Galeazzo Ciano è stato genero e ministro degli Esteri di Mussolini. Il suo diario è ovviamente una fonte preziosa. L'8 agosto 1938 Ciano ha scritto: "Il Duce è molto montato sulla questione della razza e contro l'Azione Cattolica...E' violento contro il Papa. Dice: "...Basterebbe un mio cenno per scatenare tutto l'anticlericalismo di questo popolo, il quale ha dovuto faticare non poco per ingurgitare un Dio ebreo". Mi ripete la sua teoria di cattolicesimo-paganizzazione del cristianesimo. " Per questo io sono cattolico e anticristiano"". Il 22 agosto dello stesso anno Ciano annota sul suo diario: "Sembra che il Papa abbia fatto ieri un nuovo discorso sgradevole sul nazionalismo esagerato e sul razzismo. Il Duce ...si propone di dare un ultimatum: "...Se il Papa continua a parlare, io gratto la crosta agli italiani e in men che si dica li faccio tornare anticlericali. Al Vaticano, sono uomini insensibili e mummificati. La fede religiosa è in ribasso: nessuno crede a un Dio che si occupa delle nostre miserie. Io disprezzerei un Dio che si occupasse delle vicende personali dell'agente di Polizia fermo all'angolo del Corso"" (Galeazzo CIANO, Diario 1937 - 1943, 1990, pp. 163 e 167). Questo è il Duce che ha condotto il suo paese a una sconfitta rovinosa. Un uomo privo di vera cultura, pervaso da una accesa visione anticristiana. E' dunque impossibile conciliare fede cattolica e ammirazione per Benito Mussolini. I cattolici che tale ammirazione conservano sono chiamati a rivedere la loro posizione.
Sul Corriere della Sera del 22 maggio 2015 Massimo Gaggi dà conto del disastro che si sta compiendo in Medio Oriente: "Non si tratta solo della scarsa efficacia di una strategia basata su attacchi dal cielo condotti prevalentemente coi droni: la caduta di Palmira in Siria e, ancor più, quella di Ramadi in Iraq, sono il termometro di un fallimento ben più vasto...". L'avanzata di ISIS non viene adeguatamente fronteggiata e non si arresta. Gaggi così prosegue: "... adesso per l’Iraq, anche al di fuori dei circoli repubblicani, si comincia a parlare apertamente di strategia fallimentare di due presidenti. Certo, Obama aveva ereditato da Bush una situazione impossibile a Bagdad: l’invasione del 2003 aveva eliminato Saddam Hussein e la sua classe dirigente sunnita senza riuscire a costruire, come da promesse, uno Stato democratico e multietnico. Il presidente democratico ha, in diversi modi, cercato il disimpegno. Lo ha fatto ritirando i soldati dal Paese, responsabilizzando la nuova dirigenza locale, favorendo un ricambio al vertice quando il regime di Al Maliki è divenuto apertamente filo-iraniano, rendendo così impossibile il dialogo con i sunniti". E' falso che Obama abbia ereditato da Bush una situazione impossibile a Bagdad. Nel gennaio 2007 Bush nominò il generale David Petraeus comandante delle forze Usa in Iraq, con l'incarico di aumentare le truppe statunitensi nel territorio e di prenderne il controllo. In realtà il "surge" iraqeno sotto il comando di Petraeus ebbe successo e Bush consegnò a Obama un Iraq sulla via della pacificazione. Il disastro di oggi nasce proprio dal rovesciamento della linea Bush realizzato da Obama con un ritiro rapido ed improvvisato dal paese. Allo stesso Obama si deve il successivo fallimentare "surge" USA in Afghanistan. L'attuale presidente ha dunque gravissime responsabilità. Ma chi nei media occidentali l'ha sostenuto con una martellante propaganda tali responsabilità condivide.
Su Il Sole 24 ORE del 15 maggio 2015 Maitre_à_panZer offre un'analisi fuori del coro del mercato del lavoro inglese: "La crescita più esaltante la osservo guardando la curva dei self-employed, che rimane sotto 100 fino alla metà del 2009 e poi inizia a crescere senza sosta, arrivando a sfiorare 120 nella seconda metà del 2014, scendendo poco sotto ai primi di quest’anno". "Ne deduco che gran parte della crescita dell’occupazione nel mercato del Regno Unito dipende da loro: quelli che si sono messi in proprio. E non è strano che sia così: una volta che un lavoratore si mette in proprio e si cancella dalla lista dei disoccupati, automaticamente la sua posizione non viene più conteggiata nelle statistiche della disoccupazione". "Questa curiosa evoluzione statistica, tuttavia, porta con sé una conseguenza che gli economisti chiamano “puzzle della produttività“. Un altro grafico, infatti, ci mostra l’andamento del Pil britannico, cresciuto del 4% dal 2008, e lo confronta con la produttività pro capite che, fatto 100 l’indice del 2008, viaggia da allora sotto quel livello.Ne deduco che uno può pure autoimpiegarsi e così far scendere la disoccupazione. Ma ciò non vuol dire che riesca a produrre e vendere qualcosa che sia statisticamente significativo". A queste condivisibili considerazioni si possono aggiungere utilmente le statistiche sull'occupazione USA, ferma dall'inizio dell'anno e lontana dal tasso del 2007. Pare a molti che le economie statunitense e britannica abbiano retto meglio di altre l'urto della crisi. Ma dove finisce la propaganda e dove comincia la realtà? La maggior parte dei governi, sostenuta con fedeltà canina da stimati economisti, non ha affrontato i grandi problemi di una disordinata globalizzazione e non ha inciso apprezzabilmente sui fattori fondamentali dell'economia reale. Fare i conti con la realtà è difficile. Troppo si è corso nella direzione sbagliata. Come tagliare spesa pubblica e tasse? Come ridurre il soffocante peso del welfare? Come ripristinare certezza del diritto e adeguati stimoli all'impegno individuale? Come migliorare il capitale umano fiaccato dalla caduta di tradizioni, educazione e istruzione? Come dare regole comuni alla economia globale? Si tratta dunque di una realtà dura e refrattaria, dove ogni questione ha mille facce e ogni possibile rimedio produce conseguenze indesiderate. Quanto pagheremmo un buon smartphone concepito e costruito in Italia da imprese tassate all'italiana, con la produttività italiana? Ma quanto sarebbe doloroso correggere davvero i vizi di sistemi non più competitivi?
Thomas Manfredi su linkiesta.it del 6 maggio 2015 dà conto delle proteste di insegnanti e studenti contro la riforma Renzi della scuola italiana: "I cortei di protesta contro la riforma della scuola del Governo Renzi, passata agli onori e oneri della cronaca con il nome di “Buona Scuola”, annunciano il netto no della parte più sindacalizzata del nostro sistema scolastico ai principi che ispirano l’intervento governativo - già di per sé piuttosto traballante, a partire dalla mancata previsione di un sistema di valutazione oggettivo e stringente per gli insegnanti precari". L' articolo ha soprattutto il merito di sottolineare la relazione tra competenze e crescita che produce buona occupazione: "Il sistema formale d’istruzione, nonostante alcuni progressi recenti registrati dalle inchieste internazionali quali Pisa dell’Ocse, appare, a parte poche isole felici soprattutto nel Nord-est italiano, assolutamente incapace di preparare i nostri studenti al mondo del lavoro, che - ricordiamolo - non aspetta né sindacati né governi, per mutare e richiedere competenze nuove ai lavoratori. La velocità di cambiamento nel contenuto di skill è una delle caratteristiche più marcate delle nuove occupazioni, soprattutto legate all’economia digitale. Una scuola pachidermica, e che ancora ragiona con slogan da anni Settanta, è cosciente che nel mondo nulla o quasi si produce e si organizza come eravamo abituati anche solo prima della seconda metà degli anni 2000?". Il tema è quello del capitale umano, fondamentale fattore economico. Il suo miglioramento non dipende dal numero degli insegnanti e degli studenti, nè dalla quantità di denaro gettato nello sgangherato calderone della scuola pubblica italiana. Occorrono piuttosto più operatori capaci di trasmettere sapere tecnico, matematico e scientifico e più studenti disposti ad acquisirlo. Con le eccezioni degli interventi del professor Luca Ricolfi e di pochi altri, manca nel dibattito pubblico italiano una adeguata discussione del problema. Senza una costante attenzione alle necessità della economia reale, nessun coniglio bianco estratto dal cappello dei banchieri centrali ci salverà.
Radio Vaticana il 30 aprile 2015 ha dato conto di una importante "posizione espressa da Papa Francesco durante l’incontro avuto con gli appartenenti alle Comunità di vita cristiana e alla Lega Missionaria Studenti, organismi della famiglia dei Gesuiti". Francesco: “Si sente: ‘Noi dobbiamo fondare un partito cattolico!’: quella non è la strada. La Chiesa è la comunità dei cristiani che adora il Padre, va sulla strada del Figlio e riceve il dono dello Spirito Santo. Non è un partito politico. 'No, non diciamo partito, ma … un partito solo dei cattolici': non serve e non avrà capacità convocatorie, perché farà quello per cui non è stato chiamato (…) Ma è un martirio quotidiano: cercare il bene comune senza lasciarti corrompere”. Il papa mostra piena consapevolezza non solo dei tratti fondamentali della fede cristiana ma anche della prova complessivamente cattiva che hanno dato di sè i partiti dei cattolici nel Novecento. Basti pensare al Partito Popolare italiano, che non seppe contribuire efficacemente ad evitare la dittatura di Mussolini, al Zentrum cattolico tedesco, che non contrastò adeguatamente l'ascesa di Hitler, alla Democrazia Cristiana dopo la parentesi degasperiana e al sostanziale fallimento del partito cattolico francese (MRP) nel Secondo dopoguerra. La memoria va al per molti aspetti fatale crocevia dell'Età giolittiana. In vista delle elezioni del 1913 i liberali del cattolico Giovanni Giolitti conclusero un accordo con l'Unione Elettorale Cattolica Italiana (UECI), un'associazione laicale diretta da Vincenzo Gentiloni, alla quale lo stesso papa Pio X affidò il compito di far partecipare i cattolici italiani alla vita politica. L'informale Patto Gentiloni ebbe grande successo. Con il suffragio universale maschile nel 1913 i liberali di Giolitti ottennero il 51% dei voti e 260 eletti su 508, 228 dei quali avevano sottoscritto gli impegni previsti dall'accordo. Giolitti era riuscito a far entrare i cattolici nelle istituzioni nate dal Risorgimento, nel segno di un liberalismo pragmatico e rispettoso di ogni libertà, religiosa compresa. Papa Francesco di fatto ritorna alla analoga visione del suo predecessore Pio X. Altri pontefici consentirono invece l'affermazione in Italia di un partito cattolico, con esiti disastrosi. Un partito di cattolici fu fondato nel 1919 da don Luigi Sturzo. Il Partito Popolare di Sturzo si ispirava alla Dottrina sociale della Chiesa, con il programma di rinnovare a fondo la politica e la società italiane. Perseguendo questo ambizioso obiettivo si oppose al ritorno al governo del vecchio ma esperto Giolitti, solo statista italiano in grado di precludere a Mussolini la conquista del potere. Dino Grandi, forse il più intelligente gerarca fascista, ha espresso un duro giudizio sull'operato di Sturzo: "Il veto di Sturzo al ritorno di Giolitti fu in effetti il più grande servizio che il prete di Caltagirone avrebbe potuto rendere al movimento fascista per cui, non a torto, Sturzo è stato paradossalmente definito da taluni come uno dei padri della marcia su Roma" (Dino GRANDI, Il mio paese. Ricordi Autobiografici, ed.1985, pag. 157). Una vicenda esemplare, che affonda le proprie radici proprio nell'errata percezione della natura e della portata della religione cristiana.