"Come gli individui di una società, i paesi dell’Eurozona sono indipendenti e interdipendenti, e possono incidere gli uni sugli altri in modo sia positivo che negativo. Una buona governance implica che gli Stati membri e le istituzioni UE adempiano alle proprie responsabilità. Unione economica e monetaria significa, innanzitutto, proprio questo: due unioni, una sul piano monetario, l’altra su quello economico".
"... l'euro da solo non spiega perché l'Eurozona sia diventata il grande malato dell'economia globale. Per comprendere il vero motivo, occorre riflettere sulla debolezza dell'unione economica dell'Europa".
"Tanto per cominciare, il Patto di stabilità e di crescita, teso a garantire politiche fiscali efficaci all'interno della zona euro, non è mai stato attuato in modo corretto".
"In aggiunta, la governance dell'Eurozona non includeva il monitoraggio e la sorveglianza degli indicatori di competitività, vale a dire andamento dei prezzi nominali e dei costi negli Stati membri, e squilibri esterni dei paesi nell'ambito della zona euro".
"Una terza fonte di debolezza è che, con l'entrata in vigore dell'euro, non furono previsti strumenti per la gestione delle crisi".
"Infine, l'alta correlazione tra la capacità di credito delle banche commerciali di un dato Paese e quella del suo governo crea un'ulteriore causa di vulnerabilità, che nell'Eurozona è particolarmente dannosa".
Porre rimedio a questi errori scioglierà tutti i maggiori nodi della crisi? Sembra proprio di no. Trichet pecca di eurocentrismo, trascurando quegli aspetti che possono trovare spiegazione soltanto esaminando la cosiddetta globalizzazione ed i suoi effetti.
Discutendo le vicende dell'Alcoa Luca Ricolfi, su La Stampa dell' 11 settembre 2012, ammette:
"La realtà è che produrre in Europa è sempre meno conveniente".
Gli indicatori di competitività e gli squilibri esterni sono rilevanti non solo nell'ambito dell'Eurozona ma anche nei confronti delle economie extraeuropee. Gianni Riotta, su La Stampa del 12 settembre 2012, presenta la nuova normalità con queste parole:
"Raghuram Rajan, professore dell’università di Chicago e ora consigliere economico principale del governo indiano, in un colloquio sull’ultimo numero della rivista Arcvision, spiega perché non si placa lo stress da crisi: abbiamo compreso, infine, che non viviamo quella che negli anni del boom i giornali chiamavano «congiuntura», ciclo effimero di recessione. E’ piuttosto un «new normal», una nuova realtà, i sussidi su cui contavamo per tenere su aziende e agricolture improduttive, la burocrazia che si poteva sempre dilatare per assumere raccomandati poco qualificati, la spesa pubblica che nutriva città e regioni, la svalutazione che piazzava i nostri elettrodomestici all’estero e le dogane che imponevano in Italia prodotti scadenti ma di monopolio, sono finiti, per sempre.
Auto, servizi, cure mediche, scuola, assicurazioni e pensioni, beni di lusso e confezioni del supermercato, ogni momento del nostro lavoro, dall’arte, alla scienza, al cibo, vivrà di regole e standard mondiali. O siamo capaci di dargli la stessa qualità top che il mercato richiede, e di produrlo nei tempi e ai prezzi che il mondo pagherà, o semplicemente quel bene non sarà più prodotto in Italia (o Francia, India, Messico) e i lavoratori che se ne occupavano resteranno a mani vuote".
Si prospetta dunque un lungo periodo di difficoltà. Tanto più lungo quanto più risulterà arduo metabolizzare culturalmente e politicamente il cambiamento. Intellettuali, politici, sindacalisti e agenzie educative sono chiamati ad uno straordinario esercizio di responsabilità e lungimiranza. Mentre una risoluta lotta ai privilegi ed alle rendite di posizione ingiustificate deve accompagnare le indispensabili riforme strutturali, destinate a creare allarme sociale.