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venerdì 28 marzo 2014

Il principio di autodeterminazione dei popoli.




La crisi ucraina, con la secessione della Crimea, ha riportato all'attenzione di tutti il principio di autodeterminazione dei popoli.

 Tale principio, che afferma il diritto dei popoli di scegliere autonomamente il proprio destino, è stato posto dal presidente degli Stati Uniti  d'America Woodrow Wilson a fondamento dell'ordine internazionale stabilito dai vincitori dopo la Prima guerra mondiale. La Carta delle Nazioni Unite (ONU), che ha valore di trattato internazionale e risale alla fine della Seconda guerra mondiale, lo ha recepito nell'articolo 1, paragrafo 2, attribuendo all'organizzazione il compito di "Sviluppare tra le nazioni relazioni amichevoli fondate sul rispetto e sul principio dell'eguaglianza dei diritti e dell'auto-decisione dei popoli, e prendere altre misure atte a rafforzare la pace universale".

In realtà questo principio, spesso connesso all'idea di nazione, ha svolto un ruolo assai negativo, determinando e legittimando guerre, genocidi, crudeltà e sofferenza. Il suo più lucido e coerente critico è stato Karl Popper:

"La  religione nazionalistica è ben radicata. Molti sono pronti a morire per essa, credendo che sia moralmente valida, e autentica. Ma si sbagliano... Poche fedi hanno generato più odio, crudeltà, e inutili sofferenze, della credenza nella validità del principio di nazionalità..." (Congetture e confutazioni, 2000, p. 624 e seg.).

Il "principio dello stato nazionale...deve la sua popolarità esclusivamente al fatto che si rivolge agli istinti tribali e che è il meno costoso e più sicuro metodo con cui può affermarsi un politico che non abbia niente di meglio da offrire" (La società aperta e i suoi nemici, Vol. I, 1981, p. 390).

"Le idee di Fichte e di Hegel portarono al principio dello stato nazionale e dell'auto-determinazione nazionale, un principio reazionario... che il democratico Wilson fece proprio. Questo principio è ovviamente inapplicabile in questa terra e specialmente in Europa, dove le nazioni (cioè i gruppi linguistici) sono così fittamente intricate che è assolutamente impossibile districarle. Le terribili conseguenze del tentativo di Wilson di applicare questo principio romantico alla politica europea dovrebbero essere ormai chiare a chiunque. Che l'assetto di Versailles fosse duro, è un mito; che ai principi di Wilson fosse mancato il consenso, è un altro mito. Il fatto è che tali principi non potevano essere applicati più coerentemente; e Versailles fallì soprattutto a causa del tentativo di applicare gli inapplicabili principi di Wilson" (La società aperta e i suoi nemici, vol. II, 1981, p. 418).

Questo principio  perverso è stato recentemente applicato in Kosovo ed è ora richiamato in Ucraina. E' però erroneamente ritenuto liberale. Un liberale dovrebbe invece far propria la massima latina "ubi bene ibi patria": la patria è dove è possibile condurre una vita buona.

venerdì 21 marzo 2014

Spending review? Non basta!



  Su La Stampa del 21 marzo 2014 Paolo Baroni ha delineato potenzialità e limiti della spending review di cui si parla da tempo:

" Arrivare a risparmiare 34 miliardi su un bilancio dello Stato che ne assorbe più di 700 sulla carta non dovrebbe essere un gran problema, perché alla fine stiamo parlando di un 5% scarso di spesa. Ciò non toglie che quello della spending review che il governo sta avviando si presenti come un vero e proprio percorso di guerra, fatto comunque di trabocchetti, ostacoli burocratici, prassi da scardinare, ma soprattutto volontà politiche da affermare e imporre ad ogni livello".

"Qui il rischio che si tocchi carne viva è concreto", scrive l' editorialista del quotidiano torinese. Eppure anche se portata alle sue estreme conseguenze la cosiddetta  spending review non potrebbe dare un apprezzabile impulso alla declinante economia.

La spesa pubblica italiana ammonta a circa ottocento miliardi di euro e corrisponde a oltre la metà del PIL. Per fronteggiare una tale spesa il fisco preleva oltre il 50% dello stesso prodotto interno lordo. E' verosimile che solo una riduzione della pressione fiscale su produttori, consumatori e risparmiatori pari a un quarto ( oltre centocinquanta miliardi) riesca a dare nuovo slancio a produzione e occupazione. Tale riduzione può avvenire senza incrementare il debito pubblico soltanto diminuendo in misura corrispondente la spesa pubblica. E' dunque necessario risparmiare più di  centocinquanta miliardi di euro, di gran lunga maggiori dei pochi miliardi obiettivo della sognata spending review.
Uno sguardo alla spesa pubblica dell' Eurozona purtroppo obbliga ad immaginare riforme strutturali ben più incisive. La spesa pubblica italiana è sostanzialmente in linea con quella media dei paesi dell' area euro. Ciò significa che una razionalizzazione della spesa, con eliminazione degli sperperi, senza riduzione dell' ampiezza del settore pubblico, consentirebbe di ottenere forse una efficienza europea ma non una adeguata diminuzione delle uscite pubbliche.


Di questa dura realtà ha recentemente preso atto il governo olandese, che per bocca dello stesso re ha prospettato la fine del welfare state.

Occorre parlare con franchezza ai ceti medi italiani ed alle imprese, proponendo un patto preciso: ad una importante diminuzione della pressione fiscale dovrà corrispondere l' assunzione di maggiori responsabilità. Solo gli indigenti avrebbero servizi gratuiti, mentre dovrebbero cessare i trasferimenti alle imprese, con un netto taglio del cosiddetto capitalismo relazionale.
 La società deve sempre più bastare a se stessa, alleggerendo lo stato di compiti ormai insostenibili. Minore intermediazione pubblica della ricchezza prodotta, certezza del diritto, concorrenza estesa a settori più ampi, educazione del cittadino alla libertà responsabile. Queste le necessarie premesse della ripresa auspicata. La strada è in salita, ma rappresenta la sola alternativa al declino.

venerdì 14 marzo 2014

Ucraina. Scontro di debolezze.




Mentre la crisi russo-ucraina sembra aggravarsi è opportuno dar conto  di alcuni lucidi interventi fuori del coro, che indicano prospettive di analisi e linee di condotta in larga misura condivisibili.
Su affarinternazionali.it  l'11 marzo 2014 il generale Vincenzo Camporini ha scritto:

"La Russia di Putin, che si sente l’erede di una storia millenaria, non è solo l’epigono dell’Unione Sovietica ma continua ad essere il paese più grande del mondo in termini di superficie, e non vuole essere schiacciato a occidente e a oriente da potenze che non riuscirà mai a percepire come amiche, anche perché consapevole delle sue insuperabili debolezze strutturali, dalla demografia in discesa al fatiscente quadro industriale, che non consentono alla dirigenza di Mosca di guardare con ottimismo alle decadi future. Ne consegue l’ansia di circondarsi di una fascia di paesi in qualche modo legati da un vincolo che, a seconda del punto di vista, si può definire di amicizia o di vassallaggio..."

"Quanto accaduto negli ultimi anni e in particolare negli ultimi mesi in Ucraina ha fortemente alimentato le preoccupazioni russe, con una spaccatura tra due fazioni che si sarebbe dovuta evitare e le cui colpe possono essere equamente distribuite: da un lato chi sogna un’impossibile riunificazione con Mosca, percepita come Grande Madre ed a cui è pesantemente legata, non fosse altro che per le forniture energetiche, dall’altro chi invece guarda all’Occidente come il solo attore che possa offrire una prospettiva di futuro sviluppo e di apertura di mercati che possa far rinascere un’economia ansimante. Due visioni percepite come confliggenti e mutuamente esclusive.
L’errore di entrambe le parti, Occidente e Russia, è stato quello di alimentare queste visioni senza cercare sagacemente una sintesi che avrebbe potuto, e potrebbe ancora, portare al superamento di queste opposte visioni: un grave errore, alimentato dalle reciproche diffidenze antiche di quasi un secolo cui è tempo di rimediare.
Non è obbligatorio che Kiev stia da una parte o dall’altra: bisogna trovare una via di mezzo che salvaguardi gli obiettivi a breve di entrambi e costituisca inoltre il fondamento di una futura collaborazione strategica che è storicamente indispensabile, per essere pronti ad affrontare con successo le sfide poste dell’emergere di culture e potenze la cui compatibilità con la visione del mondo che ci appartiene è dubbia e tutta da dimostrare". 

"È illuminante l’articolo di qualche giorno fa di Hanry Kissinger sul Washington Post, che sollecita un approccio mirato a attenuare le contrapposizioni interne all’Ucraina, mettendo da parte qualsiasi ipotesi di una sua adesione alla Nato che sarebbe inevitabilmente percepita da Mosca come atto ostile, ma aprendo a un rapporto più stretto con l’Unione europea, secondo uno schema che è stato definito di ‘finlandizzazione’ dell’Ucraina e che ha il potenziale di trasformare Kiev da terreno di scontro della opposte ambizioni (interne ed esterne), a ponte ideale tra Occidente e Mosca, su cui costruire un rapporto basato sulla fiducia e non sulla diffidenza. 
Non è una via agevole, anche perché presuppone una convincente azione di ‘moral suasion’ su chi oggi detiene le leve del potere in Ucraina, come su chi soffia sul fuoco delle tendenze separatiste, ma è una via che deve essere seguita con determinazione, in quanto figlia di una visione sensata e fattibile su cui si deve investire, in modo che da questa partita tutti possano uscire come vincitori".

L'analisi di Camporini  presenta significativi punti di contatto con altri autorevoli interventi.
Il 3 marzo 2014 Neil Melvin su sipri.org ha così commentato la situazione:

"While the origin of the crisis lies in the confrontation between ousted Ukrainian President Viktor Yanukovych and an opposition movement protesting against what it saw as a corrupt and illegitimate government, the catalyst for the violence has been the geopolitical struggle for Ukraine that has been played out over recent years between the transatlantic community and Russia.
Competition between the integration projects of the European Union (EU), in the form of its proposed Association Agreement with Ukraine, and Russia, through its Customs Union, has served to destabilize the delicate east-west balance in Ukrainian foreign and security policy and, thereby, put pressure on the fragile regional, linguistic and ethnic mosaic that makes up contemporary Ukraine".

Melvin sottolinea la portata della contesa geopolitica per l'Ucraina tra Occidente e Russia e il ruolo destabilizzante dei contrapposti progetti di integrazione. Da segnalare anche, su nationalinterest.org, l'attenta analisi proposta da Dimitri K. Simes e Paul J. Saunders:

 "Once the protests began, the administration essentially abandoned its efforts to persuade Russia that Ukraine’s Western orientation would be “win-win” and instead supported a “winner-takes-all” approach..."

" After Russian forces established control in Crimea, Obama returned to a policy process that has already failed repeatedly elsewhere: 1) make bold and moralistic pronouncements, 2) put America’s prestige and credibility on the line, and 3) produce no real policy. U.S. policy toward Syria has been the most visible and damaging application of this approach so far, but it is far from the only one. This is how an administration that entered office determined to rebuild America’s image has instead further marred it, discouraged allies, and emboldened foes—grand talk and no action. The administration’s peculiar combination of Bush-era self-righteousness with Obamian instinctive caution, whether through analysis-paralysis or simple timidity, offers the worst of both worlds".

"In the end, China’s rise is much more significant than Crimea’s fate, and the United States should avoid reacting to the Ukraine crisis in ways that could severely undermine its ability to manage this paramount priority. China and Russia are not allies today and Beijing will not publicly support Crimea’s self-determination, something that Chinese leaders clearly see as contrary to their view of their own country’s territorial integrity. Nevertheless, there is little doubt about Beijing’s views of who is to blame for the crisis in Ukraine—the West—or about China’s sympathy for Moscow. Leaving Moscow no alternative to a far stronger relationship with Beijing, possibly including new high-tech arms sales and even diplomatic support of China’s territorial claims, would be a Pyrrhic victory. Perversely, efforts to displace Russia’s gas exports to Europe, which current events are likely to accelerate, may make Russian-Chinese deals more likely by putting new pressure on Gazprom to accept the lower prices China is offering. As Henry Kissinger recently wrote, the administration should remember that “the test of policy is how it ends, not how it begins.”".

"Finally, Washington should think long and hard about America’s complex relations with China. If necessary, the United States can confront either Moscow or Beijing, but the U.S. should avoid a simultaneous break with both—something much more difficult to manage. We cannot afford further missteps.
Finally, we must keep a sense of perspective about Russia. Vladimir Putin may have seized Crimea, but he is not Adolf Hitler. History rarely repeats itself. Still, 2014 looks less like 1939 than 1914. In the decade preceding World War I, Russia was weakened by the 1904-05 Russo-Japanese war and its 1905 revolution, and consequently accepted several humiliating setbacks in the Balkans at the hands of the Austro-Hungarian Empire and Imperial Germany. In response, Tsar Nicholas II decided to consolidate his alliance with Britain and France and to modernize the Russian army. Moscow finally took a stand in August 1914, surprising Kaiser Wilhelm and Emperor Franz Joseph, who thought that Russia would not dare to call their bluff. Indeed, the resulting war was suicidal for Russia and its Tsar, but Nicholas took Germany and Austria-Hungary down the drain with him. In an era before nuclear weapons, millions of Europeans died. And the war’s apparent winners—Britain and France—soon faced terrible new challenges".

Due "tigri di carta" si contrappongono. Gli USA di Obama sono fiaccati dal consumo a debito, dal fallimento delle principali agenzie educative, dalla caduta dell'etica del lavoro e della responsabilità. Solo il rapido incremento della produzione di shale gas/oil compensa parzialmente  le insufficienti prestazioni del sistema.
La Russia di Putin è segnata da una tendenza demografica sfavorevole, dalla bassa produttività, dall'eccessiva dipendenza dall'esportazione di armi, materie prime, gas naturale e petrolio, dalla presenza di una sempre più numerosa popolazione islamica.
Questi due giganti malati, nessuno dei quali è più avvelenato da ideologie totalitarie, non hanno nulla da guadagnare da una prolungata lotta. O vincono o si indeboliscono ancora entrambi. La nuova superpotenza cinese e il fondamentalismo islamico sarebbero i veri vincitori di una contesa geopolitica senza valide ragioni, tale da evocare non Danzica ma Sarajevo.

venerdì 7 marzo 2014

Democrazia di scambio.




Oggi gli approcci macroeconomici e monetaristi alla crisi prevalgono. Le fondamenta sociali, culturali e morali del sistema paese, che invece costituiscono la parte decisiva del suo potenziale di crescita, restano nella migliore delle ipotesi sullo sfondo. Sul Corriere della Sera del 3 marzo 2014 il professor Ernesto Galli Della Loggia si pone coraggiosamente nella prospettiva corretta, dando ragguaglio della evoluzione dei rapporti tra politica e società italiane negli ultimi decenni:

"Qual è la causa profonda della crisi italiana, che ormai sappiamo bene essere una crisi niente affatto congiunturale? Un filo per imbastire una risposta adeguata lo si trova leggendo i saggi di un volume curato da Gianni TonioloL’Italia e l’economia mondiale dall’unità a oggi — e pubblicato nella bella collana storica della Banca d’Italia. Come spesso capita, la prospettiva dei tempi lunghi, soprattutto centrale nel saggio introduttivo del curatore, serve a far vedere meglio le cose".

"...il rapporto tra il Prodotto interno lordo pro capite italiano e quello degli Usa è tornato nel 2010 ai livelli del 1973. In questo secolo, insomma, la nostra crescita è semplicemente inesistente, e da un certo punto in poi inizia addirittura una decrescita. Un deterioramento complessivo di cui può essere considerato un preannuncio simbolicamente esemplare ciò che a cominciare dagli anni Ottanta avviene del rapporto debito/Pil: da circa il 60 per cento nel 1979 si passa in un solo decennio al 90, per arrivare nel 1992 al 105 per cento".

"...in Italia ciò che è venuto meno non è qualcosa che attiene direttamente all’economia, ma è piuttosto una generale «capacità sociale di crescita» (Toniolo). 
Diviene allora impossibile non collegare il ciclo economico a quello politico, e chiedersi se negli Anni 70/80, data di inversione del primo, non sia cominciato ad accadere anche nel secondo qualcosa di significativo che possa essere messo in relazione con esso. Ebbene, questo qualcosa è senz’altro accaduto, e si chiama avvento di un consenso elettorale ad alto tasso di contrattazione".

"...sempre maggiore libertà avrebbe richiesto maggiore responsabilità. Di cui invece, per varie ragioni qui troppo lunghe a dirsi, la società italiana non era certo pronta a farsi carico. In Italia maggiori spazi di democrazia vollero dire che a partire dagli anni Settanta si aprì un mercato elettorale nel quale diveniva sempre più difficile per il compratore politico opporsi alle richieste molteplici e inevitabilmente settoriali dei diversi gruppi sociali decisi a sfruttare al meglio il proprio voto. Si spiega in questo modo tutta una serie di fenomeni destinati nei decenni successivi ad aggravarsi e a produrre conseguenze negative molto importanti: l’espansione caotica e costosa dello Stato sociale, i sussidi indiscriminati alle imprese, il peggioramento della qualità dell’istruzione e della Pubblica amministrazione a causa di concessioni «permissiviste» dall’alto e pansindacalismi e agitazioni democraticiste dal basso. Nel mentre l’istituzione delle Regioni e le varie «riforme» non mancavano di produrre una progressiva perdita di controllo del centro su tutte le periferie e su tutti gli insiemi".

"...la società che prende il sopravvento si rivela per ciò che è: una società con un assai debole «capitale civico», familistica e corporativizzata, complessivamente poco istruita e poco interessata a informarsi, il cui interesse per la libera discussione è scarsissimo, dislocata geograficamente, divisa in interessi particolari accanitamente decisi ad autotutelarsi; dove il privato tende sempre a prevalere su ciò che è pubblico o a piegarlo al proprio servizio; dove non esistono élite sociali e culturali unanimemente riconosciute. Dove sì, le energie non mancano, ma dove si manifesta sempre fortissima la resistenza al cambiamento, al merito, alla mobilità".

"È compatibile — questo è il punto — una società del genere con un moderno sviluppo economico? E soprattutto: può riuscire a esprimere una strategia appena appena coerente rispetto allo sviluppo anzidetto un sistema politico che deve operare in un tale clima «democratico»? Che è costretto a contrattare periodicamente il proprio consenso con una tale società?".

E' del tutto evidente che il passaggio del paese alla modernità non è stato determinato e accompagnato da una adeguata evoluzione culturale e morale. Senza tale evoluzione la pressione esercitata dalla società aperta e dalla economia globalizzata diventa insostenibile. Domanda e offerta politiche si incontrano su personalità e soprattutto obiettivi incompatibili con i presupposti della crescita economica e sociale.
Da notare che tale deficit di capitale civico, culturale e morale può essere anche l'esito di una involuzione, del declino da una condizione di superiorità. Una involuzione siffatta ha segnato la stessa società statunitense che, dal livello raggiunto negli anni Cinquanta del secolo scorso, è scesa a quello di oggi. La rielezione di un pessimo presidente come Obama si spiega anche così:





Esiste una chiara asimmetria tra la distruzione di già esistenti e la formazione di nuove tradizioni, culture e moralità. Mentre la distruzione può essere molto rapida, l'emergenza è di regola lenta. Negli USA il fallimento delle principali agenzie educative si è rivelato determinante. Ma tale fallimento è stato almeno altrettanto decisivo nel nostro paese. Famiglia, scuola, chiese ed altre formazioni intermedie rilevanti non sono riuscite a formare cittadini, elettori, produttori e consumatori preparati, responsabili e lungimiranti.
Si tratta un fallimento temuto dagli stessi padri del grande pensiero liberale, che attribuivano notevole importanza all'educazione. Si veda per tutti Karl Popper:




Ocorre riportare al centro del dibattito pubblico questi temi, per indirizzare l'attenzione dell'opinione pubblica anche sui "fondamentali" inadeguati all'origine del declino italiano, culturale e morale prima che economico. Un paese così bello e dal grande passato merita l'impegno richiesto.




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