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giovedì 27 settembre 2012

Un nuovo welfare per tornare a crescere.



"Ci sono voluti decenni prima che ci accorgessimo che occorreva adeguare l'età di pensionamento all'allungarsi della vita media: nel frattempo la spesa per pensioni è cresciuta dall'8 per cento del Prodotto interno lordo (Pil) nel 1970 a quasi il 17 per cento oggi.
L'allungamento della vita ha anche prodotto un aumento delle spese per la salute. Un anziano oltre i 75 anni costa al sistema sanitario ordini di grandezza superiori rispetto a persone di mezza età. Risultato, la nostra spesa sanitaria oggi sfiora il 10 per cento del Pil. Insieme, sanità e pensioni costano il 27 per cento, 10 punti più di quanto costavano quando il nostro Stato sociale italiano fu concepito".

"A questo aumento straordinario non abbiamo fatto fronte riducendo altre spese (ad esempio quella per dipendenti pubblici, che era il 10 per cento del Pil 30 anni fa ed è rimasta il 10 oggi), bensì solo con un aumento della pressione fiscale: dal 33 per cento quarant'anni fa al 48 oggi.
È questo uno dei motivi per cui abbiamo smesso di crescere. Avevamo uno Stato calibrato per una popolazione relativamente giovane; poi la vita si è allungata, le spese sono salite, ma lo Stato è rimasto sostanzialmente lo stesso, richiedendo una pressione fiscale di 15 punti più elevata".

"Dobbiamo ripensare più profondamente alla struttura del nostro Stato sociale. Per esempio, non è possibile fornire servizi sanitari gratuiti a tutti senza distinzione di reddito. Che senso ha tassare metà del reddito delle fasce più alte per poi restituire loro servizi gratuiti? Meglio che li paghino e contemporaneamente che le loro aliquote vengano ridotte".

"Insomma, il nostro Stato sociale si è trasformato in una macchina che tassa le classi medio-alte e fornisce servizi non solo ai meno abbienti (com'è giusto che sia) ma anche alle stesse classi a reddito medio-alto. Questo giro di conto, con aliquote alte, scoraggia il lavoro e la produzione".

Alesina e Giavazzi sul Corriere della Sera del 23 settembre 2012 affrontano così una questione decisiva: lo Stato sociale italiano è sostenibile e compatibile con una crescita economica non irrilevante? I numeri davvero spaventano. La spesa pubblica italiana ammonta  a circa 800 miliardi di euro, oltre la metà di un PIL che ormai non supera 1.500 miliardi di euro. Se non viene abbattuta, dovendosi raggiungere il pareggio del bilancio la pressione fiscale reale non potrà scendere molto sotto il 50% del PIL.
E' del tutto evidente che la cessione di parte del patrimonio pubblico, con la destinazione del corrispettivo alla riduzione dello stock del debito pubblico, non appare risolutiva. Tale misura non solo è irrealizzabile in breve tempo, ma soprattutto incide sulla spesa corrente diminuendo, forse, il peso del servizio del debito pubblico. Un risparmio certamente insufficiente. Per abbattere la spesa pubblica e quindi abbassare adeguatamente la pressione fiscale bisogna ristrutturare i suoi settori più ampi, che corrispondono appunto al welfare e alla spesa per dipendenti pubblici.
Ridisegnare il welfare italiano nel senso indicato dai professori Alesina e Giavazzi consentirebbe assai probabilmente di ridurre e redistribuire il carico fiscale, in modo da ripristinare una delle necessarie premesse della crescita. Ma si rivelerebbe vantaggioso anche in un' altra fondamentale prospettiva. La scelta diretta dei fornitori di servizi da parte dei fruitori, con un' ampia e variegata offerta pubblica e privata, premiando il merito e la qualità, contribuirebbe significativamente a incrementare l' efficienza degli operatori e la competitività dell' intero sistema paese.
Ci sono ostacoli che si frappongono all' attuazione di questa riforma epocale. Essa collide con la consolidata mentalità statalista, conservatrice e illiberale di una parte rilevante del ceto medio italiano. Bisogna poi menzionare la tradizionale incapacità di far emergere ed accertare i redditi reali. Se  non si pone rimedio a questa inadeguatezza il progetto è destinato a provocare resistenze in larga misura condivisibili e a determinare conseguenze inaccettabili.
E' inoltre necessaria un' attenta disciplina pubblica dell' offerta previdenziale ed assicurativa  privata. Basti pensare all' assicurazione sanitaria di chi già è affetto da gravi malattie o è portatore di importanti fattori di rischio. In questi casi bisogna rendere sempre possibile l' accesso allo strumento assicurativo privato, con la previsione di un premio sostenibile.
Si deve infine accennare a un' altra questione fondamentale. Occorre fare in modo che la tutela pubblica di chi per reddito ottiene servizi gratuiti si estenda alla dignità che accomuna tutti i cittadini secondo la Costituzione. Si deve costruire uno Stato sociale capace di garantire i diritti costituzionali dei più svantaggiati.

mercoledì 19 settembre 2012

Mitt Romney su Palestina e sostenitori di Obama. Ruvide verità?

Il 17 maggio Mitt Romney, candidato alla presidenza degli Stati Uniti, ha pronunciato un discorso durante una cena organizzata per raccogliere fondi a Boca Raton in FloridaDue punti meritano particolare attenzione. Romney considera assai improbabile la pace tra Israeliani e Palestinesi, il cui vero obiettivo sarebbe l'eliminazione di Israele. Duro anche il giudizio sugli elettori che, a suo parere, non pagano le tasse e non si assumono la responsabilità della propria vita. Essi rappresenterebbero il 47% dell'elettorato ed il loro sostegno a Obama sarebbe per tali ragioni irreversibile.
Le parole del candidato alla presidenza trattano temi rilevanti. La questione palestinese rappresenta il grande alibi dei fondamentalisti islamici, destinato verosimilmente a durare a lungo. Infatti nessun dirigente palestinese, neppure il più moderato, può riconoscere il diritto ad esistere di Israele come stato ebraico. Generazioni di bambini palestinesi sono state cresciute nell'odio per gli ebrei ed abituate a considerare legittimo ed irrinunciabile il proposito del rientro in Israele di tutti i profughi. Inoltre nessun musulmano, anche dalla tiepida fede, può accettare sinceramente e definitivamente che una terra musulmana sia lasciata alla sovranità degli infedeli.
Dunque tutti i dirigenti palestinesi, nessuno escluso, sia pure con formule ed atti diversi, rifiuteranno le richieste israeliane sul carattere ebraico dello stato israeliano. Accettandole rinunzierebbero definitivamente al progetto, per loro irrinunciabile, di riprendere la lotta per l'estinzione dello stato ebraico quando i rapporti di forza, anche solo per ragioni demografiche, risultassero favorevoli.
Romney prende dunque brutalmente atto della realtà. Diversissimo l'approccio dell'amministrazione Obama. Il 20 agosto 2010 il segretario di stato Hillary Clinton formulò una previsione sulle trattative tra Palestinesi e Israeliani: entro un anno avrebbero prodotto risultati decisivi. Che purtroppo sono mancati.
Assai importanti anche le considerazioni sugli elettori di Obama. C'è in esse una parte della strategia elettorale del candidato repubblicano, che sa di non poter recuperare quel segmento dell'opinione pubblica americana. Ma c'è anche un abbozzo di analisi socio-culturale che merita di essere sviluppato attentamente. Le ripetute ristrutturazioni che segnano l'economia USA hanno incrementato produttività e competitività, senza ridurre apprezzabilmente la disoccupazione e la non occupazione. Molti, che non possono o non vogliono  adattarsi alla nuova situazione, confidano sempre più nel sostegno pubblico. E' un'America lontana da quella che il Tea Party ha riproposto all'attenzione del mondo. Quale prevarrà? Presto gli elettori statunitensi sceglieranno tra due visioni distanti e contrapposte quella che guiderà gli USA verso il futuro.


mercoledì 12 settembre 2012

Salvare l'euro non basta. La nuova normalità.





Su Il Sole 24 Ore del 7 settembre 2012 Jean-Claude Trichet, ex presidente della Banca centrale europea, ha così delineato i caratteri ed i problemi dell'Eurozona:

"Come gli individui di una società, i paesi dell’Eurozona sono indipendenti e interdipendenti, e possono incidere gli uni sugli altri in modo sia positivo che negativo. Una buona governance implica che gli Stati membri e le istituzioni UE adempiano alle proprie responsabilità. Unione economica e monetaria significa, innanzitutto, proprio questo: due unioni, una sul piano monetario, l’altra su quello economico".

"... l'euro da solo non spiega perché l'Eurozona sia diventata il grande malato dell'economia globale. Per comprendere il vero motivo, occorre riflettere sulla debolezza dell'unione economica dell'Europa".

"Tanto per cominciare, il Patto di stabilità e di crescita, teso a garantire politiche fiscali efficaci all'interno della zona euro, non è mai stato attuato in modo corretto".

"In aggiunta, la governance dell'Eurozona non includeva il monitoraggio e la sorveglianza degli indicatori di competitività, vale a dire andamento dei prezzi nominali e dei costi negli Stati membri, e squilibri esterni dei paesi nell'ambito della zona euro".

"Una terza fonte di debolezza è che, con l'entrata in vigore dell'euro, non furono previsti strumenti per la gestione delle crisi".

"Infine, l'alta correlazione tra la capacità di credito delle banche commerciali di un dato Paese e quella del suo governo crea un'ulteriore causa di vulnerabilità, che nell'Eurozona è particolarmente dannosa".

Porre rimedio a questi errori scioglierà tutti i maggiori nodi della crisi? Sembra proprio di no. Trichet pecca di eurocentrismo, trascurando quegli aspetti che possono trovare spiegazione soltanto esaminando la cosiddetta globalizzazione ed i suoi effetti.

Discutendo le vicende dell'Alcoa Luca Ricolfi, su La Stampa dell' 11 settembre 2012, ammette:

 "La realtà è che produrre in Europa è sempre meno conveniente". 

Gli indicatori di competitività e gli squilibri esterni sono rilevanti non solo nell'ambito dell'Eurozona ma anche nei confronti delle economie extraeuropee. Gianni Riotta, su La Stampa del 12 settembre 2012, presenta la nuova normalità con queste parole:

"Raghuram Rajan, professore dell’università di Chicago e ora consigliere economico principale del governo indiano, in un colloquio sull’ultimo numero della rivista Arcvision, spiega perché non si placa lo stress da crisi: abbiamo compreso, infine, che non viviamo quella che negli anni del boom i giornali chiamavano «congiuntura», ciclo effimero di recessione. E’ piuttosto un «new normal», una nuova realtà, i sussidi su cui contavamo per tenere su aziende e agricolture improduttive, la burocrazia che si poteva sempre dilatare per assumere raccomandati poco qualificati, la spesa pubblica che nutriva città e regioni, la svalutazione che piazzava i nostri elettrodomestici all’estero e le dogane che imponevano in Italia prodotti scadenti ma di monopolio, sono finiti, per sempre.
Auto, servizi, cure mediche, scuola, assicurazioni e pensioni, beni di lusso e confezioni del supermercato, ogni momento del nostro lavoro, dall’arte, alla scienza, al cibo, vivrà di regole e standard mondiali. O siamo capaci di dargli la stessa qualità top che il mercato richiede, e di produrlo nei tempi e ai prezzi che il mondo pagherà, o semplicemente quel bene non sarà più prodotto in Italia (o Francia, India, Messico) e i lavoratori che se ne occupavano resteranno a mani vuote".

Si prospetta dunque un lungo periodo di difficoltà. Tanto più lungo quanto più risulterà arduo metabolizzare culturalmente e politicamente il cambiamento. Intellettuali, politici, sindacalisti e agenzie educative sono chiamati ad uno straordinario esercizio di responsabilità e lungimiranza. Mentre una risoluta lotta ai privilegi ed alle rendite di posizione ingiustificate deve accompagnare le indispensabili riforme strutturali, destinate a creare allarme sociale.





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