Due giorni fa sul Corriere il prof. Angelo Panebianco ha lucidamente esposto le principali tesi sostenute dal cosiddetto "Terzo partito" che si è venuto a formare sulle questione, oggi vivacemente discussa, della fine della vita.
Scrive Panebianco:
"Due madornali errori di valutazione, a me pare, sono stati commessi da chi ha voluto gettare fra i piedi del Paese una questione di tale portata. Il primo è stato di avere sopravvalutato le capacità della democrazia di gestire questo problema. La democrazia può occuparsi di tutto, tranne che dell'essenziale (le questioni della vita e della morte, appunto). Non è attrezzata per fronteggiare un conflitto filosofico radicale fra opposte concezioni della vita.
I fautori della «sacralità della vita», i neo guelfi, sbagliano di grosso a volere imporre per legge a tutti i loro valori (la sacralità della vita è un concetto privo di senso per chi non crede in Dio). Facendo ciò essi attentano a quel pluralismo degli orientamenti di cui solo può vivere una società liberale. Ma sbagliano anche i fautori della «libertà di scelta». Costoro la fanno troppo semplice, banalizzano in maniera inaccettabile il problema. Non è vero che essi si limitano a rivendicare un «diritto» che i credenti sono liberi di non praticare. Perché pretendendo una legge che riconosca quel diritto essi, per ciò stesso, intendono fare prevalere la loro concezione della vita e della morte, imporre il principio secondo cui la decisione sulla morte di un uomo è nell'esclusiva e libera disponibilità di quell'uomo. Un principio che non può non ripugnare ai fautori della diversa e opposta concezione".
Si tratta di idee, queste sopra riportate e le altre riconducibili a tale "terza" posizione citata, in più punti condivisibili, pur essendo sollevabili importanti obiezioni. Prima di tutto va detto che i medici possono portare, nel caso concreto, la dote rappresentata dalle loro conoscenze tecniche, necessarie per la comprensione della situazione di fatto. Ma la logica stessa preclude la possibilità di ricavare direttamente e conseguentemente prescrizioni da descrizioni, principi morali da fatti. Dunque in nessun modo la scienza medica può indicare la "cosa giusta" facendo ricorso alle proprie specifiche risorse. Quindi i medici non possono avere l' ultima parola su questo.
Nè le questioni dibattute possono essere risolte dai giudici al di fuori di qualche suggerimento in più da parte del legislatore. Perchè la stessa previsione costituzionale del diritto di rifiutare le cure, salvi i casi di trattamenti obbligatori che la legge ordinaria può a certe condizioni prevedere, trova applicazione solo con difficoltà in casi di confine, come quello della povera Eluana. In quest' ultimo caso, del resto, quasi certamente, la sensibilità toccata e la visione della vita coinvolta non erano tanto quelle della donna, quanto piuttosto quelle di chi le stava vicino.
Probabilmente la strada da percorrere passa da un lato per un inevitabile contarsi, necessario in democrazia anche soltanto come male minore, dall' altro per il ricorso da parte del Parlamento ad alcuni strumenti, come l' obiezione di coscienza nonchè le attenuanti e le esimenti proprie del diritto penale, capaci di conferire flessibilità ed umanità a regole che non si possono non individuare.