Su Il Sole 24 ORE del 23 novembre 2015 Vito Lops esamina le difficoltà del quantitative easing europeo: " Leggendo il bilancio della Bce emerge che le banche dell’Eurozona hanno parcheggiato presso la Bce l’80% della liquidità immessa attraverso il «Qe». Come riporta uno studio di Lyxor, difatti, la gran parte della liquidità del «Qe» non è stata ancora utilizzata". "Ma, a quanto risulta, le banche private preferiscono restare sedute su una pila di costosi contanti parcheggiati presso la Bce, piuttosto che iniettarli nell’economia reale completando così la cinghia di trasmissione". "In realtà non ce la si può prendere con le banche europee. Queste siedono sì su una montagna di liquidità inutilizzata ma devono anche fare i conti con una montagna di crediti deteriorati da smaltire (solo le banche italiane ne hanno in pancia circa 200 miliardi). La verità è che gli ultimi anni di crisi hanno deteriorato il rating medio (livello di solvibilità) di famiglie e imprese europee e quindi gli istituti, pur essendo spronati in tutti i modi dalla Bce ad erogare, lo stanno facendo in modo molto prudenziale, proprio per non accrescere la quota di crediti deteriorati". "Se poi si osserva lo stock di mutui e non solo il flusso delle nuove erogazioni, rispetto all’anno scorso è rimasto praticamente invariato: quindi i nuovi mutui sono andati a compensare quelli che si sono estinti". "Situazione ancor più problematica per quanto riguarda i prestiti alle imprese. Il fatto che l’80% della liquidità pompata dalla Bce esca dalla porta ma rientri dalla finestra fotografa semplicemente che l’economia dell’ Eurozona non è in grado di assorbirla per buona parte, che imprese e famiglie dopo anni di crisi hanno un livello di affidabilità inferiore rispetto al passato". L'esito fallimentare era prevedibile: nell'economia globale i produttori italiani perdono la sfida lanciata da altre aree. I motivi sono noti. Pressione fiscale e contributiva insostenibile, burocrazia, capitale umano inadeguato, insufficienti stimoli all'impegno individuale, incertezza del diritto penalizzano le imprese, allontanano gli investitori privati e ostacolano la ripresa dell'occupazione. Qualora, saltando ogni mediazione, si trasferisse direttamente nelle tasche di imprenditori e altri consumatori la liquidità creata dalla BCE, l'economia reale non ne trarrebbe significativi vantaggi. Sarebbero infatti acquistati soprattutto prodotti e servizi esteri, più convenienti. L'eventuale aumento dell'inflazione colpirebbe le fasce più deboli della popolazione. Occorre abbattere spesa pubblica e pressione fiscale, ridurre la burocrazia e aumentare l'efficienza della pubblica amministrazione, dare un assetto produttivistico al welfare e alle regioni rendendoli sostenibili, incrementare certezza e semplicità del diritto, aggredire la criminalità organizzata, migliorare il capitale umano diffondendo le competenze matematiche, tecniche e scientifiche, regolare i flussi migratori, rendere effettiva la concorrenza interna in ogni settore. Di questo ha bisogno l'economia reale. Però i governanti sono stati eletti da un blocco elettorale in cui pensionati, dipendenti pubblici e beneficiari di grandi e piccoli privilegi esercitano un ruolo decisivo. Non prenderanno le misure necessarie ma capaci di irritare la loro base elettorale.
In questi giorni in cui il terrore invade la cronaca si sente spesso un'affermazione suggestiva ma oggi lontana dalla realtà: il terrore si fronteggia con la cultura. La vuota retorica che segna tale affermazione si coglie considerando da un lato la necessità di misure militari e di polizia, dall'altro l'inadeguatezza del dibattito pubblico e dell'offerta culturale. Sui media si parla di scienza senza indagare criticamente i suoi successi, le sue rivoluzioni, i suoi fallimenti. Descrivere l'impresa scientifica, frutto migliore del pensiero, significa invece dar conto della fallibilità e della grandezza umana, delle condizioni che rendono possibile il progresso civile ed economico, dell'importanza delle tradizioni, del ruolo delle idee e della libertà. In questo senso è da accogliere ciò che ha scritto Karl Popper: "Una società aperta, cioè una società basata sull'idea che non solo si deve tollerare le opinioni dissenzienti, ma le si deve anche rispettare, e una democrazia, cioè una forma di governo votata alla protezione della società aperta, non possono fiorire se la scienza diventa il possesso di un circolo esclusivo di specialisti" (Karl POPPER, Scienza e filosofia. Problemi e scopi della scienza, 1984, p. 158). Da leggere, cominciando dall'ottima introduzione alla materia di David Oldroyd: - D. OLDROYD, Storia della filosofia della scienza - K. POPPER, Congetture e confutazioni - K. POPPER, Scienza e filosofia - K. POPPER, La ricerca non ha fine - K. POPPER, Il mito della cornice - I. LAKATOS, La metodologia dei programmi di ricerca scientifici - T. S. KUHN, La struttura delle rivoluzioni scientifiche - P. K. FEYERABEND, Ammazzando il tempo. Un'autobiografia - I. LAKATOS - P. FEYERABEND, Sull'orlo della scienza - I. LAKATOS - A. MUSGRAVE (a cura di), Critica e crescita della conoscenza
Su Il Sole 24 ORE dell'8 novembre 2015 Luca Ricolfi riflette sui numeri della crisi italiana e sull'adeguatezza delle misure proposte. Gli interventi devono essere commisurati alla gravità dei problemi. "In questo balletto degli zero-virgola, quel che si rischia di perdere è la percezione dell’effettivo ordine di grandezza dei cambiamenti di cui si parla e, soprattutto, dei cambiamenti che sarebbero necessari. I paesi che hanno cambiato qualcosa nei propri fondamentali non hanno spostato qualche decimale, ma hanno spostato qualche punto nelle grandezze chiave: una riduzione della spesa, o della pressione fiscale, o del deficit, comincia ad essere apprezzabile, ossia incisiva, quando è di almeno 1 punto di Pil". "Insomma, mi spiace metterla in modo così crudo, ma qui stiamo parlando di “quisquilie e pinzillacchere”, per dirla con Totò". "Ma il bilancio è magro anche per una ragione più fondamentale, cui l’ottimismo governativo pare del tutto insensibile: i posti di lavoro che ci mancano sono circa 7 milioni. Un milione perché tanti ne abbiamo persi durante la lunga crisi del 2007-2014, e altri 6 milioni perché questa, già prima della crisi, era la nostra distanza dalla normalità, ossia dal tasso di occupazione medio dei paesi Ocse. E 7 milioni di posti fanno qualcosa come 10 punti in più nel tasso di occupazione. Ecco perché, quando vedo presentato come un grande risultato un aumento di qualche decimale del tasso di occupazione, o un aumento di qualche decina di migliaia di posti nel numero di occupati, penso che abbiamo smarrito il senso degli ordini di grandezza. A questo ritmo, e sempre che non intervengano nuove crisi e battute d’arresto, saremo un paese normale fra circa 30 anni, quando Renzi avrà superato i 70. Possiamo aspettare tutto questo tempo?". L'inadeguatezza delle misure proposte e del dibattito pubblico emerge chiara considerando l'ampiezza dei problemi. L'inadeguatezza è del resto il segno che contraddistingue oggi governi, notabili ed intellettuali delle democrazie occidentali. Anche il sangue versato in questi giorni a Parigi ne è conseguenza. Tale inadeguatezza è culturale e morale. Non si capisce e non si vuole, ma la realtà spregiata sempre si impone.
Su Il Corriere della Sera del 6 novembre 2015 Ernesto Galli della Loggia ha denunciato le gravi condizioni in cui versa la scuola italiana. Le grandi agenzie educative che hanno determinato l'affermazione e lo sviluppo delle democrazie occidentali sono state la famiglia, le chiese cristiane e la scuola. Tali agenzie sono oggi in crisi in tutti questi paesi, ma la situazione peggiore è quella dell'Italia. Il declino italiano si spiega anche e soprattutto così. La scuola italiana non è più in grado di educare il cittadino e di formare il produttore. La libertà responsabile e le necessarie competenze matematiche, scientifiche e tecniche non vengono più adeguatamente acquisite dai giovani del nostro paese. Scrive il professor Galli della Loggia: "Perché da noi il disciplinamento sociale si mostra così debole? Perché da noi non funzionano quei meccanismi che servono a ricordare nelle più svariate occasioni che «non si può fare come si vuole», che ci sono delle regole necessarie alla convivenza per ogni violazione delle quali ci sono delle sanzioni? E perché queste non sembrano preoccupare nessuno? Un principio di risposta va cercato nella crisi profondissima che in Italia ha colpito da decenni (insisto: da decenni) la scuola, la quale - stante il forte indebolimento dell’istituto familiare, dell’influenza religiosa e la fine del servizio di leva - è divenuta da molto tempo l’agenzia primaria se non unica del disciplinamento sociale degli italiani: con esiti che sono sotto gli occhi di tutti". "... ormai non sono affatto rari i casi, già nelle scuole medie, non solo di aperta irrisione e insofferenza da parte degli studenti verso gli insegnanti, ma addirittura di minacce e insulti nei loro confronti: e quasi sempre senza che ciò produca sanzioni degne di questo nome (il caso della sospensione inflitta l’altro ieri in una scuola del Torinese a una quindicina di allievi, è la classica eccezione che conferma la regola). Da tempo infatti nella scuola italiana - complici l’aria dei tempi, la voglia di non avere fastidi, l’arroganza di molti genitori inclini a proteggere sempre il «cocco di casa» anche se è un teppista in erba - da tempo, dicevo, domina un permissivismo distruttivo e frustrante". "Un permissivismo che prende, tra le molte altre, la forma della promozione d’ufficio. Certo, non è scritta da nessuna parte (almeno suppongo), ma di fatto vige la regola che nella scuola dell’obbligo, cioè fino alla terza media, è vietato bocciare. L’effetto di tutto ciò è che in generale il meccanismo didattico risulta privo di quello che da che mondo e mondo è il solo, vero (e infatti altri finora non ne sono stati inventati), strumento di sanzione. Ma ancora più importante, però, è che dominata da un tale meccanismo perverso, la scuola finisce inesorabilmente per perdere ogni reale capacità di insegnare qualcosa...oggi termina la scuola dell’obbligo un grandissimo (insisto: grandissimo) numero di studenti incapaci di scrivere correttamente in italiano, di fare il riassunto di un testo appena complesso, di risolvere un pur non difficile problema di matematica". "Da almeno due o tre decenni i giovani italiani crescono e si socializzano in questo ambiente scolastico. Qui apprendono che cos’è la cultura, cosa sono le regole, che cosa l’autorità, e che conto tenerne. In piccolo imparano insomma come funziona il loro Paese: ci si può meravigliare se poi, quando crescono, si regolano di conseguenza?". Parole chiare, largamente condivisibili. Ma ormai si tratta di un danno irreversibile. Come possono insegnanti formati in questo clima trasferire alle nuove generazioni valori e competenze che non hanno?
Ormai anche sui grandi media che abitualmente lodano l'operato delle banche centrali si fa strada qualche lucida voce critica. Su Il Sole 24 Ore del 28 ottobre 2015 Morya Longo delinea un'economia reale ormai refrattaria agli stimoli monetari: "Sui mercati finanziari si inizia dunque a dubitare dell’efficacia di questi poderosi sforzi da parte delle banche centrali. Nessuno nega che senza una politica monetaria globale così espansiva oggi la situazione sarebbe molto peggiore, ma tanti iniziano a pensare che ci sia una eccessiva sproporzione tra lo sforzo monetario e il risultato economico raggiunto. Dal 2009 le banche centrali del mondo hanno infatti tagliato i tassi 626 volte e hanno stampato molte migliaia di miliardi di dollari, ma oggi sono ancora costrette a aumentare lo sforzo. Come se non bastasse mai". "Ecco perché sul mercato inizia a farsi largo la sensazione che crescita, inflazione e lavoro fatichino a riprendersi anche per motivi strutturali, non solo congiunturali. Lo pensa Antonio Cesarano, economista di Mps Capital Market: «Il quantitative easing è un tentativo di rimettere in moto il motore, pur sapendo che qualcosa di strutturale è cambiato»". "Lo scrive anche Albero Gallo, economista di Rbs: «Se il mercato del lavoro fiacco, i salari polarizzati e la conseguente bassa inflazione sono strutturali, allora gli stimoli ciclici non possono risolvere i problemi». Insomma: se i nodi economici che affliggono il mondo non sono solo legati alla congiuntura ma a fenomeni molto più profondi come la demografia, la globalizzazione e la digitalizzazione, allora non è stampando moneta che si mettono a posto le cose. Magari si evita che peggiorino. Ma senza una efficace politica economica da parte dei Governi, senza uno sforzo strutturale maggiore di quello attuale, non si raggiungono i risultati". "Questi imprevedibili cambiamenti epocali potrebbero insomma modificare il volto all’economia mondiale e potrebbero rendere strutturalmente vani i super-sforzi delle banche centrali. Il rischio è che combattano contro un nemico diverso dal passato con armi che diventano meno efficaci, creando bolle sui mercati ma modesti risultati sull’economia reale". Manca nella analisi di Longo un adeguato accenno all'espansione fuori controllo del debito pubblico e privato, fattore scatenante della crisi scoppiata nel decennio precedente. Ma il richiamo alla situazione dell'economia reale coglie nel segno. Poco o nulla invece sui possibili rimedi. Cosa fare per spingere la grande liquidità che segna i mercati finanziari verso l'economia reale? Come ripristinare condizioni favorevoli agli investimenti privati? I possibili rimedi sono noti da tempo: ridurre il peso del welfare dandogli un assetto produttivistico, diminuire il perimetro pubblico, la spesa pubblica e la pressione fiscale, rendere effettiva la concorrenza in tutti i settori, diffondere le competenze matematiche, scientifiche e tecniche, regolare i flussi migratori, uniformare le regole per tutti gli operatori, incrementare la certezza del diritto. Solo i governi possono intraprendere questo difficile percorso. Ma ai probabili vantaggi corrisponderebbe la delusione dei tanti elettori che hanno tratto beneficio da privilegi, credito facile, ingiustificata ampiezza del settore pubblico, speculazione finanziaria, welfare generoso. Un nuovo blocco elettorale, che sorga dall'alleanza tra merito e bisogno, deve imporre una svolta a rappresentanti politici poco inclini a decisioni coraggiose.