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venerdì 23 dicembre 2011

Tocqueville. Per una libera repubblica.

Tocqueville, giovane magistrato, ottenne un congedo non retribuito per condurre una ricerca sul sistema carcerario negli Stati Uniti. Nel 1831 si imbarcò con l'amico e collega Beaumont e ritornò in patria l'anno successivo.
In America studiò a fondo la nuova società democratica, le sue istituzioni, la sua cultura, i costumi e le tradizioni che la resero possibile. Registrò dati, impressioni, riflessioni e interviste in alcuni quaderni, poi raccolti nel Viaggio negli Stati UnitiLa Democrazia in America, l'opera più nota del grande intellettuale francese, nasce in larga misura da questa prolungata indagine sul campo, fissata in quegli appunti di grandi valore storico e forza narrativa. Le seguenti considerazioni, tratte dal Quaderno E ( pag. 262 - 1990), illuminano il tema dell'affermazione della libertà repubblicana americana:

"Vi è un' importante ragione che supera ogni altra e che, dopo che tutte sono state soppesate, da sola fa pendere la bilancia: il popolo americano, considerato nel suo complesso, è non soltanto il più illuminato del mondo, ma, cosa che considero molto superiore a tale vantaggio, è il popolo che possiede l'educazione politica-pratica più evoluta".

Per Tocqueville dunque ideali e cultura diffusi non bastano a spiegare il durevole successo della libertà repubblicana. Il cittadino elettore è chiamato a compiere la sua manutenzione, che solo un adeguato addestramento e una sufficiente conoscenza pratica delle sue esigenze e dei suoi meccanismi consentono.
Nelle giurie, nei comitati, nelle associazioni, nelle assemblee municipali ed ancor prima nelle famiglie e nelle comunità religiose i cittadini degli Stati Uniti sperimentavano i problemi concreti della convivenza in una società libera, la loro complessità, le difficoltà, le ineliminabili conseguenze impreviste di ogni condotta. Acquistavano consapevolezza del necessario legame tra responsabilità individuale, autocontrollo e libertà sostenibile.
Gli intellettuali più avveduti sottolineano l'inefficienza delle democrazie dei nostri giorni, l'insostenibilità di apparati costosi e incapaci di risolvere i problemi che ci assillano. Ma nelle grandi democrazie rappresentative i governanti cercano di adeguarsi all'orientamento presunto degli elettori che li giudicheranno. Cittadini attenti soltanto ai propri interessi a breve termine e/o prigionieri dell'utopia hanno così governi inadeguati.
Il dibattito pubblico ritorni sulla questione dell'educazione dei giovani, che devono essere preparati con grande realismo non solo a corrispondere alle esigenze del mercato del lavoro ma anche a fronteggiare i problemi di efficienza che ormai provocano il discredito delle istituzioni democratiche. Il pensiero di Tocqueville appare ancora una volta prezioso.



mercoledì 14 dicembre 2011

Annuario SIPRI 2011. I numeri della guerra e della pace.

E' disponibile in pdf una sintesi del SIPRI Yearbook 2011. L'edizione italiana è a cura di Stefano Ruzza. Lo Stockholm International Peace Research Institute, fondato nel 1966, è "un istituto internazionale indipendente impegnato in ricerche nel settore dei conflitti, degli armamenti, del loro controllo e del disarmo".
Dal documento emerge un quadro in preoccupante evoluzione. In evidenza " tre questioni che hanno segnato la sfera della sicurezza negli ultimi anni: l’intensificarsi dell’influenza di fattori non-statali; l’emergere di potenze globali e regionali; una crescente inefficienza, incertezza e debolezza delle istituzioni".
"La sicurezza del mondo sta diventando più dinamica, complessa e transnazionale per effetto del crescente flusso di informazioni, individui, capitali e beni". Sempre maggiore è l'importanza regionale e globale degli attori non-stato e quasi-stato, mentre l'ampiezza del ruolo delle nuove potenze pone il problema di una loro equilibrata integrazione in istituzioni internazionali come il Consiglio di sicurezza dell'ONU e il G20.
E' significativo che nel decennio 2001-10, 2007 escluso, ogni anno i conflitti per il governo siano stati più numerosi di quelli per il territorio. In tale decennio solo 2 conflitti su 29 sono stati interstatali.
Vengono sottolineati la fragilità del consenso su principi, scopi e metodi delle missioni di pace, la loro sovraestensione e l'indebolimento del sostegno politico.
La crisi economica non ha impedito l'aumento delle spese militari, tranne in Europa. Nel 2010 gli USA hanno raggiunto il 43% del totale. Protagoniste le nuove potenze Cina, India e Brasile con Russia, Sud Africa e Turchia, anche se mai l'incremento è stato maggiore di quello del PIL.
Da segnalare la spesa militare italiana stimata dal SIPRI: 37 miliardi di dollari, di poco inferiore ai 45,2 della Germania. Una somma ragguardevole, ma la cui effettiva portata può essere compresa soltanto precisando la parte destinata al personale. Del resto quando gli investimenti cadono al di sotto di un livello minimo lo strumento militare diventa inservibile ed il denaro speso è sperperato.
Dal 2006 al 2010 i trasferimenti internazionali degli armamenti convenzionali maggiori sono cresciuti del 24% rispetto al periodo 2001 - 2005. Stati Uniti e Russia sono i maggiori esportatori. India in testa tra gli importatori, seguita dalla Cina.
Infine le armi nucleari: più di 20.500, di cui più di 5.000 dispiegate e pronte all'uso. Certamente in possesso di tali armi otto paesi: USA, Russia, Francia, Regno Unito, Cina, India, Pakistan e Israele.




martedì 6 dicembre 2011

Italia. La democrazia inefficiente.

In una recente conferenza stampa il Presidente del Consiglio Mario Monti ha detto (2:00) che:

"Quando si parla di costi della politica si pensa al costo che i cittadini sopportano per gli apparati amministrativi... Ma non si pensa al vero costo della politica, come purtroppo è stata fatta per decenni in Italia: che chi governa prenda decisioni miranti più all'orizzonte breve delle prossime elezioni che all'orizzonte lungo dell'interesse del paese, dei nostri figli, dei nostri nipoti".

E, ancora, uno dei più lucidi intellettuali italiani, il professor Luca Ricolfi, nel suo La Repubblica delle tasse, con riferimento al referendum su acqua, servizi pubblici locali, nucleare e legittimo impedimento, ha scritto:

"Anzichè cercare di guidare l'opinione pubblica, facendola ragionare, i politici hanno definitivamente deciso di seguirla acriticamente, come un pastore che rincorre il suo gregge di pecore" (pag. 180).
"Ma in fondo non dobbiamo lamentarci troppo. Se i politici seguono il gregge, è perchè il gregge è gregge. Finchè ci lasceremo suggestionare dagli slogan, finchè saremo accecati dalle nostre simpatie e antipatie, la politica non smetterà di usarci" (pag. 182).

Sia pure con qualche tortuosità logica - i politici seguono il gregge e nel contempo lo usano (Ricolfi) - entrambi i due protagonisti del dibattito pubblico mettono il dito su una piaga. La ricerca del consenso elettorale può rendere inefficiente la democrazia.
Ma occorre essere chiari. Già Pericle, nell'Atene democratica del V secolo a. c., affermò che: "Benchè soltanto pochi siano in grado di dar vita a una politica, noi siamo tutti in grado di giudicarla". E' la democrazia rappresentativa: non tutti possono governare ma tutti possono giudicare (e quindi mandare a casa) chi ha governato. Comprensibilmente i politici si adeguano cercando di individuare l'orientamento degli elettori e di ottenere il loro consenso.
Allora che fare? Come attenuare gli effetti perversi della democrazia? L'educazione, in particolare dei giovani, appare la via maestra per una democrazia libera ed efficiente. L'idea che si possa separare l'informazione dall'educazione e che si debba evitare di adottare un preciso indirizzo educativo non appartiene realmente al pensiero liberale. Come ha sottolineato uno dei filosofi liberali più influenti del Novecento in una nota intervista televisiva (5:40) "il liberalismo classico ha sempre accordato una grande importanza all'educazione e un'importanza ancor più grande alla responsabilità".
Tutte le "agenzie" in senso lato educative, a partire dalla scuola, dovrebbero convergere sull'obiettivo di formare un cittadino idoneo alle sue funzioni pubbliche, informato dei lineamenti dello stato democratico contemporaneo e dei suoi problemi. La larga diffusione di una cultura democratica e liberale deve essere sempre accompagnata da una semplice ma efficace informazione sui presupposti e le condizioni di una democrazia sostenibile, nell'ambito di una educazione alla responsabilità, all'autocontrollo, all'accettazione della complessità.
E' illusorio perseguire il fine di una genuina cultura liberale di massa, soprattutto in una paese come il nostro, dove l'influenza del marxismo e di una interpretazione illiberale della tradizione cattolica è stata profonda? Forse. Ma deve guidarci la consapevolezza che una società non lontana da questo modello ideale è storicamente esistita. Karl Popper nella sua autobiografia intellettuale, La ricerca non ha fine, ha confessato:
"L'America mi piacque fin dal primo istante, forse perchè prima avevo qualche pregiudizio nei suoi confronti. Nel 1950 c'era un senso di libertà, di indipendenza personale, che non esisteva in Europa e che, pensavo, era ancor più forte che in Nuova Zelanda, il paese più libero che io conoscessi" (1978, pag. 132).
Si trattava di una libertà responsabile, fondata sulla tradizione e sull'autocontrollo. Una lezione da non dimenticare.



mercoledì 30 novembre 2011

I soldati USA lasciano l'Iraq.

Analisi Difesa è una rivista on-line che si occupa di difesa, sicurezza, forze armate. E' diretta da Gianandrea Gaiani. Nel numero di novembre un ampio rapporto sul ritiro delle truppe USA dall'Iraq, che dovrebbe essere completato entro il 2011.
Gli ultimi 39.000 mila militari americani lasceranno ai civili del Dipartimento di Stato la responsabilità dei programmi di sicurezza e addestramento intrapresi dagli Stati Uniti.
Alla tutela del personale e delle strutture dovranno provvedere almeno 5.000 contractors, civili addetti alla sicurezza.
Pur essendo il ritiro previsto da un accordo tra i due paesi stipulato nel 2008, il governo iracheno ha chiesto che 5.000 soldati restino in Iraq con compiti ufficialmente di addestramento. Ma non ha garantito alle truppe USA l'immunità per errori e reati compiuti nell'esercizio delle loro funzioni, considerata irrinunciabile dal governo americano.
L'amministrazione USA sta fornendo all'Iraq armi per la difesa da attacchi esterni, tra le quali blindati, carri armati Abrams e cacciabombardieri F-16. Però le forze irachene resteranno a lungo inidonee. Per tentare di porre rimedio a tale debolezza gli Stati Uniti schiereranno nuove forze in Kuwait e probabilmente accresceranno la presenza navale nel Golfo Persico.
I soldati americani lasciano l'Iraq. Tra un po' forse lasceranno anche l'Afghanistan. Ma i problemi in ambito internazionale che Obama ha trovato sono irrisolti e spesso aggravati. Gli Stati Uniti non hanno più le risorse materiali e morali sufficienti per esercitare globalmente un'influenza determinante. L'attuale amministrazione, svanite le illusioni e le suggestioni utilissime in campagna elettorale, naviga a vista non trovando partners adeguati neppure nei tradizionali alleati europei.
Il movimento Occupy Wall Street toglie spazio nei media al Tea Party, mentre Obama addebita agli europei i guai economici dell'Occidente. Sono preoccupanti sintomi del declino della grande e libera democrazia americana, che può uscire davvero dalla crisi soltanto affrontando efficacemente i problemi di competitività e ridando ampia vigenza ai valori tradizionali.








martedì 22 novembre 2011

Russia e Cina. Una relazione complicata.

Dai ricercatori del SIPRI un ampio e puntuale rapporto sullo stato delle relazioni tra Russia e Cina. Dopo lo scioglimento dell'Unione Sovietica i governi dei due grandi paesi hanno presto avviato una collaborazione fondata su alcuni interessi condivisi.
Sicurezza dei confini comuni, più efficace contrasto del fondamentalismo islamico, del terrorismo e della proliferazione di armi non convenzionali, affermazione del principio di non ingerenza nelle questioni interne degli altri stati, costruzione di un assetto internazionale multipolare hanno costituito gli obiettivi della cooperazione strategica intrapresa già nel 1996 da Jiang Zemin e Boris Yeltsin, anche se preponderante è subito apparsa la collaborazione in ambito militare.
Negli anni successivi la Cina è diventata la seconda economia mondiale e il primo o secondo importatore di petrolio, mentre occupa il secondo posto nel mondo anche per la spesa militare.
Dagli anni Novanta ad oggi la cooperazione in ambito politico militare e addestrativo è stata continua e fruttuosa. Si stima inoltre che nel periodo 1991 - 2010 più del 90% delle principali armi convenzionali importate in Cina sia stato fornito dalla Russia. Ma dopo il 2005 gli ordini da parte del governo cinese sono crollati. La Cina resta assai interessata alle tecnologie militari russe, ma con lo scopo prevalente di sviluppare la sua industria degli armamenti e di incrementare le proprie già imponenti esportazioni di armi. Le tecnologie militari e l'esportazione di armi sono oggi tra i più importanti punti di frizione nei rapporti fra i due paesi.
La Cina è il secondo - per alcuni il primo - importatore di petrolio. Mentre la Russia ne è forse il maggior produttore, raggiungendo il secondo posto per produzione di gas naturale. Ma le divergenze sui prezzi e la volontà di ridurre la dipendenza energetica hanno limitato le importazioni cinesi, negli ultimi anni mai superiori al 10% del totale.
Continua una pragmatica collaborazione suggerita dalla convenienza, ma sembrano mancare una comune visione del mondo e interessi strategici fondamentali condivisi. La Russia si considera un paese europeo ed i suoi gruppi dirigenti nutrono una profonda diffidenza per la Cina, vista come principale minaccia strategica. Entrambe le potenze sono interessate a sviluppare soprattutto le relazioni con gli Stati Uniti. La Russia per i cinesi diventa sempre meno importante.





sabato 12 novembre 2011

Poteri forti o Occidente debole?

Ormai da alcuni anni le due sponde dell'Atlantico sono unite da una comune grave crisi economica, che in questo momento colpisce in particolare le finanze pubbliche. Le lobbies finanziarie-bancarie spingono i governi ad intervenire, mentre i loro esponenti riescono spesso a ottenere cospicui guadagni. La gente vede tutto questo e addebita le difficoltà e i danni subiti proprio a tali lobbies, a operatori economici senza scrupoli, pretendendo dai governi misure drastiche contro gli speculatori.
Finanzieri e banchieri cercano di massimizzare i profitti, mentre le loro lobbies esercitano una incisiva influenza. Ma in realtà si tratta di condotte abituali nelle economie occidentali, anche in periodi di crescita e diffuso benessere. L'attenzione dovrebbe invece soprattutto fermarsi su alcuni dati capaci di indirizzare la ricerca in altre direzioni.
La Cina ha una pressione fiscale oltre venti punti più bassa di quella italiana, tedesca e francese (meno del 20% contro oltre il 40% del PIL). Ha un debito pubblico quasi certamente inferiore al 20% del PIL, mentre sono intorno al 90% Francia e Germania, a loro volta virtuose rispetto a Italia e Giappone, che presentano un debito pubblico ben maggiore del 100% del PIL.
Bassa pressione fiscale e debito pubblico contenuto sono ottenuti grazie ad un welfare cortissimo, che "copre" poco, costa poco, utilizza strumenti semiprivati, costringe individui e famiglie a risparmiare, studiare e lavorare duramente. Anche a ciò è connessa l'alta capacità di esportare. Tutto questo consente di accumulare ingenti riserve valutarie.
E' poi indispensabile confrontare mentalità, tradizioni, visione del mondo e della vita. Pur con qualche adattamento, sono largamente applicabili considerazioni svolte dal professor Luca Ricolfi a proposito degli immigrati in Italia (La Repubblica delle tasse, 2011, pagg. 45 e 46):

"E infatti i nuovi posti sono spesso di livello modesto, e finiscono per essere accettati soltanto dagli stranieri".
"La differenza è che "loro" vivono in un altro tempo, che noi abbiamo dimenticato. Un tempo in cui la cosa fondamentale era avere un lavoro, non importa quanto adeguato all'immagine che abbiamo di noi stessi, un tempo in cui fare sacrifici era normale, un tempo in cui il benessere non era considerato un diritto".


A tali fattori si devono aggiungere processi decisionali pubblici più rapidi, burocrazia in via di razionalizzazione, stipendi tuttora più bassi.
Considerazioni analoghe valgono per altri paesi asiatici e, in parte, per Russia e Brasile.
La finanza internazionale guarda l'Occidente in crisi e valuta realisticamente prospettive di crescita, sostenibilità del debito pubblico, struttura dello stato sociale, possibilità di sviluppo dei consumi interni, in una economia globalizzata, vendendo, acquistando, speculando di conseguenza.
Dunque cinici poteri forti o piuttosto Occidente debole, in declino? I nostri politici ed economisti non nascondano ai loro concittadini l'inevitabile risposta.


giovedì 10 novembre 2011

La Repubblica delle tasse.

E' in libreria dal mese scorso La Repubblica delle tasse, di Luca Ricolfi. Il professor Ricolfi è docente di analisi dei dati presso l'Università di Torino. Il libro costituisce una rielaborazione dei suoi ultimi scritti pubblicati sulla "Stampa" e su "Panorama".
I principali temi che infiammano il dibattito pubblico - sistema fiscale, fattori politici del declino italiano, federalismo, questioni meridionale e settentrionale, effetti della globalizzazione, prospettive del paese - sono discussi con ricchezza di argomenti. Particolare attenzione è prestata al problema della insufficiente crescita economica.
Ricolfi chiude il suo lavoro con queste parole:

"D'altronde la spudoratezza con cui le forze politiche eludono il problema della crescita ha la sua base nell'immaturità dei cittadini-contribuenti. L'unico tema che sembra davvero appassionare i cittadini è chi dovrà pagare di più: il Nord o il Sud, i pensionati o i lavoratori, i dipendenti o gli autonomi, i ricchi o i poveri, gli evasori o gli onesti. Mentre il punto centrale per il futuro di tutti noi è un altro: non tanto se le misure saranno giuste, ma se saranno efficaci. Ed è su questo, solo su questo, che - temo - ci giudicheranno i mercati".
Un taglio insolitamente franco in un paese come il nostro, dove gli intellettuali sono spesso al prevalente servizio di corporazioni e gruppi politici, da cui dipende la propria personale affermazione.
La Repubblica delle tasse è un' agile opera indispensabile per comprendere l'Italia contemporanea. Rappresenta una lettura utilissima anche per i nostri giovani, che possono trovare in essa un modello di approccio critico e di ricerca della verità.


Luca Ricolfi è direttore della rivista Polena, dove è possibile leggere numerosi suoi interessanti scritti.




giovedì 3 novembre 2011

Che fare?

Piero Ostellino in un coraggioso editoriale sul Corriere della Sera di oggi (pdf) denuncia l'immobilismo e le piccole furbizie della classe dirigente italiana:

"Le divisioni, sia nella maggioranza, sia fra le opposizioni, riflettono il rifiuto di ogni cambiamento, che le tocchi da vicino, delle corporazioni, socialmente, economicamente ed elettoralmente più forti. Sono riformiste solo quando si tratta di dissodare il terreno altrui. La politica ha abdicato alla propria funzione di indirizzo, e di guida, per assolvere il compito di remunerare, di volta in volta, questa o quella corporazione, sulla base di una cultura politica vecchia e disastrosa e in funzione del proprio consenso elettorale. Non è l'italiano qualunque ad avere scarsa credibilità all'estero; è l'establishment. A doversi chiedere se non abbia fatto il suo tempo — qualora non trovi un minimo di coesione su un «che fare» frutto di una più matura idea dell'Italia — è la classe dirigente".
La crescita economica in Europa e USA, secondo l'OCSE, resterà minima nel 2012. Il PIL dell' area euro aumenterà soltanto del 0,3 %.
Ciò è in larga misura inevitabile perchè è inevitabile ridurre tempestivamente il consumo a debito. Ma restano tutti i temi scottanti che la competizione internazionale ci costringe ad affrontare. Estensione ed obiettivi dello stato sociale, pensioni, lavoro, strumenti per limitare e ripianare il debito pubblico, concorrenza e libertà economica, efficienza della pubblica amministrazione, sistema fiscale, prerogative della magistratura ed amministrazione della giustizia, assetto delle istituzioni di rilievo costituzionale.
Un paese dove si raggiungono meschini accordi di facciata solo al prezzo della rinuncia a discutere sinceramente e costruttivamente del " che fare" merita il declino. Le crisi sono una straordinaria occasione per capire e cambiare. Ma occorrono adeguate risorse morali ed intellettuali. Il conflitto politico ideologico del secolo scorso e l'indebolimento di preziose tradizioni hanno determinato una drammatica perdita di tali risorse. Forse non siamo più pronti a infliggere sofferenze in nome dell'utopia e dell'ideologia ma non siamo nemmeno più capaci di costruire con lungimiranza.




martedì 25 ottobre 2011

Mezzogiorno. Un disastro senza alibi.

Il professor Luca Ricolfi in un articolo su Panorama del 19 ottobre 2011 denuncia con considerazioni assai incisive la gravità della situazione in cui versa gran parte del Mezzogiorno italiano, un "mondo che è incluso nell'Italia, ma in cui nulla è come nel resto del Paese".
I dati medi relativi all'evasione fiscale e contributiva, al tasso di occupazione, soprattutto giovanile e femminile, alla qualità e all'efficienza della spesa pubblica, all'istruzione, se confrontati con quelli del resto dell'Italia sono impressionanti.
Ma particolarmente lucide e significative appaiono le seguenti parole: "Né si pensi che l'abisso che separa le due metà del Paese sia limitato alle modalità di funzionamento dell'economia o delle grandi istituzioni pubbliche. Se proviamo a misurare il cosiddetto capitale sociale, ossia quanta fiducia, solidarietà, spirito civico, senso della comunità circola fra la gente, i risultati sono ancora più sconfortanti. Nel Mezzogiorno fa volontariato meno di una persona ogni 16, nel resto d'Italia una su 10, nel Nord quasi una su 8".
"Né il quadro cambia se dalle donazioni in denaro passiamo a quelle di sangue: nel Sud le donazioni sono 20 ogni 1.000 abitanti, nel Nord sono 41".
Il quadro che emerge induce a rigettare la retorica della "società civile" da contrapporre alle consorterie criminali, che non raramente vela il giudizio su situazioni francamente inaccettabili. L'inadempimento dei doveri più elementari si riscontra ad ogni livello della società, nell'ambito delle mansioni dirigenziali e di quelle meramente esecutive. Il degrado delle coscienze individuali pare largamente diffuso.
Il fallimento educativo delle istituzioni scolastiche è evidente. Ma anche la Chiesa deve interrogarsi sull'adeguatezza del proprio impegno formativo.
Papa Benedetto XVI nella sua enciclica Deus caritas est (28 a) ha scritto, indicando efficacemente uno dei compiti fondamentali della comunità cristiana:

"Così lo Stato si trova di fatto inevitabilmente di fronte all'interrogativo: come realizzare la giustizia qui ed ora? Ma questa domanda presuppone l'altra più radicale: che cosa è la giustizia? Questo è un problema che riguarda la ragione pratica; ma per poter operare rettamente, la ragione deve sempre di nuovo essere purificata, perché il suo accecamento etico, derivante dal prevalere dell'interesse e del potere che l'abbagliano, è un pericolo mai totalmente eliminabile.
In questo punto politica e fede si toccano. Senz'altro, la fede ha la sua specifica natura di incontro con il Dio vivente — un incontro che ci apre nuovi orizzonti molto al di là dell'ambito proprio della ragione. Ma al contempo essa è una forza purificatrice per la ragione stessa. Partendo dalla prospettiva di Dio, la libera dai suoi accecamenti e perciò l'aiuta ad essere meglio se stessa. La fede permette alla ragione di svolgere in modo migliore il suo compito e di vedere meglio ciò che le è proprio. È qui che si colloca la dottrina sociale cattolica: essa non vuole conferire alla Chiesa un potere sullo Stato. Neppure vuole imporre a coloro che non condividono la fede prospettive e modi di comportamento che appartengono a questa. Vuole semplicemente contribuire alla purificazione della ragione e recare il proprio aiuto per far sì che ciò che è giusto possa, qui ed ora, essere riconosciuto e poi anche realizzato".
"La Chiesa non può e non deve prendere nelle sue mani la battaglia politica per realizzare la società più giusta possibile. Non può e non deve mettersi al posto dello Stato. Ma non può e non deve neanche restare ai margini nella lotta per la giustizia. Deve inserirsi in essa per la via dell'argomentazione razionale e deve risvegliare le forze spirituali, senza le quali la giustizia, che sempre richiede anche rinunce, non può affermarsi e prosperare. La società giusta non può essere opera della Chiesa, ma deve essere realizzata dalla politica. Tuttavia l'adoperarsi per la giustizia lavorando per l'apertura dell'intelligenza e della volontà alle esigenze del bene la interessa profondamente".

Queste chiare direttive chiedono un maggiore impegno soprattutto nella ricostruzione delle coscienze individuali, necessaria premessa di ogni possibile soluzione dei problemi che mediamente affliggono il Sud italiano. Risultano lontani da questa impostazione molti dei temi e dei discorsi svolti nel recente raduno delle organizzazioni cattoliche a Todi. L'impegno cristiano che contribuisce a risolvere i problemi sociali e politici delle società democratiche è invece quello ben delineato da Tocqueville nella sua Democrazia in America ( (Libro Terzo, Parte Prima, Capitolo Quinto):
"... nei tempi di civiltà e di eguaglianza...le religioni devono mantenersi più discretamente nei loro limiti senza cercare di uscirne poiché volendo estendere il loro potere fuori del campo strettamente religioso, rischiano di non essere credute in alcun campo".
Proprio rispettando questi limiti, concentrandosi sull'evangelizzazione e sul rinnovamento delle coscienze individuali, la Chiesa riesce a contribuire nel modo migliore all'edificazione di una società libera e più giusta.




martedì 18 ottobre 2011

Indignati. Il futuro di un'illusione.

Sul tema degli scontri e delle devastazioni di Roma scrive il direttore della Stampa Mario Calabresi:

"In 950 città le manifestazioni sono state assolutamente pacifiche: colorate, rumorose ma ordinate.
In una soltanto si è scatenata una violenza spaventosa e senza freni: a Roma. Anche ieri abbiamo mostrato al mondo un’anomalia italiana".
"Perché l’Italia si ritrova ancora prigioniera della violenza e degli estremisti? Perché siamo sempre condannati a veder soffocare le spinte per il cambiamento tra i lacrimogeni?".
"Penso spesso al nostro destino beffardo: da questa parte dell’Oceano le proteste del ‘68 si sono trasformate nel terrorismo o negli scontri del ‘77, uccidendo non solo uomini ma anche idee e ideali. Dall’altra parte la violenza non ha vinto e il movimento che sognava di cambiare il mondo è riuscito a farlo inventandosi le energie alternative o la Silicon Valley: al posto dei leader dell’Autonomia l’America ha avuto Steve Jobs...".
"Da noi accade ancora perché non abbiamo mai preso (uso il plurale perché dovrebbe farlo la società tutta) le distanze in modo netto e definitivo dalle pratiche violente. Perché siamo i massimi cultori del «Ma» e del «Però», che servono a giustificare qualunque cosa in nome di qualcos’altro".
"Tutto questo da noi accade però anche per un altro motivo: perché la nostra malattia è la mancanza di un pensiero costruttivo. Se ripetiamo continuamente ai giovani che non c’è futuro ma solo declino e precarietà, se li intossichiamo di cinismo, scenari catastrofici e neghiamo spazio alla speranza, allora cancelliamo ogni occasione per una spinta al cambiamento".
"Una sola speranza ci resta ed è legata a quei giovani che non ascoltano, che si tappano le orecchie di fronte ai discorsi improntati al pessimismo e che nel loro cuore sognano e sperano".

Perchè questa anomala violenza in Italia?
Perchè "non abbiamo mai preso le distanze in modo netto e definitivo dalle pratiche violente" e perchè "la nostra malattia è la mancanza di un pensiero costruttivo", risponde Calabresi, rifiutando di spiegare le violenze romane con la congiuntura politica e indicando un percorso esplicativo storico e culturale. Pare davvero l'approccio più corretto e promettente.
Secondo Alberto Franceschini, uno dei fondatori delle Brigate Rosse, "le Brigate Rosse non sono nate dal nulla. Non sono un prodotto da laboratorio, magari di qualche Servizio segreto, ma il frutto di una cultura e di una tradizione politica della sinistra italiana. Quindi hanno radici nella storia di questo paese" (Giovanni FASANELLA - Alberto FRANCESCHINI, Che cosa sono le BR, 2004, pag. 4).
A differenza di quelle delle democrazie del Nord Europa, Francia compresa (De Gaulle), la Resistenza al nazifascismo italiana non è stata guidata da una forte componente nazionale e democratica ma da movimenti stalinisti finanziati e diretti dall'Unione Sovietica.
Questo peccato originale ha determinato struttura, metodi e cultura politica della sinistra italiana, fino allo scioglimento dell'Unione Sovietica stessa (1991).
In tutti questi decenni la nostra sinistra è stata egemonizzata dal più grande ed astuto partito comunista dell'Occidente, che ha a lungo partecipato alla vita democratica del paese accantonando la via insurrezionale alla conquista del potere a causa degli sfavorevoli rapporti di forza internazionali. Ancora il partito comunista di Enrico Berlinguer, soltanto una trentina di anni fa, accettava finanziamenti e direttive dai sovietici.
Queste sono le radici della doppiezza culturale e politica che ha a lungo caratterizzato la componente maggiore della sinistra italiana. Il mito fondante e legittimante, quello della Rivoluzione d'Ottobre, e l'influenza determinante del marxismo leninismo non sono mai venuti davvero meno. Da qui l'atteggiamento doppio, contraddittorio e reticente verso la violenza politica. E da qui, in larga misura, il rifiuto del riformismo e la mancanza di una cultura liberale.
Del resto anche il nucleo del patrimonio ideale fondamentale delle democrazie dell'Occidente è rappresentato da uguaglianza e libertà. Si tratta di idee suggestive che, se non concepite e diffuse in termini realistici e rispettosi della complessità dei problemi, possono produrre le cause della loro fine.
Uguaglianza e libertà possono costituire pericolose illusioni o la Stella Polare di un'attività politica quotidiana efficacemente rivolta a ridurre le sofferenze degli uomini. L'educazione dei giovani fa la differenza.





sabato 8 ottobre 2011

La Russia tra Oriente e Occidente.

In un recente articolo su La Stampa Enzo Bettiza delinea un condivisibile quadro della Russia di Putin.
Scrive Bettiza:

"Ma, al tempo stesso, non va dimenticato che l’enigmatico Putin definì il collasso dell’Unione Sovietica nel 1991 «la più grande catastrofe geopolitica del XX secolo». Quell’accento così drammatico sulla «catastrofe geopolitica» può aiutarci a comprendere, fino ad un certo punto, i suoi sforzi mirati a ricomporre oggi pezzo per pezzo, con la mezza finzione di un mercato o bazar comune, un’entità che almeno in parte possa evocare gli spazi «geopolitici» dell’impero perduto".

"Il controllo sulla stampa e sulle televisioni si è assolutizzato; il partito putiniano «Russia Unita» è divenuto di fatto un partito unico circondato e sostenuto da simulacri pseudodemocratici; contemporaneamente la popolarità del presidente reale, che fingeva di fare il primo ministro, è cresciuta a balzi esponenziali. Oggi il volto sorridente e rassicurante del presidente Medvedev ci appare simile alla faccia intensamente dipinta di una matrioska che al proprio interno conteneva da sempre, fin dall’inizio, dal 2008, la grinta gelida dello zar autentico di tutte le Russie.
Il gioco delle parti, lo scambio fisiologico delle consegne tra burattinaio e burattino, è affare concluso da tempo e da tempo accettato dalla maggioranza dei «consumatori» votanti. Al terzo mandato al Cremlino di Putin potrà seguire il quarto e la durata prolungarsi fino al 2024. Praticamente presidente a vita. Una simile longevità politica ricorda solo quella di Stalin. Così come il rimpianto, più o meno segreto, della grandezza di Stalin sembra riflettersi in chiave minore nell’«Urss leggera» che Putin sta pianificando e già realizzando da Minsk al cuore dell’Asia".

Tutto vero. Ma è sbagliato mettere sullo stesso piano Russia e Cina in quanto regimi autoritari, senza distinzioni. Le parti del Rapporto 2011 di Amnesty International relative appunto a Russia e Cina (pdf) lasciano intravvedere un controllo sociale e una lesione di diritti e dignità umani per estensione ed intensità chiaramente differenti.
La Cina dei campi di "rieducazione e lavoro" laogai, che ancora esercitano un significativo ruolo economico, dell'estesa brutale applicazione della pena di morte senza giusto processo, del capillare controllo di internet e delle reti sociali, delle dure limitazioni della libertà religiosa, dei figli unici per legge, della netta diversità di trattamento di città e campagna, pare regime dai tratti ancora fortemente totalitari.
La Russia di oggi è un grande paese composito e contraddittorio, in ogni senso sospeso tra Occidente e Oriente. I suoi dirigenti, come nel periodo prerivoluzionario, tentano di promuovere e controllare la modernizzazione guardando anche a modelli esterni. Le attuali insufficienti prestazioni economiche e le tensioni sociali dei paesi occidentali rendono non attraenti ai loro occhi standard di democrazia e libertà per noi irrinunciabili e non negoziabili.
Solo un Occidente forte, capace di coniugare di nuovo democrazia, libertà, competitività ed efficienza potrà ancora porsi come solido polo di attrazione per una Russia in bilico, dove l'influenza del nuovo autoritarismo asiatico sembra ogni giorno più incisiva.




venerdì 30 settembre 2011

Il Largo dal Serse. Cavalli, Bononcini, Handel.

Il Largo dal Serse di Handel (1738) in versione soltanto strumentale





è abbastanza noto anche fuori della cerchia degli appassionati di musica barocca. In realtà si tratta dell'aria iniziale dell'opera. Il protagonista, mentre guarda l'ombra di un platano, canta:

                              Frondi tenere e belle
                              del mio platano amato
                              per voi risplenda il fato.  
                             Tuoni, lampi, e procelle                                           
                              non v'oltraggino mai la cara pace,
                              nè giunga a profanarvi austro rapace.
                              Ombra mai fu
                              di vegetabile,
                              cara ed amabile,
                              soave più.





Il Serse di Handel è l'adattamento del Xerse del compositore modenese Giovanni Bononcini, scritto nel 1694 su libretto di Silvio Stampiglia. Mentre l'opera di Bononcini è la rielaborazione del Xerse di Francesco Cavalli, del 1654, su libretto di Nicolò Minato. Tra il lavoro di Cavalli e l'adattamento di Handel intercorrono dunque più di ottanta anni, un tempo maggiore di quello che ci separa dall'instaurazione del regime nazista in Germania.

Musicista a Venezia, Cavalli compose anche per la Corte di Francia.
Bononcini lavorò in Italia, Austria, Prussia, Inghilterra, Francia e Portogallo.
Fu in Inghilterra, con poche interruzioni, dal 1720 al 1733, dove divenne uno dei principali competitori dello stesso Handel. Questo il giudizio di James Ralph, contemporaneo dei due compositori:

"Handel sarebbe in grado di scaldarci col gelo e con la neve, suscitando ogni specie di sentimento con note appropriate all'argomento, Bononcini nei giorni più caldi dell'anno potrebbe soffiare su di noi una brezza italiana e farci addormentare cullandoci con gentili bisbiglii "
In un periodo, quello tra Seicento e Settecento, di conflitti e contraddizioni sono da segnalare anche rilevanti continuità, tradizioni, retaggi culturali. Il genio individuale, come sempre, si sviluppa tra e da questi, li valorizza ancora, li esalta, ha in essi la necessaria premessa. Avremmo il Serse di Handel senza il Xerse di Cavalli e Bononcini?

Su Handel e la musica barocca l'ottimo Haendel.it.



giovedì 22 settembre 2011

Tocqueville. La religione nei suoi propri limiti.





Papa Benedetto XVI è oggi nella sua patria, la Germania. E' lì per riportare al centro dell'attenzione Dio e la fede cristiana, temi offuscati dallo scandalo dei sacerdoti pedofili.
Religione cristiana e libertà. Il potente processo di secolarizzazione in atto allontana dai cuori e dalle menti una relazione che i grandi precursori del liberalismo contemporaneo indicarono con chiarezza e che le bandiere delle più antiche e solide democrazie europee manifestano esponendo la croce.
Durante la cerimonia di benvenuto nella residenza ufficiale del presidente della Repubblica Federale Tedesca il papa ha detto: "Come la religione ha bisogno della libertà, così anche la libertà ha bisogno della religione". Parole che Tocqueville avrebbe certamente sottoscritto.
Fu proprio il grande francese, infatti, nella Democrazia in America (Libro Terzo, Parte Prima, Capitolo Quinto) ad affermare: "Per parte mia non credo che l'uomo possa mai sopportare insieme una completa indipendenza religiosa e un'intera libertà politica e sono portato a pensare che, se egli non ha fede, bisogna che serva e, se è libero, che creda".
Ma nelle stesse pagine scrisse anche:

"Ho fatto vedere come nei tempi di civiltà e di eguaglianza lo spirito umano non accetti volentieri credenze dogmatiche e ne senta il bisogno solo in fatto di religione. Ciò indica anzitutto che in questi secoli le religioni devono mantenersi più discretamente nei loro limiti senza cercare di uscirne poiché volendo estendere il loro potere fuori del campo strettamente religioso, rischiano di non essere credute in alcun campo. Esse debbono, dunque, tracciare con cura il circolo in cui pretendono fermare lo spirito umano e lasciarlo interamente libero di sè fuori di esso".

Non si tratta certo di limitare all'ambito privato il fenomeno religioso. E' anzi necessario favorirne la dimensione pubblica. Il presidente degli Stati Uniti giura sulla Bibbia, secondo regole e tradizioni che tale dimensione pubblica accolgono. Si tratta piuttosto di distinguere le religioni secondo i loro contenuti. Prosegue Tocqueville:

"....nel Corano non solo dottrine religiose, ma anche massime politiche, leggi civili e criminali e teorie scientifiche. Il Vangelo, invece, parla solo dei rapporti generali degli uomini con Dio e fra loro. Al di fuori di questo non insegna nulla e non obbliga a credere nulla. Questo soltanto, fra mille altre ragioni, basta a mostrare che la prima di quelle due religioni non può dominare a lungo in tempi di civiltà e di democrazia, mentre la seconda è destinata a regnare anche in quei secoli come in tutti gli altri".

Al cristianesimo, per recuperare la sua storica relazione con la libertà civile, basta essere veramente se stesso, conservando e se necessario ripristinando il ruolo centrale di Fede, Rivelazione e Tradizione. Bisogna evitare di costringerlo nelle pastoie di un razionalismo astratto ed acritico, di introdurre a forza nel suo patrimonio dogmatico filosofie soltanto umane, di trarne dottrine sociali elaborate con le migliori intenzioni ma destinate a restare vitali solo nel nucleo che recepisce direttamente la morale rivelata.
In questo modo l'uomo contemporaneo è chiamato a rinunciare alla sua ragione critica? No! Proprio questa, demolendo gli "assoluti terrestri", apre spazi alla Fede e alla Rivelazione, rende ragionevole credere, delegittima la presunzione dell'uomo stesso di riuscire a cogliere il bene e il male con le sole proprie risorse, arrogandosi le prerogative di Dio.

"Ho la nettissima impressione che tutta la materia sia troppo profonda per l'intelletto umano. Un cane potrebbe speculare altrettanto bene sulla mente di Newton".
Questo uomo fallibile, che probabilmente non riuscirà nemmeno a conoscere l'intima struttura della natura, può sostituirsi a Dio? Può conquistare e conservare la propria libertà senza Dio?



mercoledì 14 settembre 2011

Welfare cinese.


La comparazione dei modelli di welfare rappresenta oggi uno strumento indispensabile. La struttura dello stato sociale è infatti uno dei principali fattori della competitività di un sistema paese.
Il professor Maurizio Ferrera è uno dei più autorevoli studiosi italiani della materia. In questo recente articolo sul Corriere della Sera ha scritto:

"I diritti sono una cosa seria, ma proprio per questo bisogna riconoscere che non sono tutti uguali. Alcuni (quelli civili e politici) tutelano libertà e facoltà dei cittadini e sulla loro certezza non si può transigere. I diritti sociali sono diversi: conferiscono spettanze, ossia titoli a partecipare alla spartizione del bilancio pubblico, che a sua volta dipende dal gettito fiscale e dal funzionamento dell'economia. Dato che al mondo non esistono pasti gratis, i diritti sociali non possono essere considerati come delle garanzie immodificabili nel tempo. Il loro contenuto deve essere programmaticamente commisurato alle dimensioni della torta di cui si dispone e all'andamento dell'economia e della demografia.
Purtroppo il welfare italiano è stato costruito ignorando questa elementare verità".

"Le manovre estive non hanno affrontato la sfida dei tagli strutturali alla spesa pubblica. Se si vuole agire sul serio, sul welfare va fatta al più presto un'operazione verità, che spieghi perché e come debbano essere cambiate le dissennate promesse del passato. Altrimenti di «acquisita» resterà solo la prospettiva di una bancarotta collettiva, senza più alcuna torta da spartire".

Ma dalla struttura del welfare non dipende soltanto la tenuta della finanza pubblica. In realtà essa determina in larga misura anche la capacità di un paese di crescere economicamente.
Ormai da anni la Cina in tutto il mondo acquista titoli dei debiti pubblici, acquisisce partecipazioni in grandi compagnie, accaparra materie prime, finanzia la realizzazione di infrastrutture. Ma come si procura le necessarie risorse finanziarie? Come trova i soldi? Certo non esportando petrolio o minerali, di cui è piuttosto uno dei maggiori paesi importatori.
Lo stesso professor Ferrera, in un articolo del 10 maggio 2004, ci presenta dati e considerazioni utili:

"Se è vero che il fiume dello sviluppo economico porterà il welfare state anche in Asia, non è detto però che si tratti di un welfare all'europea. Non è detto, in altre parole, che le economie asiatiche vedano in futuro esaurirsi il proprio vantaggio comparativo sotto questo profilo. Ciò che sta emergendo in Corea, Taiwan e Singapore è un sistema diverso dal nostro, molto più strettamente integrato con il mercato, tanto che la letteratura specialistica ha coniato il nuovo termine di «welfare state produttivistico». Tre sono gli ingredienti principali di questo modello: priorità all'istruzione e alla formazione; regolazione pubblica (ad esempio, obbligo di assicurazione medica o previdenziale), ma fornitura di prestazioni da parte di soggetti privati, tramite i canali del mercato; copertura gratuita solo per i più poveri. Anche la Cina sembra avviata in queste direzioni: in molti settori è stato ad esempio recentemente introdotto l'obbligo di copertura sanitaria, ma attraverso forme assicurative semi-private. La scelta di una via «produttivistica» al welfare ha in parte motivazioni ideologico-culturali: l' influenza dell' etica confuciana, la tradizione del paternalismo autoritario, oggi gli entusiasmi iperliberisti. In parte si tratta però di motivazioni prettamente economiche: a differenza dei Paesi europei, che hanno storicamente costruito il welfare all'interno di economie protette verso l' esterno, i Paesi asiatici devono incamminarsi verso la protezione sociale in un mondo di scambi e competizione globali. La crisi finanziaria del 1997 ha suonato un campanello d'allarme: le élite locali hanno capito che basta poco a mettere in discussione i risultati economici raggiunti. Sapremo solo nei prossimi anni (forse decenni) se la via produttivistica al welfare avrà successo. Nel frattempo non possiamo permetterci però di dormire sonni tranquilli. Il modello asiatico di sviluppo ci pone una sfida che non è solo «di prezzo», ma di sistema. La ricerca di nuove, virtuose combinazioni fra competitività economica e tutele sociali deve continuare - ed anzi intensificarsi - anche in Europa".

Nonostante le recenti riforme, destinate a rendere lo stato sociale cinese meno lontano dal modello europeo, si può affermare che fin dai tempi di Deng Xiaoping la turbo "economia socialista di mercato" cinese presuppone un welfare che "copre" poco, impiega strumenti semiprivati, privilegia la città rispetto alle campagne e quindi costa relativamente poco. Restano così adeguate risorse per la formazione dei giovani, le infrastrutture, il supporto alla crescita, le acquisizioni all'estero.
Con questi sistemi paese dobbiamo competere in un mondo "globalizzato". La ristrutturazione del welfare occidentale contemporaneo appare inevitabile.


lunedì 5 settembre 2011

Festivalfilosofia di Modena: la Natura. Ma una morale naturale è impossibile.


Il Festivalfilosofia di Modena, operazione culturale ormai tradizionale, vetrina prestigiosa per gli intellettuali di sinistra e le loro opere in libreria, si occupa questa volta della Natura, trattata da diversi punti di vista. Uno dei più importanti è quello del rapporto tra natura e morale. Perché la "vita secondo natura" è un tema, un programma, uno slogan che sempre affascina, suggestiona, inganna, prestandosi ad ogni sorta di strumentalizzazione.
Scrive il cattolico professor Dario Antiseri nel suo Cristiano perchè relativista, relativista perchè cristiano, 2003, pag. 62:

"...da proposizioni descrittive possono venir logicamente dedotte unicamente proposizioni descrittive: l'informazione non produce imperativi. E, dunque, non è logicamente possibile passare dall'essere al dover essere. Questa, in breve, è la legge di Hume, la grande divisione tra asserzioni indicative e asserzioni prescrittive, tra fatti e valori. Tale legge è una legge di morte per il diritto naturale e ci dice che i valori non si fondano sulla scienza: essi trovano fondamento sulle nostre scelte di coscienza".

Mentre il compianto biologo e paleontologo statunitense Stephen Jay Gould, in un scritto compreso anche nel suo I Have Landed, ha sottolineato che:

" La scienza però non può mai decidere la moralità della morale. Supponiamo di scoprire che un milione di anni fa, nelle savane africane, l'aggressività, la xenofobia, l'infanticidio selettivo e la sottomissione delle donne offrisse dei vantaggi darwiniani ai nostri progenitori cacciatori-raccoglitori. Una tal conclusione non sancirebbe – nel presente come nel passato – il valore morale di questi comportamenti, né di qualsiasi altro".

Amore e odio sono entrambi ben presenti in natura. E' l'uomo che decide ed è responsabile delle proprie decisioni.





mercoledì 31 agosto 2011

Democrazia e spesa pubblica: una relazione perversa.

Il professor Ernesto Galli della Loggia, in due recenti editoriali sul Corriere della Sera, ha lucidamente delineato le "democrazie della spesa" contemporanee.
Il 17 agosto 2011 ha scritto:

"Tutto ha inizio con il suffragio universale, cuore di quei regimi. Nei quali, come si sa, ogni tot anni chi è al potere deve per l’appunto cercare di avere un voto in più dei rivali, dimostrare che i propri risultati (ovviamente limitati) sono superiori alle promesse (potenzialmente illimitate) degli avversari. La questione decisiva è dunque ogni volta la seguente: come ottenere quel voto in più? Nel corso del tempo le risposte si sono andate riducendo in pratica ad una sola: spendendo, impiegando risorse per soddisfare le esigenze o comunque le richieste dei più vari gruppi sociali in modo da ottenerne così il favore elettorale. Ma spendere significa trovare i soldi per farlo, cioè tassare. Spendere con una mano e tassare con l’altra è divenuta così la regola generale dei regimi democratici".


" Il deterioramento qualitativo delle classi politiche, infatti, è innanzi tutto un prodotto inevitabile di quella «democrazia della spesa» vigente da tempo nei nostri Paesi, in forza della quale governare significa in pratica solo spendere, e poi ancora spendere, per cercare di soddisfare quanti più elettori possibile (e quindi tassare e indebitarsi: con relative catastrofi finanziarie). Quando le cose stanno così, per governare basta disporre di risorse adeguate, non importa reperite come, o prometterne. L'esercizio del potere si spoglia di qualunque necessità di conoscere, di capire, di progettare, e soprattutto di scegliere e di decidere. Non solo, ma il denaro diviene a tal punto intrinseco alla politica che esso finisce per apparirne il vero e ultimo scopo: a chi l'elargisce come a chi lo chiede o lo riceve. Con la conseguenza, tra l'altro, che dove il denaro è tutto, inevitabilmente la corruzione s'infila dappertutto. La «democrazia della spesa», insomma, è un meccanismo che, oltre a svilire progressivamente la sostanza e l'immagine della politica, contribuisce a selezionare le classi politiche al contrario, non premiando mai i migliori (per esempio quelli che pensano all'interesse generale)".

Analisi largamente condivisibili. Ma quale possibile rimedio? Come, dove intervenire per frenare la degenerazione e risalire la china? Si tratta davvero di un declino che le società aperte contemporanee non possono evitare?
La diffusa convinzione che il meccanismo perverso possa essere disattivato semplicemente colpendo i "politici", infedeli rappresentanti di una "società civile" incolpevole vittima, è gravemente fuorviante.
Si deve invece denunciare non solo il "tradimento" della grande maggioranza degli intellettuali, che ha abbandonato il servizio della verità, ma anche e soprattutto il fallimento della scuola italiana che non ha saputo formare cittadini/elettori responsabili.
Sono mancate l'informazione e l'educazione dei nostri giovani, nel contempo tenuti all'oscuro della realtà delle istituzioni democratiche, dei loro veri problemi, del concreto modo di operare degli stati contemporanei, e spinti a pretendere dai governanti il conseguimento di obiettivi irrealistici, ben lontani dalle nostre possibilità.
In un articolo sul Tempo del 15 luglio 2011, riguardo al problema del debito pubblico, Antonio Martino ha scritto:
" la percentuale di spesa pubblica sulla quale il governo ha, a legislazione invariata, potere d'intervento rappresenta una percentuale molto ridotta del totale. Le spese per interessi, per i dipendenti pubblici, per le "prestazioni sociali" (assai deludenti e niente affatto sociali) sono incomprimibili e rappresentano oltre i quattro quinti del totale. Ha senso tentare di ridurre il 100% agendo solo sul 20%? A me non sembra".
Considerazioni coraggiose nell'Italia di oggi, ma che in un paese serio qualsiasi adolescente di normale intelligenza riterrebbe ovvie, grazie all'educazione ricevuta sui banchi di scuola.


domenica 21 agosto 2011

Mont Pelerin Society.


La Mont Pelerin Society è un'associazione costituita nel 1947 tuttora operante con il fine di difendere e diffondere il liberalismo e la società aperta.
Ideata da Friedrich August von Hayek, premio Nobel per l'economia, ebbe tra i suoi membri Karl Popper, Milton Friedman, Ludwig von Mises, Michael Polanyi, Ludwig Erhard, successore di Konrad Adenauer, e Luigi Einaudi, secondo presidente della Repubblica italiana.
Hayek racconta la sua nascita con queste parole ( in F. A. HAYEK, Hayek su Hayek, 1996, pagg. 183 e 184):

"Il dott. Hunold, comunque, ottenne il consenso... per utilizzare i soldi, che erano già stati raccolti in Svizzera, per finanziare il convegno che avevo proposto io. Così, quando riuscii ad ottenere un po' di soldi in più da un ammiratore americano del mio La via della schiavitù, potemmo finalmente organizzare quel convegno, nella primavera del 1947. Fu lasciato a me il compito di stilare sia la lista degli invitati sia il programma del convegno, mentre tutto il lavoro organizzativo fu affidato al dott. Hunold. Il convegno, della durata di dieci giorni, che tenemmo a Mont Pèlerin su Vevey sul lago di Ginevra, riunì 36 studiosi e pubblicisti americani, inglesi e provenienti da vari Paesi dell'Europa continentale. Il convegno ebbe un tale successo che decidemmo di trasformarlo in una associazione permanente che prese il nome dal posto in cui ci incontrammo per la prima volta".

Una delle prime personalità contattate e consultate da Hayek fu il suo amico Karl Popper che rispose con una lettera datata 11 gennaio 1947 (in KARL POPPER, Dopo la Società Aperta, 2009, pagg. 203 e 204) :

"Caro professor Hayek,

al mio ritorno dalla Svizzera ho trovato la Sua lettera del 28 dicembre. Posso ringraziarLa di questo e dirLe che ritengo davvero un grandissimo onore essere incluso da Lei in un elenco che contiene nomi così eminenti?
Penso che l'idea di un'accademia internazionale di filosofia politica sia eccellente; ma sono seriamente preoccupato per una difficoltà.
Ritengo che, per una simile accademia, sarebbe utile, e addirittura necessario, assicurare fin dall'inizio la partecipazione di persone note per essere socialiste o vicine al socialismo".

Popper, rivolgendosi a Hayek, espone diversi motivi di questa opinione, in particolare il seguente:


"La mia posizione personale, come ricorderà, è sempre stata quella di tentare una riconciliazione tra liberali e socialisti; e Lei ha condiviso questa tendenza. Questo non significa, ovviamente, che si debba eliminare o diminuire l'enfasi sui pericoli del socialismo (i pericoli per la libertà). Al contrario. Ma significa che si dovrebbe evitare tutto ciò che possa allargare il fossato fra coloro che amano realmente la libertà e che potrebbero ancora essere conquistati per una cooperazione".

La posizione di Popper manifesta una lucida comprensione del contesto storico politico. Egli, molti anni dopo, nel 1992, così si espresse ( in KARL POPPER, op. cit., pag. 534):

"Benchè" (Hayek) "fosse un grande studioso e un distinto signore, piuttosto riservato nel suo modo di vivere, di pensare e d'insegnare, e benchè avversasse l'azione politica, fondò, poco dopo la Seconda Guerra Mondiale, la Mont Pelerin Society. La sua funzione era quella di fornire un contraltare agli innumerevoli intellettuali che optarono per il socialismo. Hayek riteneva che si dovesse fare di più che scrivere saggi e libri. Così fondò una società di studiosi e di economisti pratici che si opponevano alla tendenza socialista allora di moda della maggior parte degli intellettuali che credevano in un futuro socialista. La società fu fondata in Svizzera nel 1947 sul Monte Pèlerin, sulla sponda meridionale del lago di Ginevra. Io ebbi l'onore di essere invitato da Hayek ad essere uno dei membri fondatori".

"Questa società esiste ancora, e per molti anni ha esercitato una notevole influenza nell'ambito della schiera degli intellettuali, in particolare tra gli economisti. Ritengo che il suo primo e forse maggiore risultato sia stato quello di incoraggiare quanti stavano lottando contro l'allora enorme autorità di John Maynard Keynes e della sua scuola".


sabato 13 agosto 2011

Le amministrazioni locali banco di prova per un welfare sostenibile.

I nuovi tagli dei trasferimenti agli enti locali, imposti dalla grave situazione economica, costringeranno molte amministrazioni locali a rinnovare metodi e strutture del welfare. Secondo quali linee guida?
Una preziosa indicazione si può trarre da un recente articolo di Antonio Martino, che scrive:

"Le amministrazioni pubbliche - governo centrale, amministrazioni locali, enti previdenziali, autorità autonome e quant'altro - sono in realtà un sistema di trasferimenti: si finanziano prelevando quattrini dalle tasche di alcuni italiani per trasferirli in quelle di altri italiani. Le dimensioni di questi trasferimenti sono aumentate enormemente nel corso del tempo: se posso ripetermi, nel 1900 rappresentavano il 10% del prodotto interno lordo, negli anni Cinquanta a circa il 30%, oggi superano il 51%. Cosa giustifica questa spaventosa crescita? Certamente non la lotta alla povertà: eravamo più poveri nel 1900 che non negli anni Cinquanta e più poveri nei Cinquanta che non adesso. Del resto, chi crede che le spese delle amministrazioni pubbliche abbiano davvero lo scopo di alleviare il disagio dei nostri concittadini meno fortunati? Se il 51% del reddito nazionale andasse al 20% più povero della popolazione, lo renderebbe immediatamente agiato. Le cose sono assai meno semplici, bisogna considerare altri elementi.

Primo: quanto la collettività riceve ammonta a molto meno di quanto la collettività deve versare all'apparato di trasferimenti pubblico, per via dei costi di trasferimento (burocrazia, politica, corruzione, eccetera). Secondo: chi paga non necessariamente appartiene alle fasce di reddito più alte, chi riceve non necessariamente a quelle più basse. Il finanziamento dell'università, della sanità, e degli enti locali molto spesso proviene dalle tasche di contribuenti a reddito medio-basso o basso, e va in quelle di persone non indigenti, e la redistribuzione diventa regressiva".

"L'indennità parlamentare mi colloca nell'uno per cento più ricco dei contribuenti (ineffabile efficienza del nostro sistema tributario!) eppure ricevo "gratis" i servizi e le medicine fornite dal sistema sanitario nazionale: tassiamo il 99% meno abbiente per dare all'uno per cento più ricco!"

Martino, con la sua abituale coraggiosa lucidità, mette in rilievo uno dei principali fattori di insostenibilità della spesa pubblica italiana: tendenzialmente si vuole dare tutto a tutti. La protezione pubblica, spesso inefficiente, copre anche chi non ne ha davvero bisogno e può da solo meglio provvedere alle proprie necessità, conservando parte del reddito che oggi trasferisce alla finanza pubblica.

Occorre dunque che la mano pubblica tuteli, in modo efficiente, chi non riesce a far da sè. Nulla di meno, nulla di più. Si tratta di collegare le prestazioni al reddito, riducendo l'ampiezza degli interventi della pubblica amministrazione e quindi la sua dimensione e l'entità della spesa pubblica.
L'ostacolo principale che trova questa auspicata rivoluzione del welfare italiano è rappresentato dalla tradizionale incapacità di far emergere i redditi reali, a cui si accompagna un'imponente evasione fiscale. Gli enti locali sono i più vicini al cittadino. Sono perciò in grado di contribuire in modo decisivo anche all'accertamento della sua situazione reddituale. Siano i primi a sperimentare un nuovo modo di costruire assistenza e sanità pubbliche, imperniato sul collegamento tra prestazione e reddito.


lunedì 8 agosto 2011

Il Settecento negli scritti autobiografici di Rousseau e Franklin.




Gli scritti autobiografici delle personalità eminenti rappresentano una via di approccio diretta e privilegiata alla storia. Per il Diciottesimo secolo sono da segnalare per importanza, tra i tanti rilevanti, Le Confessioni di Jean-Jacques Rousseau e l'Autobiografia di Benjamin Franklin.

Nelle Confessioni Rousseau presenta la propria vita non risparmiando dettagli intimi a volte sorprendenti, citando persino episodi di esibizionismo. Sullo sfondo la società e la cultura settecentesche. I melomani troveranno il suo giudizio sulle doti musicali delle ragazze degli orfanotrofi veneziani per cui prestò la propria opera anche Antonio Vivaldi.

L'Autobiografia di Franklin, sia pure incompleta, disegna con efficacia la sua figura poliedrica. Autodidatta, in gioventù tipografo, fu tra i padri fondatori degli Stati Uniti d'America. Incarnò perfettamente l'illuminismo prudente, pragmatico, deista e massone diffuso nei paesi di lingua inglese. Ancora in vita divenne un vero e proprio mito. Rappresenta un modello di successo personale tuttora influente.

L'opera di Rousseau si trova ancora in libreria.
L'ultima edizione italiana dell'Autobiografia di Franklin risale alla fine degli anni Novanta. In inglese si può leggere in rete qui.


domenica 31 luglio 2011

Debito pubblico. Articolo 81: la costituzione tradita.


"Le Camere approvano ogni anno i bilanci e il rendiconto consuntivo presentati dal Governo.

L'esercizio provvisorio del bilancio non può essere concesso se non per legge e per periodi non superiori complessivamente a quattro mesi.

Con la legge di approvazione del bilancio non si possono stabilire nuovi tributi e nuove spese.

Ogni altra legge che importi nuove o maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte".

Dunque, secondo la costituzione italiana vigente, ogni legge che importi nuove o maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte.
Quale è la ratio della disposizione? Cosa vuol dire "indicare i mezzi per farvi fronte"?
La dottrina costituzionalista circoscrive il ruolo dei lavori preparatori ma, in questo caso, i lavori dell'Assemblea Costituente, con gli interventi di Einaudi, Mortati e Vanoni, indirizzano l'interpretazione in modo univoco. Lo scopo della norma è quello di limitare la produzione di leggi che importano nuova o maggiore spesa pubblica, soprattutto di iniziativa parlamentare.
Se questa è la precisa ratio della parte dell'art. 81 qui discussa, diventa inevitabile adottare un'interpretazione rigorosa dell'espressione "indicare i mezzi per farvi fronte".
Essi devono essere costituiti da proventi tributari o da entrate extratributarie quali il corrispettivo della cessione di beni pubblici o utili distribuiti da imprese in mano pubblica.
E' invece vietato il ricorso a prestiti o all'emissione di titoli di debito pubblico, in particolare a medio/lungo termine, da collocare sui mercati finanziari.
Talmente vasta è stata la disapplicazione di questa parte della costituzione che, deficit dopo deficit, lo stock del debito pubblico italiano è diventato imponente. Il servizio di questo debito risulta così costoso, soprattutto in presenza di alti tassi di interesse, da condizionare negativamente e pesantemente non solo l'economia del nostro paese ma anche la vita stessa delle sue istituzioni democratiche.
Si può legittimamente parlare di un vero e proprio tradimento della costituzione, che risale agli anni Sessanta del secolo scorso.
Oggi i diretti eredi delle forze politiche che, come si ricava da questo studio della Banca d'Italia, più hanno contribuito a devastare la finanza pubblica italiana sono spesso i più impegnati a denunciare attuali vere o presunte violazioni della costituzione stessa. Ma le responsabilità di chi ha posto le premesse delle attuali difficoltà finanziarie sono ormai chiare.



domenica 24 luglio 2011

Crisi economica. I tagli e la crescita.

Su La Stampa di ieri il professor Mario Deaglio esamina ampiamente la crisi economica internazionale, imperniando il discorso sulle alternative tagli/stimoli e stagnazione/crescita.
Scrive Deaglio:

"Il sofferto accordo sul debito greco, raggiunto giovedì sera a Bruxelles dopo una trattativa difficile ed estenuante, è ricchissimo di codicilli e molto povero di idee, un accordo senza vincitori, dal quale tutti escono un po’ sconfitti".
"I mercati internazionali rimangono scettici e l’opinione pubblica nervosa.
L’accordo avviene all’insegna di una ampia politica di tagli, che si tradurranno in un freno aggiuntivo all’economia, proprio mentre l’Europa ha bisogno di stimoli alla crescita."

Poi, trattando la situazione statunitense, il professore bacchetta duramente "la maggioranza repubblicana della Camera dei Rappresentanti che si rifiuta di innalzare il tetto del debito pubblico (che negli Stati Uniti è stabilito per legge) senza ottenere in cambio imponenti tagli alla spesa pubblica".
Mentre in realtà i repubblicani intendono così denunciare "l’evidente fallimento della politica di stimolo monetario che fino a fine giugno per nove mesi ha "iniettato" nell’economia 2,5 miliardi di dollari al giorno. Con il solo risultato di far salire il prezzo delle materie prime, mentre la disoccupazione torna ad aumentare".

Restano fuori dall'analisi dell'economista torinese alcune questioni rilevantissime. Le economie occidentali, gravate di imponenti debiti pubblici, possono permettersi di non contenere con fermezza la spesa pubblica?
Ma soprattutto lo strumento fiscale e gli investimenti pubblici rappresentano davvero l'arma vincente per superare la crisi e conferire una nuova solida vitalità alle economie occidentali?
Rimane insomma senza una valida risposta la seguente domanda fondamentale. In un contesto "globalizzato" spesso gli operatori economici preferiscono realizzare stabilimenti industriali o centri di elaborazione dati e ormai anche di ricerca e sviluppo in Cina, India, Brasile ecc. ecc. Come rendere di nuovo conveniente investire negli USA o in Europa occidentale, "localizzando" nei loro territori, creando realmente nuova ricchezza, senza esaurire quella prodotta in passato?
I lettori aspettano da Deaglio e dai suoi colleghi parole chiare e coraggiose, analisi economiche, non espressioni riconducibili a preferenze politiche personali.



giovedì 14 luglio 2011

Tocqueville: religione e libertà.







Tocqueville, l'autore della Democrazia in America e dell'Antico regime e la Rivoluzione, fu per lunghi tratti della sua vita sostanzialmente agnostico, ma scrisse le sue grandi opere sempre da cristiano. Leggiamo in una lettera a Gobineau del 2 ottobre 1843:

"Io non sono credente (e non lo dico certo per vantarmi), ma per quanto non credente, non ho mai potuto impedirmi un'emozione profonda alla lettura del Vangelo. Numerose tra le dottrine che vi sono contenute m'hanno sempre colpito come assolutamente nuove, e soprattutto l'insieme forma qualcosa di interamente diverso dal corpo di idee filosofiche e di leggi morali che prima aveva retto le società umane. Non concepisco come, leggendo questo libro ammirabile, la vostra anima non abbia provato come la mia quella sorta di aspirazione alla libertà che solo un'atmosfera più vasta e più pura può generare".

"Il cristianesimo ci è arrivato attraverso secoli di profonda ignoranza, grossolanità, disuguaglianza sociale e oppressione politica: è stato un'arma nelle mani dei re e dei preti. Sarebbe equo giudicarlo per se stesso e non per l'ambiente attraverso il quale è stato costretto a passare. Quasi tutti gli abusi che voi gli rimproverate, spesso con ragione, devono essere attribuiti a queste cause secondarie".

Come scrive Umberto Coldagelli (Vita di Tocqueville, 2005, pagg. 202 e 203):

"La conclusione era chiara: il gran merito dei Lumi, la loro vera "novità" consisteva nella riscoperta dei valori originali del cristianesimo occultati dalla storia, nel recupero del suo messaggio universale.
Naturalmente i Lumi cui si riferiva Tocqueville non erano gli stessi che Gobineau aveva incautamente esaltato nella sua lettera, cioè quelli che si riassumevano nello spirito voltairiano che ancora permeava la cultura borghese del tempo, per il quale lo sviluppo della libertà era concepibile soltanto nella dimensione d'una sempre più accentuata secolarizzazione del mondo. Voltaire è sempre stato per Tocqueville il non amato contraltare di quei grandi spiriti, come Pascal, Montesquieu e Rousseau, con i quali, secondo una celebre lettera che conosciamo, viveva un poco ogni giorno".

Ma è nella Democrazia in America che Tocqueville delinea compiutamente la portata storico-civile, sociale e culturale del cristianesimo, mettendo in evidenza il suo stretto rapporto con la libertà. Si legga, in particolare, nel Libro Terzo, Parte Prima, Capitolo Quinto:

"Non vi è quasi azione umana, per quanto particolare, che non nasca da un'idea generale che gli uomini hanno concepito di Dio, dei suoi rapporti con l'umanità, della natura dell'anima e dei doveri verso i loro simili".
"Gli uomini hanno, dunque, un immenso interesse a farsi idee ben salde su Dio, l'anima e i doveri generali verso il Creatore e verso i loro simili, poiché il dubbio su questi primi punti abbandonerebbe tutte le loro azioni al caso e li condannerebbe, in un certo senso, al disordine e all'impotenza.
Questa è, dunque, la materia su cui è necessario che ognuno abbia idee ferme, e disgraziatamente è anche quella in cui è più difficile fermare le proprie idee con il solo sforzo della ragione".

"Le idee generali relative a Dio e alla natura umana sono, quindi, fra tutte le idee quelle che è più conveniente sottrarre all'azione abituale della ragione individuale, la quale ha a questo riguardo più da guadagnare che da perdere nel riconoscere un' autorità".

"Per parte mia non credo che l'uomo possa mai sopportare insieme una completa indipendenza religiosa e un'intera libertà politica e sono portato a pensare che, se egli non ha fede, bisogna che serva e, se è libero, che creda".

Tocqueville in realtà si riferisce precisamente alla religione cristiana:

"....nel Corano non solo dottrine religiose, ma anche massime politiche, leggi civili e criminali e teorie scientifiche. Il Vangelo, invece, parla solo dei rapporti generali degli uomini con Dio e fra loro. Al di fuori di questo non insegna nulla e non obbliga a credere nulla. Questo soltanto, fra mille altre ragioni, basta a mostrare che la prima di quelle due religioni non può dominare a lungo in tempi di civiltà e di democrazia, mentre la seconda è destinata a regnare anche in quei secoli come in tutti gli altri".

Karl Popper ha premesso alla Addenda alla Società aperta e i suoi nemici queste parole:

"La più grande malattia filosofica del nostro tempo è costituita dal relativismo intellettuale e dal relativismo morale, il secondo dei quali trova, almeno in parte, nel primo il proprio fondamento".
L' avversione del grande filosofo austriaco anche per il relativismo morale nasce con ogni probabilità dalla preoccupazione per il destino della Società aperta, che sopravvive solo quando i principi di libertà e tolleranza sono fuori discussione, sentiti come assoluti ed assolutamente difesi.
Ma la profonda aspirazione popperiana all'oggettività anche in ambito morale trova nella cosiddetta legge di Hume, nel dualismo fatti/norme, che lo stesso Popper accetta, un ostacolo invalicabile.
La soluzione insuperata del problema resta quella di Tocqueville: se l'uomo "non ha fede, bisogna che serva e, se è libero, che creda".

Qui, in inglese, La Democrazia in America

- Volume I

- Volume II






giovedì 7 luglio 2011

Primarie.





Ha scritto Karl Popper in Congetture e confutazioni (ristampa 2000, pag. 595):

"La differenza fra una democrazia e una tirannide è che nella prima il governo può essere eliminato senza spargimento di sangue, nella seconda no". Dobbiamo proprio al grande filosofo austriaco il concetto di democrazia come strumento non per scegliere i migliori governanti ma per far cadere cattivi governi senza ricorrere alla violenza. Il voto popolare elimina un'ipotesi di governo che si è rivelata sbagliata. Analogamente le primarie non premiano sempre il migliore dei candidati, il più capace degli amministratori, il politico più intelligente, bensì consentono a militanti e simpatizzanti di scegliere la figura più idonea ad entusiasmare e a mobilitare, conferendole una legittimazione diretta sempre più richiesta ed apprezzata dagli elettori. 
Se questi sembrano gli scopi principali delle elezioni primarie, la regolamentazione va attentamente formulata per favorirne il conseguimento. Pare quindi controproducente stabilire criteri per l'ammissione delle candidature tanto rigidi da ostacolare un proficuo contatto e scambio tra politica e società civile, mentre molto attenti e severi dovrebbero essere i controlli sui votanti. Le regole devono per quanto possibile impedire ogni improprio tentativo di condizionare la vita dei partiti e dei movimenti. Utilissimo sarà riflettere sulle istituzioni e sulle tradizioni statunitensi. Una democrazia, quella americana, imperfetta come tutte le opere dell'uomo, ma sempre capace di salvaguardare una società libera ed aperta.


domenica 26 giugno 2011

Il diritto di visita negli accordi internazionali per l'abolizione della schiavitù. Dal Congresso di Vienna (1815) al Trattato di Londra del 1841.

E' secolare la storia degli accordi internazionali che prevedono l'uso della forza militare per fini umanitari. Già il Congresso di Vienna nel 1815 condannò la schiavitù e la tratta degli schiavi in quanto contrarie al diritto delle genti e alla moralità internazionale.
Assume spesso i toni della polemica la discussione sulla matrice ideale dell'abolizionismo. Pare prevalente l'influenza del Cristianesimo. Pur presentando anche tratti contraddittori, il Magistero della Chiesa cattolica e la religiosità cristiana protestante prepararono largamente la strada all'abolizione della schiavitù. Più incerto sembra il contributo degli illuministi e dei precursori dell'Illuminismo: Locke e Voltaire non erano abolizionisti e investirono nel commercio degli schiavi.
Il programma abolizionista adottato a Vienna fu parzialmente attuato con accordi tra le grandi potenze. Quello del 1831 già attribuiva alle parti contraenti, Gran Bretagna e Francia, reciprocamente, il cosiddetto diritto di visita. La marina militare di ciascuna delle due potenze in base al trattato poteva "visitare" la navi dell'altra per controllare che non trasportassero schiavi.
Il Trattato di Londra del 1841, stipulato anche da Austria, Prussia e Russia, estese e precisò l'utilizzo di questo strumento. Forti resistenze in Francia spinsero però Guizot a differirne la ratifica. Prevalsero sentimenti nazionalisti ma non mancarono rilievi sostenuti da argomentazioni degne di particolare attenzione.
Tocqueville, eletto alla Camera nel 1839, abolizionista convinto, componente della commissione parlamentare chiamata a pronunciarsi sul tema, dimostrò che il diritto di visita aumentava spesso le crudeltà subite dai prigionieri, gettati in mare per sfuggire alla sorveglianza. Propose in alternativa un'azione delle potenze europee diretta ad eliminare i mercati degli schiavi.
Proprio nel 1839 è ambientato il bel film di Spielberg Amistad, con Anthony Hopkins.



Un modo efficace e suggestivo per presentare ai nostri giovani un problema che mobilitò coscienze e scatenò conflitti.


venerdì 17 giugno 2011

Giustizia lenta.


"ROMA - La giunta distrettuale di Roma dell'Associazione nazionale magistrati lancia l'allarme: il tribunale di Roma rischia la paralisi. "La profonda crisi di risorse umane e materiali attuale sta conducendo il tribunale di Roma al rischio paralisi"
"Per l'Anm la conclusione è una sola: "Mentre si favoleggia di una informatizzazione degli uffici già in gran parte avvenuta (e che gli operatori della Giustizia sanno essere invece, tuttora, nel libro dei sogni), o si discute della riforma costituzionale della giurisdizione, l'unica riforma epocale già in atto è quella di una riduzione progressiva della giurisdizione quotidianamente resa, della chiusura di uffici e servizi per assenza di personale e di risorse materiali".

La giustizia italiana è in profonda crisi ormai da tanti anni. Ma quali sono cause e responsabilità? Sempre sul Corriere Della Sera i professori Alberto Alesina e Francesco Giavazzi scrivono:

"La giustizia civile in Italia non solo è lenta: i suoi tempi si stanno ancor più allungando. Negli anni Ottanta una procedura fallimentare durava, in media, poco più di 4 anni, ora ne dura più di 9 (dati Istat). E così le aziende trovano sempre maggiori ostacoli alla crescita. Che fare? Scartiamo subito la risposta ovvia e sbagliata: che si dovrebbe spendere di più per la giustizia. La Commissione europea sull'efficienza della giustizia (un organo del Consiglio d'Europa) calcola che lo Stato italiano spende per la giustizia 70 euro per abitante (dati relativi al 2008). La spesa in Francia è 58 euro per abitante. E non perché la Francia abbia molti meno giudici e cancellieri. I numeri sono simili: i giudici sono 9 per 100mila abitanti in Francia e 10 in Italia; i dipendenti dei tribunali con qualifica diversa da giudice sono 4 per ciascun giudice in Italia, 3 in Francia. Ciononostante la lunghezza media di un procedimento civile è la metà in Francia che in Italia. I giudici italiani sono anche pagati un po' meglio: lo stipendio base è superiore del 20% circa al corrispondente stipendio francese".

Da considerare anche il dato seguente, citato dallo stesso ministro Alfano:

"La sola immissione di risorse economiche non risolve alcun profilo di inefficienza'', spiega il Guardasigilli, citando il caso del settore dell'informatica giudiziaria, dove, dal 1996 al 2007, sono stati spesi complessivamente ''piu' di 2 miliardi di euro'', anche se ''nello stesso periodo l'arretrato sia nel settore civile che nel settore penale e' aumentato inesorabilmente".


"La situazione di partenza degli uffici giudiziari italiani non era certo delle migliori: un "bricolage informatico", come lo ha descritto il Guardasigilli, dove ognuno organizzava da sé il proprio programma di informatizzazione o, per dirla con le parole del ministro Brunetta, un apparato "balcanizzato", dove ogni ufficio aveva il suo sistema e conseguentemente il suo contratto di assistenza, con costi molto variabili. E la giungla dei costi, si sa, crea inevitabilmente sprechi di risorse. "Interrompere la balcanizzazione e creare un contratto di servizio unico per l'assistenza informatica consentirà, come è già avvenuto per le intercettazioni, di razionalizzare i costi e di diminuirli".

Ricordiamo poi le importanti disposizioni del D. Lgs. 25 luglio 2006, n. 240 che attribuiscono ai magistrati capi degli uffici giudiziari funzioni di indirizzo anche in materia amministrativa, pur nel rispetto dei compiti dei dirigenti amministrativi:

Art. 2 Gestione delle risorse umane:

"1. Il dirigente amministrativo preposto all'ufficio giudiziario e' responsabile della gestione del personale amministrativo, da attuare in coerenza con gli indirizzi del magistrato capo dell'ufficio e con il programma annuale delle attività di cui all'articolo 4".


Esaminiamo infine con attenzione questi dati sulla durata dei processi. Relativi alla sola materia civile, mostrano una variabilità da distretto a distretto riscontrabile anche nel settore penale, in parte non spiegabile guardando alle sole caratteristiche degli illeciti più diffusi nel territorio.

Da queste premesse non pare possibile trarre conclusioni univoche. La situazione, anche sotto il profilo delle responsabilità, appare difficile da districare. Si tratta del resto di un ambito dove la battaglia politico-culturale senza esclusione di colpi in atto nel nostro paese produce danni gravissimi. Ed a pagare sono soprattutto i più deboli.




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