione di indirizzo, e di guida, per assolvere il compito di remunerare, di volta in volta, questa o quella corporazione, sulla base di una cultura politica vecchia e disastrosa e in funzione del proprio consenso elettorale. Non è l'italiano qualunque ad avere scarsa credibilità all'estero; è l'establishment. A doversi chiedere se non abbia fatto il suo tempo — qualora non trovi un minimo di coesione su un «che fare» frutto di una più matura idea dell'Italia — è la classe dirigente".
La crescita economica in Europa e USA, secondo l'OCSE, resterà minima nel 2012. Il PIL dell' area euro aumenterà soltanto del 0,3 %.
Ciò è in larga misura inevitabile perchè è inevitabile ridurre tempestivamente il consumo a debito. Ma restano tutti i temi scottanti che la competizione internazionale ci costringe ad affrontare. Estensione ed obiettivi dello stato sociale, pensioni, lavoro, strumenti per limitare e ripianare il debito pubblico, concorrenza e libertà economica, efficienza della pubblica amministrazione, sistema fiscale, prerogative della magistratura ed amministrazione della giustizia, assetto delle istituzioni di rilievo costituzionale.
Un paese dove si raggiungono meschini accordi di facciata solo al prezzo della rinuncia a discutere sinceramente e costruttivamente del " che fare" merita il declino. Le crisi sono una straordinaria occasione per capire e cambiare. Ma occorrono adeguate risorse morali ed intellettuali. Il conflitto politico ideologico del secolo scorso e l'indebolimento di preziose tradizioni hanno determinato una drammatica perdita di tali risorse. Forse non siamo più pronti a infliggere sofferenze in nome dell'utopia e dell'ideologia ma non siamo nemmeno più capaci di costruire con lungimiranza.





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