Oggi gli approcci macroeconomici e monetaristi alla crisi prevalgono. Le fondamenta sociali, culturali e morali del sistema paese, che invece costituiscono la parte decisiva del suo potenziale di crescita, restano nella migliore delle ipotesi sullo sfondo. Sul Corriere della Sera del 3 marzo 2014 il professor Ernesto Galli Della Loggia si pone coraggiosamente nella prospettiva corretta, dando ragguaglio della evoluzione dei rapporti tra politica e società italiane negli ultimi decenni:
"Qual è la causa profonda della crisi italiana, che ormai sappiamo bene essere una crisi niente affatto congiunturale? Un filo per imbastire una risposta adeguata lo si trova leggendo i saggi di un volume curato da Gianni Toniolo — L’Italia e l’economia mondiale dall’unità a oggi — e pubblicato nella bella collana storica della Banca d’Italia. Come spesso capita, la prospettiva dei tempi lunghi, soprattutto centrale nel saggio introduttivo del curatore, serve a far vedere meglio le cose".
"...il rapporto tra il Prodotto interno lordo pro capite italiano e quello degli Usa è tornato nel 2010 ai livelli del 1973. In questo secolo, insomma, la nostra crescita è semplicemente inesistente, e da un certo punto in poi inizia addirittura una decrescita. Un deterioramento complessivo di cui può essere considerato un preannuncio simbolicamente esemplare ciò che a cominciare dagli anni Ottanta avviene del rapporto debito/Pil: da circa il 60 per cento nel 1979 si passa in un solo decennio al 90, per arrivare nel 1992 al 105 per cento".
"...in Italia ciò che è venuto meno non è qualcosa che attiene direttamente all’economia, ma è piuttosto una generale «capacità sociale di crescita» (Toniolo).
Diviene allora impossibile non collegare il ciclo economico a quello politico, e chiedersi se negli Anni 70/80, data di inversione del primo, non sia cominciato ad accadere anche nel secondo qualcosa di significativo che possa essere messo in relazione con esso. Ebbene, questo qualcosa è senz’altro accaduto, e si chiama avvento di un consenso elettorale ad alto tasso di contrattazione".
"...sempre maggiore libertà avrebbe richiesto maggiore responsabilità. Di cui invece, per varie ragioni qui troppo lunghe a dirsi, la società italiana non era certo pronta a farsi carico. In Italia maggiori spazi di democrazia vollero dire che a partire dagli anni Settanta si aprì un mercato elettorale nel quale diveniva sempre più difficile per il compratore politico opporsi alle richieste molteplici e inevitabilmente settoriali dei diversi gruppi sociali decisi a sfruttare al meglio il proprio voto. Si spiega in questo modo tutta una serie di fenomeni destinati nei decenni successivi ad aggravarsi e a produrre conseguenze negative molto importanti: l’espansione caotica e costosa dello Stato sociale, i sussidi indiscriminati alle imprese, il peggioramento della qualità dell’istruzione e della Pubblica amministrazione a causa di concessioni «permissiviste» dall’alto e pansindacalismi e agitazioni democraticiste dal basso. Nel mentre l’istituzione delle Regioni e le varie «riforme» non mancavano di produrre una progressiva perdita di controllo del centro su tutte le periferie e su tutti gli insiemi".
"...la società che prende il sopravvento si rivela per ciò che è: una società con un assai debole «capitale civico», familistica e corporativizzata, complessivamente poco istruita e poco interessata a informarsi, il cui interesse per la libera discussione è scarsissimo, dislocata geograficamente, divisa in interessi particolari accanitamente decisi ad autotutelarsi; dove il privato tende sempre a prevalere su ciò che è pubblico o a piegarlo al proprio servizio; dove non esistono élite sociali e culturali unanimemente riconosciute. Dove sì, le energie non mancano, ma dove si manifesta sempre fortissima la resistenza al cambiamento, al merito, alla mobilità".
"È compatibile — questo è il punto — una società del genere con un moderno sviluppo economico? E soprattutto: può riuscire a esprimere una strategia appena appena coerente rispetto allo sviluppo anzidetto un sistema politico che deve operare in un tale clima «democratico»? Che è costretto a contrattare periodicamente il proprio consenso con una tale società?".
E' del tutto evidente che il passaggio del paese alla modernità non è stato determinato e accompagnato da una adeguata evoluzione culturale e morale. Senza tale evoluzione la pressione esercitata dalla società aperta e dalla economia globalizzata diventa insostenibile. Domanda e offerta politiche si incontrano su personalità e soprattutto obiettivi incompatibili con i presupposti della crescita economica e sociale.
Da notare che tale deficit di capitale civico, culturale e morale può essere anche l'esito di una involuzione, del declino da una condizione di superiorità. Una involuzione siffatta ha segnato la stessa società statunitense che, dal livello raggiunto negli anni Cinquanta del secolo scorso, è scesa a quello di oggi. La rielezione di un pessimo presidente come Obama si spiega anche così:
Esiste una chiara asimmetria tra la distruzione di già esistenti e la formazione di nuove tradizioni, culture e moralità. Mentre la distruzione può essere molto rapida, l'emergenza è di regola lenta. Negli USA il fallimento delle principali agenzie educative si è rivelato determinante. Ma tale fallimento è stato almeno altrettanto decisivo nel nostro paese. Famiglia, scuola, chiese ed altre formazioni intermedie rilevanti non sono riuscite a formare cittadini, elettori, produttori e consumatori preparati, responsabili e lungimiranti.
Si tratta un fallimento temuto dagli stessi padri del grande pensiero liberale, che attribuivano notevole importanza all'educazione. Si veda per tutti Karl Popper:
Ocorre riportare al centro del dibattito pubblico questi temi, per indirizzare l'attenzione dell'opinione pubblica anche sui "fondamentali" inadeguati all'origine del declino italiano, culturale e morale prima che economico. Un paese così bello e dal grande passato merita l'impegno richiesto.