Translate

venerdì 29 giugno 2012

Bertrand Russell e la politica estera britannica.

La regina Vittoria




Bertrand Russell, nato nel 1872 e morto nel 1970 apparteneva a una delle più illustri famiglie dell'aristocrazia britannica whig. Orfano di entrambi i genitori già a quattro anni, fu affidato ai nonni paterni.
Il nonno Lord John Russell fu un eminente statista, due volte primo ministro e tra i principali artefici della politica estera britannica del Diciannovesimo secolo. Nella casa dei nonni paterni, ma anche frequentando la nonna materna, il giovanissimo Bertrand respirò la grande politica dell'epoca vittoriana, acquisendone una conoscenza viva e diretta.
Anche per questi contatti precocissimi il pensiero del grande filosofo sui temi della politica estera fu per lungo tempo lucido ed originale. Particolarmente interessanti le sue considerazioni contenute in Freedom and Organization (Storia delle idee del secolo XIX). Qui si trovano cenni dello sviluppo delle relazioni internazionali, lasciate alla determinante influenza dei sovrani e dei funzionari permanenti, anche in presenza di parlamenti titolari di ampie prerogative costituzionali:

"Nonostante che dopo il 1814 il mondo si fosse trasformato, rimase un aspetto nel quale non aveva subito mutamenti importanti, e tali mutamenti, se vi erano stati, erano stati piuttosto un regresso.
Le relazioni tra le grandi Potenze erano ancora, come ai tempi del congresso di Vienna, nelle mani di singoli individui, il cui potere poteva essere sottoposto a limitazioni teoriche, ma che in pratica era pressoché dispotico. Pur con la istituzione di parlamenti nei tre Imperi orientali, le loro relazioni estere erano ancora controllate dai sovrani altrettanto completamente che ai tempi di Alessandro I e di Metternich. In Inghilterra, le tradizioni di continuità nella politica estera sottraevano tali relazioni con l'estero all'effettivo controllo del Parlamento; qualunque fosse il partito al governo, il ministero degli Esteri era nelle mani delle stesse famiglie whig, venute al potere nel 1830. In Francia, il ministero degli Esteri era meno assoluto che altrove in Europa; ma un'alleanza tra i funzionari permanenti e certi interessi del mondo degli affari conducevano a risultati assai simili a quelli prodotti altrove dall'autocrazia.
Mentre così le relazioni tra gli Stati non si erano affatto modernizzate, ne era smisuratamente aumentato il potere offensivo. La scienza e l'industrialismo avevano trasformato l' arte della guerra..."  (op. cit., 1968, pp. 622 e 623).

"Tutti questi uomini non erano pure  personificazioni di forze impersonali, ma, attraverso le loro idiosincrasie personali, influirono sugli eventi" (p. 625).

" La politica estera era trattata dovunque come un mistero, che sarebbe stato contrario agli interessi nazionali esporre apertamente agli occhi del profano" (p. 624).

Tale assetto restò sostanzialmente immutato fino alla Prima guerra mondiale e contribuisce a spiegare anche l'entrata in guerra dell'Italia, contro la volontà della maggioranza parlamentare neutralista guidata da Giovanni Giolitti, che nelle sue Memorie scrive:

"Ora io ricordo in proposito che quando la Germania dichiarò guerra alla Francia, Asquith, dopo aver convocato il Consiglio dei ministri, chiamò l'ambasciatore francese e gli disse presso a poco: "Il governo inglese ha deciso di intervenire a fianco della Francia nella guerra; ma mentre credo di dovervi comunicare subito questa decisione, vi ricordo che essa non diventa effettiva che dopo l'approvazione del Parlamento." La Costituzione nostra è in ciò simile a quella inglese; in quanto in entrambe la decisione della guerra spetta alla Corona; ma la decisione non avrebbe seguito senza l'approvazione delle necessarie spese, che spetta al Parlamento".( Giovanni GIOLITTI, Memorie della mia vita, 1982, pp. 331 e 332).

L'opposizione del Parlamento italiano agli accordi segreti stretti dal Re avrebbe aperto  un gravissimo conflitto costituzionale e una drammatica crisi dinastica. Così anche il nostro paese prese parte all'"inutile strage".
                                                                                             

giovedì 21 giugno 2012

Magna Graecia




Da un editoriale di Angelo Panebianco sul Corriere della Sera:

"...se l'euro crollasse, anche a voler prescindere dalle conseguenze economiche di un simile evento (per l'economia mondiale e quindi anche per noi), i contraccolpi politici sarebbero assai violenti per il nostro Paese. La ragione è che verrebbe meno quel famoso «vincolo esterno» in assenza del quale in Italia potrebbero correre forti rischi sia la democrazia politica che la stessa integrità dello Stato nazionale". "E l'Italia si ritroverebbe nelle condizioni di una zattera alla deriva nel Mediterraneo". "Immediati costi economici a parte, la fine dell'euro, trascinando nella rovina anche l'Unione, ci lascerebbe soli alle prese con tutti i nostri fantasmi".


E Carlo Bastasin su Il Sole 24 Ore: 

"Fin dal prossimo cruciale vertice europeo, il tema dell'integrazione politica europea infatti diventerà centrale nella soluzione dell'eurocrisi e per la stessa ragione dovrebbe diventare subito il perno anche del dibattito politico italiano".
"Una delle domande che condizionano la fiducia dell'eurozona è proprio chi governerà nel 2013 l'Italia, il Paese con il debito pubblico più pericoloso".
"Come ha dimostrato la tensione creata dal voto greco, la questione dell'affidabilità politica dei singoli Paesi resterà centrale fino al compimento dell'unione politica, cioè per molti anni. I risparmiatori o gli investitori che oggi hanno paura dell'euro sanno che fino ad allora il "pubblico" - a cui fa riferimento il "debito pubblico" che acquistano - continua ad essere composto di cittadini che tuttora possono scegliere democraticamente prima di tutto in un ambito nazionale. Per l'Italia sarebbe indispensabile consolidare adesso al proprio interno il consenso per il progetto europeo".

La Gran Bretagna, forse, grazie al rapporto speciale con gli Stati Uniti e alla qualità delle sue tradizioni e istituzioni, può permettersi di non considerare l'integrazione politico - economica europea una prospettiva vitale. Ma per l'Italia l'integrazione politica e la moneta unica europee sembrano davvero irrinunciabili, anche per le ragioni sopra lucidamente esposte dal professor Panebianco.
Occorre inoltre comprendere che per gli investitori internazionali il rischio politico nazionale rappresenta un parametro fondamentale. L'inaffidabilità politica dell'Italia pesa molto sul giudizio di chi è chiamato ad acquistare i titoli del nostro debito pubblico e ad investire nelle imprese italiane.
Allora perchè non pochi politici italiani continuano a vagheggiare il ritorno alla vecchia lira e a pronunciare dichiarazioni euroscettiche o antieuropeiste? Qualche volta si tratta di convinzioni sbagliate, ma profonde e rispettabili. Più spesso prevale il desiderio di compiacere una parte importante dell'opinione pubblica. E' difficile interrompere il circolo vizioso, prevenire il cortocircuito, ma se non si forma un adeguato consenso sulle riforme strutturali necessarie e sull'integrazione europea il paese rischia di andare alla deriva, di essere fiaccato definitivamente da convulsioni "greche", assumendo i tratti di una grande Grecia, diventando per l'economia  globale sempre più non un problema, ma il problema.

martedì 12 giugno 2012

Riforme. Evitare la balcanizzazione.



http://i.res.24o.it/images2010/SoleOnLine5/_Immagini/Notizie/Italia/2011/05/italia-fotolia-258.jpg?uuid=94a3b72c-850e-11e0-bf94-90c651e9f06e


Sulla Stampa Marcello Sorgi ha scritto:

"Con una simultaneità mai vista prima, dai vertici di Pd e Pdl sono uscite due proposte simmetriche e contrapposte: primarie e liste civiche".
"...sarà dato pieno riconoscimento alle liste che, pur non riconoscendosi negli stessi partiti, ritengono di concorrere nei due campi aggregandosi alle rispettive coalizioni".
"Apparentemente, sembra un espediente abbastanza logico, mirato dichiaratamente a ottimizzare la raccolta dei consensi, in un’elezione in cui più forti s’annunciano le contestazioni e la forza d’urto dei movimenti dell’antipolitica, usciti vincitori dalla recente tornata di amministrative. Ma di fatto, è inutile nasconderlo, c’è un’evidente contraddizione tra primarie e liste civiche. Le prime, infatti, puntano a unire gli elettori di un campo e a contrapporli a quelli del campo opposto. Le seconde, al contrario, nascono per dividere o comunque per segnare delle differenze".
" Ciò che finora non era stato provato, e invece lo sarà la prossima volta, è cosa possa accadere spostando le liste civiche, dalle contese cittadine e strapaesane, a quella nazionale per il governo".
"Si può solo provare ad immaginare le conseguenze".
"Ma la conseguenza comune e più diretta... sarà che chiunque vinca si ritroverà alle prese con i problemi già emersi in passato di divisioni interne e scarsa governabilità, moltiplicati per il numero di radici locali delle numerose liste civiche che, in nome della nuova dottrina annunciata ieri, saranno associate al centrosinistra e al centrodestra".
"Per questo, prima di aprire la strada a un’evoluzione così pericolosa della nostra già claudicante democrazia, occorrerebbe pensarci bene. Basterebbe riformare seriamente la legge elettorale, per evitarlo. Invece, al posto di rinnovarsi davvero, per gareggiare con i nuovi movimenti, nati e prosperati sulla loro crisi, i due maggiori partiti si preparano a legittimare tutto il «nuovo» (e spesso anche quello autodefinitosi tale) che non riescono a portare al loro interno e tutta la monnezza che non possono trattenere, a rischio di intossicazione, ma che temono, una volta espulsa, faccia perdere voti".

L'attribuzione di un ruolo nazionale alle cosiddette liste civiche non apre nuovi spazi alle associazioni, ai comitati, ai corpi intermedi  tanto cari a Tocqueville e a Roepke, dove il cittadino apprende la libertà e il suo esercizio responsabile, trovando il proprio posto in una rete di appartenenze che dà senso alle opzioni.
Tale attribuzione concorre piuttosto alla disgregazione del paese, premiando il particolarismo, le spinte corporative, l'approccio demagogico. La prospettiva di una balcanizzazione della nostra democrazia inquieta gli investitori internazionali, che considerano il rischio politico un parametro fondamentale.
L'Italia ha bisogno di riforme strutturali che circoscrivano le dimensioni e i costi della pubblica amministrazione, ridefiniscano la struttura e gli obiettivi del welfare, diminuiscano la pressione fiscale, aumentando l'efficienza e la competitività dell'intero sistema. Non esistono scorciatoie. Solo così si esce dalla crisi che ci attanaglia.
La riforma elettorale e della forma di governo deve tendere a riconciliare i cittadini e le istituzioni della democrazia rappresentativa e a consentire che le preoccupazioni degli elettori si traducano in una pressione costruttiva e positiva. Occorre evitare con ferma attenzione la polverizzazione della rappresentanza politica e il suo asservimento alle peggiori pulsioni.



lunedì 4 giugno 2012

La memoria delle generazioni.

                                                                                                        www.cinetivu.com
Sul Corriere della Sera il professor Angelo Panebianco con l'abituale lucidità ha scritto:

"Se cerchiamo le cause profonde della crisi dell'Europa, possiamo forse identificarne una più generale e una più specifica. La più generale consiste nel «ciclo generazionale». La più specifica nell'incapacità delle élite europeiste di fare i conti con le credenze del common man, dell'uomo comune europeo.
                                                                 
 Per ciclo generazionale si intende una regolarità tante volte all'opera nella storia. A una fase di grandi disordini (guerre interstatali e civili) segue una lunga fase di pace e ordine. Coloro che hanno vissuto l'età del disordine e ricordano le morti violente e il senso di costante insicurezza, coloro che sentono ancora, se chiudono gli occhi, l'odore della paura per la sopravvivenza propria e dei propri cari, si adoperano perché quei tempi non tornino più. Ne seguiranno sforzi individuali e collettivi tesi ad assicurare una forma di «pace perpetua» (dentro le società e fra le società affini), un ordine che si spera di costruire su basi solide. I figli di coloro che hanno vissuto nell'età del disordine ne continuano l'opera. Non hanno conosciuto direttamente quella età (o erano troppo piccoli per averne un ricordo distinto) ma sono stati influenzati dai racconti dei genitori. Da quei racconti hanno appreso che l'ordine societario è una fragile cosa, che l'età del disordine potrebbe tornare spezzando di nuovo vite e progetti di vita, sogni e desideri. L'ordine si mantiene grazie allo sforzo della nuova generazione. Possono anche insorgere, qua o là, minoranze violente (terrorismo) ma verranno sconfitte. I padri sono ancora lì a ricordare a tutti l'esperienza vissuta nell'età del disordine.

Poi, a poco a poco, scompaiono tutti quelli che hanno avuto esperienza diretta di quei tragici tempi. Per i loro nipoti non c'è ormai differenza fra le guerre puniche e il nazismo o la Seconda guerra mondiale. Cose che appartengono a epoche lontane, che si studiano a scuola, irrilevanti per la loro personale esperienza. Le inibizioni che hanno condizionato le generazioni precedenti si dissolvono. Non c'è più memoria dell'antica barbarie. Il rischio di una nuova età del disordine diventa elevato".

La perdita di memoria generazionale ha un rilievo generale ed è ben nota anche al Magistero della Chiesa cattolica. Benedetto XVI, nella sua Lettera enciclica SPE SALVI, 24, ha insegnato che:

"Innanzitutto dobbiamo costatare che un progresso addizionabile è possibile solo in campo materiale. Qui, nella conoscenza crescente delle strutture della materia e in corrispondenza alle invenzioni sempre più avanzate, si dà chiaramente una continuità del progresso verso una padronanza sempre più grande della natura. Nell'ambito invece della consapevolezza etica e della decisione morale non c'è una simile possibilità di addizione per il semplice motivo che la libertà dell'uomo è sempre nuova e deve sempre nuovamente prendere le sue decisioni. Non sono mai semplicemente già prese per noi da altri – in tal caso, infatti, non saremmo più liberi. La libertà presuppone che nelle decisioni fondamentali ogni uomo, ogni generazione sia un nuovo inizio. Certamente, le nuove generazioni possono costruire sulle conoscenze e sulle esperienze di coloro che le hanno precedute, come possono attingere al tesoro morale dell'intera umanità. Ma possono anche rifiutarlo, perché esso non può avere la stessa evidenza delle invenzioni materiali".

Tale perdita di memoria si estende a situazioni e principi fondamentali dell'economia. Mentre talune generazioni sanno che non esistono pasti gratis, che per ogni pasto c'è sempre chi paga il conto, altre non acquistano consapevolezza dei necessari fattori di uno sviluppo economico durevole, vitale e benefico per molti.
Così, nella vita democratica, l'addestramento ad una libertà responsabile e la capacità, richiesta agli elettori, di manutenere adeguatamente le istituzioni rappresentative sono difficili da acquisire ed ancor più da trasmettere alle generazioni successive, essendo largamente dipendenti dall'esperienza.
Meno condivisibile pare la mancanza di fiducia nella scuola manifestata da Panebianco. Essa non riesce a contribuire alla formazione di cittadini liberi, responsabili, produttori di ricchezza diffusa, perchè contenuti e metodi educativi sono fuorvianti ed inefficaci. Senza metodi selettivi e premio del merito, senza programmi realistici e commisurati alle esigenze del lavoro e dell'impresa, senza esercizio concreto della libertà responsabile, gli obiettivi indicati restano irraggiungibili.
Anche il ruolo degli intellettuali non deve essere trascurato. La diretta o indiretta esperienza generazionale, nei termini esposti da Panebianco, è importantissima. Ma storici, giornalisti, protagonisti del dibattito pubblico che influenzano l'opinione pubblica, hanno precise responsabilità. Essi possono fornire modelli e narrazioni entro certi limiti idonei a surrogare tale esperienza, a circoscrivere i danni prodotti dalla sua mancanza. Assistiamo invece al frequente "tradimento dei chierici", sempre meno attratti dalla verità e dal suo servizio.

Visite