Papa Francesco e gli economisti più noti, i politici emergenti e i clienti del bar sotto casa, tutti parlano delle disuguaglianze, delle loro origini, portata e conseguenze. Alberto Mingardi sul Corriere della Sera del 12 luglio 2012 offre un'analisi saldamente ancorata al pensiero liberale:
"Per la gran parte della storia umana, la normalità è stata la stagnazione. Davanti al grande fatto della storia moderna, a questa incredibile moltiplicazione di pani, pesci e bocche da sfamare, l'intellettuale occidentale alza il ditino.
Al capitalismo rimprovera di rendere i ricchi sempre più ricchi, e i poveri sempre più poveri. A dire il vero, il capitalismo ha inventato gli uni e gli altri. La società tradizionale era fatta di «stazioni»: uno doveva restare laddove era nato. Il denaro non determinava la classe sociale di appartenenza: lo faceva la nascita. La società di mercato ha aperto il recinto. La rivoluzione industriale trasforma la mobilità sociale, da fatto episodico, nella quotidianità di milioni di persone".
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Ma il problema non risiede nella distanza fra i ricchi e i poveri: quanto, piuttosto, nel modo in cui i ricchi sono diventati tali. Bisogna constatare che alcune, strepitose fortune sono possibili non perché subiamo un eccesso di «neoliberismo» (libera iniziativa, deregolamentazione, eccetera): ma perché lo Stato intermedia, in Europa, grosso modo la metà del Pil. Il pubblico si sostituisce al mercato come arbitro del successo: fabbrica norme che, ovviamente in nome di un qualche interesse superiore, decidono il risultato della gara competitiva prima della partenza. Nell'«1 per cento» dei più ricchi, c'è chi non vive della preferenza che gli accordano i consumatori: ma di appalti, innovazioni lautamente sussidiate, rendite privatamente lucrose e pubblicamente giustificate in nome di qualche interesse superiore. Non è un fenomeno nuovo, nella storia del «capitalismo reale». Mai però aveva interessato settori tanto ampi delle nostre economie".
"... oggi appare in pericolo una delle più apprezzate «creazioni» del capitalismo: la classe media. Le diseguaglianze appaiono più tollerabili quando prevale un'impressione di dinamismo sociale. I figli degli operai hanno potuto diventare dottori non solo grazie all'istruzione pubblica e gratuita ma soprattutto perché una certa, sobria «serenità» finanziaria era un obiettivo a portata di tutti.
Oggi la tassazione strangola i redditi delle classi medie. La mobilità sociale è passata anche attraverso il risparmio. Le rinunce dei padri pagavano gli studi e la prima casa dei figli. I tassi per impieghi del risparmio poco rischiosi sono ormai stabilmente prossimi allo zero: il che va benissimo per chi può permettersi scommesse ardimentose, ma umilia le «formichine»".
"Ma tasse e scelte di politica monetaria oggi frenano quel dinamismo sociale che del capitalismo è stato un (apprezzato) sottoprodotto. L'obiettivo di chi accende i riflettori sulle disuguaglianze è giustificare imposte più alte sui «ricchi», non ridurre le rendite che alcuni percepiscono per buona grazia del sovrano".
L'ottimo articolo di Mingardi ci porta a delineare un programma realistico. Il pericolo più grande per i liberali è conservare un approccio ideologico, che non fa i conti con l'inadeguata diffusione della visione liberale e con la forza dei suoi avversari.
I puristi del liberalismo (ma non il nostro Luigi Einaudi) hanno a lungo avversato le idee di Wilhelm Röpke, l'economista consigliere di Adenauer. Quegli stessi puristi oggi guardano con ostilità all'economia tedesca, segnata anche da tratti dirigisti e statalisti. Eppure, per tanti versi, oggi la Germania costituisce l'ultima grande economia europea liberale. L'ultima importante opinione pubblica che resiste alle illusioni della politica monetaria è proprio quella tedesca. Il governo tedesco mette le sfide della globalizzazione e della rivoluzione tecnologica al centro del dibattito pubblico.
La crisi greca pone l'Europa davanti a scelte decisive. Come ha ben scritto Danilo Taino sul Corriere della Sera del 12 luglio 2015:
"A Berlino si sospetta che Hollande voglia evitare che l’uscita di Atene dall’euro apra un varco per una riforma forte dell’eurozona. Una riforma che avverrebbe sulle linee della Germania, cioè di una maggiore integrazione non solo di bilancio ma anche delle riforme strutturali e in prospettiva del governo europeo. Sarebbe un’Europa sempre più tedesca, che Parigi non vuole. Meglio dunque la scelta conservatrice, dal punto di vista di Hollande: continuare con Atene come si è fatto per cinque anni, anche a costo di un nuovo programma di aiuti che difficilmente sarà risolutivo per la Grecia; l’importante è non creare il caso, la Grexit, che costringa a fare riforme «merkeliane»".
Il riformismo liberale in Europa, e non solo, oggi si manifesta nel programma di riforme strutturali tedesco. Per molti liberali un rospo da ingoiare. Ma sarebbe un errore cadere in un massimalismo sterile, nemico del possibile.