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domenica 26 giugno 2011

Il diritto di visita negli accordi internazionali per l'abolizione della schiavitù. Dal Congresso di Vienna (1815) al Trattato di Londra del 1841.

E' secolare la storia degli accordi internazionali che prevedono l'uso della forza militare per fini umanitari. Già il Congresso di Vienna nel 1815 condannò la schiavitù e la tratta degli schiavi in quanto contrarie al diritto delle genti e alla moralità internazionale.
Assume spesso i toni della polemica la discussione sulla matrice ideale dell'abolizionismo. Pare prevalente l'influenza del Cristianesimo. Pur presentando anche tratti contraddittori, il Magistero della Chiesa cattolica e la religiosità cristiana protestante prepararono largamente la strada all'abolizione della schiavitù. Più incerto sembra il contributo degli illuministi e dei precursori dell'Illuminismo: Locke e Voltaire non erano abolizionisti e investirono nel commercio degli schiavi.
Il programma abolizionista adottato a Vienna fu parzialmente attuato con accordi tra le grandi potenze. Quello del 1831 già attribuiva alle parti contraenti, Gran Bretagna e Francia, reciprocamente, il cosiddetto diritto di visita. La marina militare di ciascuna delle due potenze in base al trattato poteva "visitare" la navi dell'altra per controllare che non trasportassero schiavi.
Il Trattato di Londra del 1841, stipulato anche da Austria, Prussia e Russia, estese e precisò l'utilizzo di questo strumento. Forti resistenze in Francia spinsero però Guizot a differirne la ratifica. Prevalsero sentimenti nazionalisti ma non mancarono rilievi sostenuti da argomentazioni degne di particolare attenzione.
Tocqueville, eletto alla Camera nel 1839, abolizionista convinto, componente della commissione parlamentare chiamata a pronunciarsi sul tema, dimostrò che il diritto di visita aumentava spesso le crudeltà subite dai prigionieri, gettati in mare per sfuggire alla sorveglianza. Propose in alternativa un'azione delle potenze europee diretta ad eliminare i mercati degli schiavi.
Proprio nel 1839 è ambientato il bel film di Spielberg Amistad, con Anthony Hopkins.



Un modo efficace e suggestivo per presentare ai nostri giovani un problema che mobilitò coscienze e scatenò conflitti.


venerdì 17 giugno 2011

Giustizia lenta.


"ROMA - La giunta distrettuale di Roma dell'Associazione nazionale magistrati lancia l'allarme: il tribunale di Roma rischia la paralisi. "La profonda crisi di risorse umane e materiali attuale sta conducendo il tribunale di Roma al rischio paralisi"
"Per l'Anm la conclusione è una sola: "Mentre si favoleggia di una informatizzazione degli uffici già in gran parte avvenuta (e che gli operatori della Giustizia sanno essere invece, tuttora, nel libro dei sogni), o si discute della riforma costituzionale della giurisdizione, l'unica riforma epocale già in atto è quella di una riduzione progressiva della giurisdizione quotidianamente resa, della chiusura di uffici e servizi per assenza di personale e di risorse materiali".

La giustizia italiana è in profonda crisi ormai da tanti anni. Ma quali sono cause e responsabilità? Sempre sul Corriere Della Sera i professori Alberto Alesina e Francesco Giavazzi scrivono:

"La giustizia civile in Italia non solo è lenta: i suoi tempi si stanno ancor più allungando. Negli anni Ottanta una procedura fallimentare durava, in media, poco più di 4 anni, ora ne dura più di 9 (dati Istat). E così le aziende trovano sempre maggiori ostacoli alla crescita. Che fare? Scartiamo subito la risposta ovvia e sbagliata: che si dovrebbe spendere di più per la giustizia. La Commissione europea sull'efficienza della giustizia (un organo del Consiglio d'Europa) calcola che lo Stato italiano spende per la giustizia 70 euro per abitante (dati relativi al 2008). La spesa in Francia è 58 euro per abitante. E non perché la Francia abbia molti meno giudici e cancellieri. I numeri sono simili: i giudici sono 9 per 100mila abitanti in Francia e 10 in Italia; i dipendenti dei tribunali con qualifica diversa da giudice sono 4 per ciascun giudice in Italia, 3 in Francia. Ciononostante la lunghezza media di un procedimento civile è la metà in Francia che in Italia. I giudici italiani sono anche pagati un po' meglio: lo stipendio base è superiore del 20% circa al corrispondente stipendio francese".

Da considerare anche il dato seguente, citato dallo stesso ministro Alfano:

"La sola immissione di risorse economiche non risolve alcun profilo di inefficienza'', spiega il Guardasigilli, citando il caso del settore dell'informatica giudiziaria, dove, dal 1996 al 2007, sono stati spesi complessivamente ''piu' di 2 miliardi di euro'', anche se ''nello stesso periodo l'arretrato sia nel settore civile che nel settore penale e' aumentato inesorabilmente".


"La situazione di partenza degli uffici giudiziari italiani non era certo delle migliori: un "bricolage informatico", come lo ha descritto il Guardasigilli, dove ognuno organizzava da sé il proprio programma di informatizzazione o, per dirla con le parole del ministro Brunetta, un apparato "balcanizzato", dove ogni ufficio aveva il suo sistema e conseguentemente il suo contratto di assistenza, con costi molto variabili. E la giungla dei costi, si sa, crea inevitabilmente sprechi di risorse. "Interrompere la balcanizzazione e creare un contratto di servizio unico per l'assistenza informatica consentirà, come è già avvenuto per le intercettazioni, di razionalizzare i costi e di diminuirli".

Ricordiamo poi le importanti disposizioni del D. Lgs. 25 luglio 2006, n. 240 che attribuiscono ai magistrati capi degli uffici giudiziari funzioni di indirizzo anche in materia amministrativa, pur nel rispetto dei compiti dei dirigenti amministrativi:

Art. 2 Gestione delle risorse umane:

"1. Il dirigente amministrativo preposto all'ufficio giudiziario e' responsabile della gestione del personale amministrativo, da attuare in coerenza con gli indirizzi del magistrato capo dell'ufficio e con il programma annuale delle attività di cui all'articolo 4".


Esaminiamo infine con attenzione questi dati sulla durata dei processi. Relativi alla sola materia civile, mostrano una variabilità da distretto a distretto riscontrabile anche nel settore penale, in parte non spiegabile guardando alle sole caratteristiche degli illeciti più diffusi nel territorio.

Da queste premesse non pare possibile trarre conclusioni univoche. La situazione, anche sotto il profilo delle responsabilità, appare difficile da districare. Si tratta del resto di un ambito dove la battaglia politico-culturale senza esclusione di colpi in atto nel nostro paese produce danni gravissimi. Ed a pagare sono soprattutto i più deboli.



mercoledì 1 giugno 2011

Debito e crescita. La soluzione non è a portata di mano.

Sul Corriere della Sera Dario Di Vico propone un'analisi del discorso del governatore uscente della Banca d'Italia Mario Draghi. Diversi i rilievi mossi dal governatore. Il governo è accusato di aver realizzato tagli lineari alla spesa. Tagli selettivi, uniti al recupero dell'evasione, avrebbero invece consentito di diminuire la pressione fiscale su lavoratori e imprese, accrescendo nel contempo la produttività del sistema.
La critica dei tagli lineari ricorre spesso, ma pare non tener conto a sufficienza delle caratteristiche della spesa pubblica italiana, rappresentata prevalentemente dalla spesa sanitaria, dalle retribuzioni dei dipendenti pubblici e dalla spesa previdenziale.
Alla sanità i tagli cosiddetti intelligenti gioverebbero grandemente e rilevanti sarebbero i risparmi. Ma qui è decisiva la competenza delle regioni. La loro gestione dovrebbe dare attuazione ai buoni propositi espressi a livello centrale.
Altrettanto difficile è intervenire selettivamente sul numero e soprattutto sulle retribuzioni dei dipendenti pubblici per risparmiare e aumentare la produttività. La spesa previdenziale poi, per sua stessa natura, mal si presta ad interventi di questo tipo.
Condivisibile è la fiducia espressa dal governatore nell'indipendenza della istituzione che dirige e nelle qualità dei suoi collaboratori. Ma le banche centrali e le agenzie indipendenti avrebbero dovuto prevenire la recente crisi economica. L'errore e la negligenza non sono evidentemente una prerogativa esclusiva delle agenzie governative.
Poi il biasimo per le riforme non realizzate. "La lista del Governatore" - scrive Di Vico - "è fatta di otto proposte e si apre con l'efficienza della giustizia civile, il sistema dell'istruzione, la concorrenza, il mercato del lavoro e gli investimenti nelle infrastrutture. Si tratta di riforme alcune delle quali, da sole, valgono un punto di Pil e che vanno realizzate pensando "a quale Paese lasceremo ai nostri figli".
Il governo in carica ha già modificato il processo civile italiano, introducendo importanti novità. Non si dimentichi però che la giustizia italiana ha caratterstiche peculiari. L'ordinamento non solo tutela rigorosamente l'autonomia e l'indipendenza dei magistrati nell'esercizio delle funzioni giurisdizionali ma attribuisce ai magistrati capi degli uffici giudiziari anche compiti di indirizzo per la gestione delle risorse umane (personale amministrativo), finanziarie e strumentali. E' certo necessario ridurre il numero di tali uffici giudiziari e razionalizzare la loro distribuzione sul territorio. Ma spesso sono le qualità dei magistrati dirigenti a fare la differenza sotto il profilo della produttività.
Quanto al settore dell'istruzione, sono note le vicende della riforma Gelmini. Fondati sembrano poi molti dei rilievi di Draghi a proposito delle mancate liberalizzazioni. Ma su queste esiste in Italia un vero consenso popolare?
Altrettanto fondate sono le considerazioni del governatore sulle deficienze strutturali e culturali delle aziende italiane. La pressione esercitata dal mercato globalizzato già determina un'evoluzione non priva di dure conseguenze personali.
Nella relazione insomma non mancano aspetti discutibili. Draghi conosce bene la complessità della situazione italiana. Qualche cenno in più alle peculiari difficoltà che si incontrano nel tentare di riformare il nostro paese avrebbe costituito una ulteriore chiara manifestazione di indipendenza ed autorevolezza.

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