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lunedì 29 luglio 2013

Classe media USA. Più sicurezza o più responsabilità?




Obama chiede e promette per la classe media americana nuove buone occasioni e più sicurezza. Dietro la solita astuta demagogia almeno una affermazione vera: l'incremento della produzione di petrolio e gas di scisto (shale oil - gas) ha una portata davvero rivoluzionaria. Gli Stati Uniti in pochi anni diventeranno il primo produttore mondiale di tali materie energetiche. Queste risorse contribuiranno ad aumentare la competitività del sistema o, come nella vecchia Unione Sovietica, compenseranno la sua insufficienza. 
Il premio Nobel per l'Economia Edmund Phelps, pur esponente della scuola neo-keynesiana, su Il Sole 24 ORE del 24 luglio 2013 espone un programma che va al cuore della crisi economica e sociale americana.
Così Phelps:

"Una delle cause delle enormi disuguaglianze sociali in America è il dinamismo che ha reso così remunerativa l'attività economica. Un'economia aperta a nuovi principi e nuove iniziative è per sua stessa natura destinata a generare redditi diversi".

"Un grosso errore sarebbe anche interpretare in modo sbagliato il rapporto che esiste tra disuguaglianza sociale e innovazione. Negli ultimi decenni è stata la minore innovazione – e non la maggiore – ad aver esasperato le disuguaglianze negli Stati Uniti".

"I policymaker sono alle prese con una questione precisa: quali misure prendere. Si è fatto un gran chiasso per investire nelle infrastrutture...il dibattito pare non aver tenuto conto che il governo dovrà continuare a finanziare nuovi progetti, una volta che quelli in corso saranno stati portati a conclusione. Una simile interminabile serie di progetti nel settore edilizio non è una soluzione per fermare il calo del dinamismo al quale – in buona parte, se non interamente - è imputabile il rallentamento dell'innovazione".

"Si sostiene che il governo potrebbe incentivare l'innovazione nel settore privato fornendo finanziamenti per lo sviluppo e commercializzando i nuovi prodotti o sistemi nelle aziende o nelle industrie che offrono la promessa, quanto meno dal punto di vista del governo, di poter dare un forte slancio all'innovazione. Il presidente Obama ha implicitamente dato il proprio avallo a questo approccio".

"Questa tesi secondo la quale il governo sarebbe efficacemente in grado di prendere decisioni prese in passato da un settore privato che funzionava molto bene solleva però qualche serio dubbio... È già abbastanza difficile per i venture capitalist e gli investitori della prim'ora prendere le decisioni giuste".

"Sono convinto che un ritorno alla crescita della produzione e a un'inclusione economica ampia come in passato richiederà niente di meno che un revival di quel vigoroso dinamismo che ha puntellato quella performance. 
Questo indispensabile risveglio richiederà una riforma del settore finanziario e del settore imprenditoriale. Nel settore finanziario è basilare porre fine alla pianificazione a breve termine che indebitamente fa sì che ci si concentri sul raggiungimento di obiettivi di rendimento trimestrali invece che puntare su una redditività e una crescita sul più lungo periodo".

"Nel settore delle imprese, è indispensabile porre fine alle lotte interne alle aziende affermate, alla miopia dei dirigenti che sanno di avere soltanto un numero limitato di anni nei quali raggranellare il massimo dei bonus che riescono a mettere insieme. Una migliore vigilanza sul comportamento delle aziende da parte dei consigli di amministrazione e degli enti di regolamentazione del governo è pertanto fondamentale anch'essa".

"In ogni caso molto poco di ciò si concretizzerà, e tutte le riforme pubbliche potranno essere messe seriamente a repentaglio, qualora venisse a mancare un più ampio avallo della vecchia etica dell'inventiva, della ricerca, della sperimentazione e della scoperta. È proprio quella l'etica che ha gettato le premesse per il grande benessere della classe media americana negli anni del dopoguerra".

Nell'economia  globalizzata le superstar USA dominano il mercato. Ma molte piccole e medie imprese statunitensi sono rimaste indietro, non innovano, non sono competitive, sono costrette ad una svalutazione degli asset, dipendenti compresi. Il cattivo intervento pubblico è controproducente. Occorre piuttosto ripristinare la consapevolezza che non esistono pasti gratis, che il rischio è parte ineliminabile dell'impresa, che solo il nuovo costituisce una valida via per il futuro. Dunque non falsa sicurezza per i piccoli e medi imprenditori e per la classe media, ma più solida diffusione dell'etica della responsabilità e dell'innovazione.  

mercoledì 24 luglio 2013

Riduzione dello stock del debito pubblico. La meno pericolosa delle illusioni?



Matteo Rigamonti su Italia Oggi del 24 luglio 2013 ha chiesto a Carlo Stagnaro, direttore ricerche e studi dell'Istituto Bruno Leoni, una ricetta per ridurre lo stock del debito pubblico italiano.
Così Stagnaro:

"...Fino a tre o quattro anni fa, infatti, come in tutto il periodo pre-crisi del resto, la parte maggioritaria del debito era detenuta da investitori stranieri; diciamo che il 60 per cento del debito pubblico era in mani estere e il 40 per cento in mani italiane. Ora questo rapporto si è invertito, con il 55 per cento del debito pubblico detenuto da investitori italiani e il 45 per cento da stranieri".

"...tutto l'aumento di stock del debito intercorso in questi anni di crisi è stato essenzialmente acquistato dalle banche italiane, che se ne sono fatte carico per compensare la riduzione del debito prima in mano estera".

"Grazie a questa nuova composizione del debito, un eventuale default del paese sarebbe in un certo senso meno costoso, perché più facilmente mascherabile".

"...se il debito è in mano nostra basterebbe non pagare le famiglie italiane, oppure si potrebbe scongiurare il default con una patrimoniale o elevando la pressione fiscale, lasciando tutto apparentemente invariato da un punto di vista meramente contabile. Peccato però che così non torneremmo più a crescere".

"Si tratta di aggredire lo stock di debito alla sua base, alimentando al tempo stesso la crescita del Pil attraverso liberalizzazione dei servizi pubblici e privatizzazioni su larga scala. L'Istituto Bruno Leoni ha stimato che così in 5 anni si potrebbero tagliare almeno 150 miliardi di euro di debito pubblico. Poi si dovrebbero abbassare le tasse sul lavoro e sulle imprese, in particolare l'Irap e l'Irpef, per rilanciare la crescita, tagliare la spesa pubblica e riformare la pubblica amministrazione a partire dalla giustizia".

Tutto condivisibile, con alcune dolorose considerazioni, sia pure senza pretesa di precisione assoluta. La spesa pubblica corrente italiana ammonta oggi a circa 800 miliardi, più della metà del PIL. Il servizio del debito pubblico (interessi) grava su tale spesa per 80/100 miliardi. Lo stock del debito ammonta a circa 2.000 miliardi. Ridurlo di 150 miliardi, meno del 10%, comporta una riduzione della spesa per interessi probabilmente inferiore al 10% = meno di 10 miliardi su una spesa corrente di 800 miliardi. Anche calcolando un conseguente minore tasso applicato, è del tutto evidente che con riduzioni della spesa per il servizio del debito di questo ammontare non è possibile diminuire adeguatamente la pressione fiscale. Servono infatti tagli alla spesa pubblica corrente di almeno 200/250 miliardi.
Come Stagnaro ha auspicato "si dovrebbero abbassare le tasse sul lavoro e sulle imprese, in particolare l'Irap e l'Irpef, per rilanciare la crescita, tagliare la spesa pubblica e riformare la pubblica amministrazione a partire dalla giustizia". Ma la spesa pubblica corrente è in maggioranza da riferire a pensioni, assistenza sociale, sanità e istruzione. Senza riforme strutturali in questi settori delicatissimi, decisivi per il consenso elettorale, non si potrà ridurre a sufficienza la pressione fiscale. Stagnaro ha proposto liberalizzazioni dei servizi pubblici e privatizzazioni su larga scala, utili per la crescita del PIL e per qualche riduzione della spesa pubblica. Una realistica via d'uscita resta però da definire. I suggestivi progetti di taglio dello stock del debito non bastano certo a metterci sulla strada giusta. 

martedì 16 luglio 2013

Democrazia islamica.



L'insigne islamista Bernard Lewis ha chiuso il suo La crisi dell'Islam con queste parole di misurata speranza:

"Lo studio della storia islamica e della vasta e ricca letteratura politica islamica conforta la convinzione che sia realmente possibile  far nascere istituzioni democratiche, non necessariamente nel senso che noi occidentali diamo a questo abusato termine, ma in un senso che derivi dalla loro storia e dalla loro cultura e che garantisca a modo loro un sistema di governo condizionato dalla legge, da forme di consultazione e dalla trasparenza, in una società civile e umana. Basta quello che c'è, nella cultura tradizionale dell'Islam da una parte e nell'esperienza moderna dei popoli musulmani dall'altra, per avere una base da cui procedere verso la libertà, nel vero senso della parola" (B. LEWIS, La crisi dell'Islam, 2004, p.148).

Ma quale influenza ha questo Islam capace di condurre a una società civile e umana? Oggi il tentativo di dare uno sbocco democratico all'Islam politico pare non riuscito o, quantomeno, segnato da difficoltà gravissime. I governi occidentali, compreso quello statunitense, sembrano incapaci di fronteggiare una situazione sempre più pericolosa. Roberto Toscano su La Stampa del 14 luglio 2013 ne ha dato conto con efficace sintesi:

"Obama ha preso atto di un fatto ovvio ma che in precedenza gli americani avevano preferito rimuovere: che laddove le popolazioni accolgono maggioritariamente il messaggio islamista la democrazia può solo essere islamica. Islamica moderata, auspicabilmente. Un’ipotesi che l’esperienza della Turchia sembrava confortare, con la sua combinazione di pluripartitismo, forte sviluppo economico, buoni rapporti con gli Stati Uniti. 
Questa interpretazione risulta oggi in crisi profonda, e a Washington regnano non solo lo sconcerto, ma anche un’evidente confusione". 

" Quello che è certo è che nessuno a Washington può pensare che, nonostante lo scontento e la delusione per la cattiva prova di un anno di governo islamista, l’islam politico egiziano sia finito, e tanto meno che si possa immaginare che le sparute e divise schiere dei laici filo-occidentali possano aspirare di costituire una forza politica capace di fornire una terza alternativa fra militari da una parte e islamisti dall’altra. 
Per Obama, quindi, pessime notizie da Piazza Tahrir, ma anche da Piazza Taksim, dato che un altro tassello dell’opzione islamista moderata, quello turco, mostra anch’esso tutti i suoi limiti, nonostante la ben maggiore solidità dello stato turco e del governo Erdogan. Anche in Turchia, come in Egitto, gli «islamisti moderati» si sono rivelati tutt’altro che moderati nella loro concezione e gestione del potere, caratterizzate da pesanti elementi di autoritarismo".  

Vittorio Emanuele Parsi su Il Sole 24 Ore del 10 luglio 2013 critica l'approccio interpretativo prevalente:

"È incredibile come si sia progressivamente affermato in Occidente un pregiudizio di matrice culturalista, che ha voluto vedere nelle forme di "islamismo moderato" una strada alternativa per l'instaurazione della democrazia nelle società a maggioranza musulmana. Ma questa presunta "scorciatoia" non è altro che un cul de sac, perché ovunque arrivino al potere i fondamentalisti religiosi prima o poi tentano di realizzare la propria agenda, di imporre i propri valori ritenuti ovviamente "assoluti" e "non negoziabili"".

"Quella parte della popolazione egiziana scesa in piazza per sfiduciare Morsi ci ricorda la necessità che la fede continui ad essere una scelta individuale, non un fattore di divisione politica. Riafferma qualcosa la cui importanza tendiamo a scordare persino in Occidente: cioè la supremazia del concetto repubblicano di cittadinanza su quello comunitario di fedele. Non lo fa però aggredendo frontalmente la premessa, ovvero la necessaria separazione e autonomia tra ambito religioso e politico".

Nei paesi islamici la transizione a istituzioni fondatamente riconducibili allo stato di diritto e alla libera democrazia è oggi certamente ostacolata anche dalla crisi economica internazionale. Quando rispondere adeguatamente alle richieste di pane e lavoro è comunque difficile, risulta più arduo il concreto passaggio a istituzioni libere e democratiche, non schiacciate dalla piazza, che realizzino la subordinazione alla legge della pubblica amministrazione.
Ma, diversamente da quanto sembra pensare il professor Parsi, le difficoltà decisive sono costituite dalla troppo debole distinzione tra ambito politico e religioso ma soprattutto dalla troppo forte propensione a far prevalere l'istanza della verità su quella della libertà che caratterizzano proprio la componente tradizionalmente egemone dell'Islam.
Le religioni non sono tutte uguali. Gli stessi fondamentalismi non sono uguali tra loro. La libertà occidentale si è affermata in Inghilterra, dove il monarca è anche il capo della Chiesa anglicana. Solide democrazie come Olanda, Svizzera e gli stessi Stati Uniti d'America si sono sviluppate in ambiti socio-culturali contraddistinti dalla forza del fondamentalismo cristiano. Così i grandi precursori  del pensiero liberale:

Tocqueville (La Democrazia in America,  Libro Terzo, Parte Prima, Capitolo Quinto):

"....nel Corano non solo dottrine religiose, ma anche massime politiche, leggi civili e criminali e teorie scientifiche. Il Vangelo, invece, parla solo dei rapporti generali degli uomini con Dio e fra loro. Al di fuori di questo non insegna nulla e non obbliga a credere nulla. Questo soltanto, fra mille altre ragioni, basta a mostrare che la prima di quelle due religioni non può dominare a lungo in tempi di civiltà e di democrazia, mentre la seconda è destinata a regnare anche in quei secoli come in tutti gli altri".

Montesquieu (Lo Spirito delle leggi, Libro Ventiquattresimo, Capitoli Quarto e terzo):

"Per quanto riguarda il carattere della religione cristiana e quello della religione musulmana, si deve senz'altro abbracciare l'una e respingere l'altra: perché per noi è molto più evidente che una religione debba addolcire i costumi degli uomini, di quanto non sia evidente che una religione è la vera.
E' una sciagura per la natura umana che la religione sia data da un conquistatore. La religione maomettana, la quale non parla che di spada, influisce ancora sugli uomini con quello spirito distruttore che l'ha fondata".

"La religione cristiana è lontana dal dispotismo puro: infatti, essendo la mitezza tanto raccomandata nel Vangelo, essa si oppone alla collera dispotica con cui il principe si farebbe giustizia e metterebbe in pratica le sue crudeltà".

"...dobbiamo al cristianesimo, nel governo un certo diritto politico, e nella guerra un certo diritto delle genti, di cui l'umanità non potrebbe mai essere abbastanza riconoscente."

Le religioni insomma non producono le stesse conseguenze, anche sulle istituzioni.

martedì 9 luglio 2013

Europa e Stati Uniti. Le ragioni di un' alleanza.





La democrazia liberale e cristiana descritta da Tocqueville ne La Democrazia in America è uno dei frutti migliori della vecchia Europa. Ma la stessa Europa ha prodotto anche i grandi totalitarismi che hanno insanguinato il Novecento. Quando ha dovuto difendersi dai suoi figli perversi gli Stati Uniti d'America hanno fornito l'aiuto decisivo. E' oggi necessario ripensare e ricostruire il rapporto tra le due sponde dell'Atlantico. Angelo Panebianco sul Corriere della Sera del 5 luglio 2013 e Vittorio Emanuele Parsi su Il Sole 24 Ore del 30 giugno 2013 espongono vecchie e nuove ragioni per ridare slancio alla sperimentata collaborazione.

Scrive il professor Parsi:

"La peculiare natura della Guerra fredda aveva finito con l'esaltare la dimensione della sicurezza nei rapporti tra le due sponde dell'Atlantico, lasciando quasi sullo sfondo l'ambito economico e culturale che avevano consentito la costruzione di una relazione tanto salda in campo politico e strategico".
"...così non può certo stupire che proprio attraverso l'Atlantico tornino a intrecciarsi i destini delle due più grandi economie di mercato planetarie che condividono lo stesso sistema di istituzioni democratiche e di valori liberali".

E il professor Panebianco:

"... l'accordo di libero scambio fra Stati Uniti e Europa, la Ttip (Transatlantic trade and investment partnership) ..., in prospettiva, potrebbe dare un salutare colpo di frusta all'economia euro-atlantica ma anche, forse, contribuire a falsificare le più cupe profezie sul «declino dell'Occidente» e l'inarrestabile ascesa dell'Oriente".
"I probabili effetti economici positivi avrebbero potenti ripercussioni politiche. L'area euro-atlantica riacquisterebbe, nei tanti tavoli ove deve trattare con la Cina, con la Russia e le altre potenze già emerse o emergenti, una forza che negli ultimi anni ha perduto. 
Si consideri anche un altro aspetto. Obama è il presidente degli Stati Uniti culturalmente più lontano dall'Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale. Ma anche lui ha constatato quanto inconcludente sia stata una politica che, mentre snobbava i vecchi alleati europei, privilegiava il rapporto con le potenze autoritarie (Cina) o semi-autoritarie (Russia) nella speranza di stabilire durevoli relazioni di cooperazione e di fiducia.
Giocava l'errata convinzione che la natura dei regimi politici (o dei movimenti politici: vedi l'atteggiamento verso i Fratelli Musulmani egiziani) sia irrilevante ai fini della cooperazione internazionale. Ma non lo è".

" ...se Obama, alla fine, ha scoperto che gli Stati Uniti non possono fare a meno dell'Europa, di sicuro gli europei non possono fare a meno dell'America. Per tre ragioni. La prima ha a che fare con la sicurezza: senza la cooperazione americana, l'Europa non è in grado di proteggersi dalle minacce (terroristiche in primo luogo). La seconda è che l'Europa, contando sulle proprie sole forze, non ha saputo fare di meglio che incartarsi politicamente rischiando l'autodistruzione. Se la storia degli ultimi sessanta anni insegna qualcosa, essa mostra che quando la comunità euro-atlantica è coesa anche l'integrazione europea si rafforza. Quando i legami euro-atlantici si sfilacciano, i rapporti interni alla Unione europea seguono la stessa sorte. 
La terza ragione è geopolitica. Nel mondo si giocano complesse partite per il potere e l'egemonia internazionale. Rilanciare la comunità euroatlantica, facendo leva sull'accordo per il libero scambio, è, anche per l'Europa, il solo modo disponibile per partecipare a quelle partite con qualche buona carta in mano".

Resta da sottolineare un aspetto non secondario dell'alleanza militare: la possibilità di ridurre le spese militari. L'integrazione delle forze armate nazionali nell'organizzazione euroatlantica consente di evitare duplicazioni, di contenere il costo dei sistemi d'arma, di razionalizzare l' addestramento. Uno strumento efficace per costruire la comune sicurezza senza sovraccaricare le sfiancate finanze pubbliche.

martedì 2 luglio 2013

Geopolitica. Evoluzione delle risorse energetiche.




Leonardo Maugeri è un ex dirigente dell'ENI e attualmente insegna economia e geopolitica dell’energia all’Università di Harvard. Sua è una importante ricerca sul petrolio di scisto estratto negli Stati Uniti. Secondo Maugeri gli USA possono produrne cinque milioni di barili al giorno entro il 2017, se il prezzo del petrolio non cala drasticamente, e diventare in pochi anni il più grande produttore mondiale di tale fonte di energia. 
L'economista italiano sottolinea che il rapido incremento della produzione da scisto realizzato negli Stati Uniti è difficilmente replicabile in altre parti del mondo. Solo qui sono oggi presenti le condizioni necessarie: caratteristiche del suolo e del territorio, assetto imprenditoriale, mentalità e legislazione. Il suo lavoro pone inoltre in rilievo le possibili conseguenze geopolitiche di tale evoluzione. I produttori americani, mediorientali e nordafricani dovranno infatti trovare nuove soluzioni produttive e commerciali.
Della nuova capacità estrattiva statunitense, che si estende al gas di scisto, e dei suoi effetti geopolitici si è ormai ben consapevoli anche in Russia. Olga Khvostunova su Kommersant e su Russia Oggi del 1 luglio 2013 scrive:

"A metà aprile 2013, gli esperti dell’Istituto di Studi Energetici dell’Accademia Russa delle Scienze e il Centro di Analisi del governo della Federazione Russa hanno pubblicato un documento importante in più pagine, intitolato “Previsioni di sviluppo del settore energetico in Russia e nel mondo fino al 2040”, nel quale si analizzano le principali tendenze di sviluppo del settore energetico globale e i possibili rischi per il settore russo dei combustibili e dell’energia e per l’economia in generale".

"Nei prossimi decenni i rappresentanti più influenti del mercato del gas, a parte la Russia, saranno Stati Uniti e Cina. Gli esperti dell’Istituto di Studi Energetici dell’Accademia Russa delle Scienze prevedono che la Russia manterrà la sua leadership nell’estrazione ed esportazione di gas, ma che la sua partecipazione a progetti costosi, che stanno diventando sempre più marginali in tutti i mercati di esportazione, renderà il Paese ostaggio delle fluttuazioni del mercato, indebolendo la sua posizione geopolitica".

Ilya Dashkovsky su Russia Oggi del 28 giugno 2013 scrive:

"Il basso livello di disoccupazione nella Russia di oggi è in realtà la continuazione delle tradizioni sovietiche. I posti di lavoro vengono pagati dal bilancio. “Il livello esistente dei prezzi per il petrolio e la struttura economica che vige oggi, per la quale le entrate derivanti dal petrolio sono regolate dall’economia, permettono di garantire un alto tasso di occupazione. C’è anche da considerare il basso livello degli stipendi. A tali condizioni possiamo praticamente fornire un’occupazione generalizzata”, ritiene Sergei Smirnov, direttore dell’Istituto di Politica sociale e dei Programmi socio-economici dell’Alta Scuola Economica di Mosca. Si trova impiego nelle aziende e negli enti statali e in altre organizzazioni governative che possono anche non preoccuparsi dell’efficienza del lavoro, pur pagando stipendi piuttosto alti grazie alla possibilità di attingere al bilancio".

"Secondo le previsioni di Sergei Smirnov, nei prossimi due anni la situazione rimarrà stabile. Anche la prossima crisi, che in base alle proiezioni del Ministero dell’Economia e dello Sviluppo è attesa per il 2018, non cambierà lo stato delle cose. Il governo dovrà affrontare, come in passato, l’ennesimo aumento di disoccupazione a spese delle entrate derivanti dal petrolio".

La nuova produzione energetica statunitense, mentre rappresenta ormai il più importante "stimolo" per l'economia del paese, può nel medio periodo creare problemi alla Russia, che disporrà probabilmente di meno risorse per compensare le insufficienti competitività e produttività. Ma occorre prestare attenzione alla logica paradossale che contraddistingue questi sviluppi. I successi in ambito energetico potrebbero infatti mascherare i ritardi e i vizi del sistema USA, nel contempo spingendo la Russia a ridurre i propri.


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