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martedì 27 agosto 2013

Per uscire dalla crisi un approccio microeconomico.






Il Sole 24 Ore del 26 agosto 2013 riporta alcune dichiarazioni del presidente della Bundesbank Jens Weidmann. Le parole di Weidmann hanno suscitato ampia ostilità ma rappresentano un lucido richiamo a sciogliere i nodi fondamentali della crisi in atto.

"Le banche centrali - ha proseguito il numero uno della Bundesbank e membro del board Bce - non possono risolvere la crisi poiché i problemi che sottendono ad essa non sono legati alla politica monetaria. I dibattiti mostrano che la crisi non è finita e che c'è ancora molto da fare per superarla".

"La crisi in Grecia può essere superata solo con l'adozione di riforme, dal momento che «nuovi aiuti non bastano da soli a far diventare competitive le aziende ed a porre le basi durevoli per finanze solide». Il presidente della Buba aggiunge che l'intervento di Mario Draghi dello scorso anno di salvare l'euro a qualunque costo ha solo calmato i mercati, ma questa calma è «ingannevole». La discussione sui nuovi aiuti ad Atene mostra infatti che «la crisi non è finita e per superarla c'è ancora molto da fare». La conclusione di Weidmann è che «parlare di una rapida fine della crisi è sbagliato e indebolisce gli sforzi per le riforme»".

L'economia reale dell'Eurozona e degli Stati Uniti dà ancora segnali di sofferenza. Continuano le delocalizzazioni, soprattutto in Italia. L'occupazione non migliora significativamente. Gli investimenti restano largamente insufficienti: gli ordini di beni durevoli negli Stati Uniti sono calati in luglio molto più delle previsioni.
Per uscire dalla crisi occorre "far diventare competitive le aziende e porre le basi durevoli per finanze solide". Gli imprenditori e gli investitori devono trovare condizioni favorevoli per operare con successo. Le agenzie pubbliche hanno bisogno di riferimenti normativi e strumenti operativi adeguati. Le politiche monetarie cosiddette accomodanti, che guardano ai grandi aggregati statistici, possono far acquistare tempo, nella migliore delle ipotesi, ma non ripristinano i presupposti di una solida e vitale capacità del sistema di creare lavoro e reddito.

martedì 20 agosto 2013

Protezionismo e concorrenza nell'economia globalizzata.






 La Voce della Russia del 19 agosto 2013 richiama l'attenzione sul protezionismo, uno dei principali temi del prossimo G20 di San Pietroburgo:

"Appartiene ormai al passato il protezionismo classico, diretto, come il blocco continentale dell’Inghilterra durante le Guerre napoleoniche o il Boston Tea Party, quando le colonie americane insorsero contro il protezionismo inglese nel commercio del tè. Stanno scomparendo anche le guerre tariffarie, come, ad esempio, la contrapposizone sul mercato automobilistico tra Cina ed USA, che per mezzo dei dazi doganali difendevano dai concorrenti i propri mercati. Adesso i relativi metodi sono diventati di gran lunga più eleganti e la retorica più ricercata. Al summit del G20 tutti i paesi, più probabilmente, dichiareranno di sostenere il divieto del protezionismo e poi… troveranno metodi per aggirarlo, dice Viktoria Perskaja, vicedirettore del Centro di studi internazionali presso la Scuola per imprenditori di Mosca. Secondo Viktoria, a questi paesi non resta nient’altro da fare. Il protezionismo è richiesto dall’attuale economia post-crisi, mentre la diplomazia esige una rinuncia pubblica allo stesso.
Si sviluppa il settore reale nazionale, la reale produzione nazionale, mentre il segmento dei servizi si sta contraendo. Quei paesi che si rendono conto della necessità di un’economia nazionale più equilibrata e strutturata adotteranno misure per favorire il produttore nazionale. In questo caso non è affatto necessario introdurre dazi doganali. Basta utilizzare il sistema di stardard tecnici e così tutti i potenziali esportatori si vedranno costretti a corrispondere a tale livello".

Su Orizzonte Cina (giugno 2013), mensile d'informazione e analisi sulla Cina contemporanea a cura dell'Istituto Affari Internazionali (IAI) e del Torino World Affairs Institute (T.wai), Giuseppe Gabusi estende l'analisi alle ALS, aree di libero scambio, ponendo in rilievo la pressante istanza di sicurezza economica che continua a condizionare l' azione dei governi:

"La crescente tensione commerciale tra Bruxelles e Pechino riflette in realtà il deterioramento della sicurezza economica, intesa come sicurezza economica complessiva percepita dai governi e dall’opinione pubblica, in un periodo di recessione globale e di transizioni politiche interne. I nuovi accordi di libero scambio in corso di negoziato contribuiscono a rafforzare il senso di insicurezza delle maggiori potenze commerciali".

Le "... ALS rappresentano accordi commerciali di nuova generazione, il cui focus è soprattutto sulle barriere non-tariffarie, sui servizi, sugli standard e sulle normative, e sulle architetture istituzionali del commercio. Perciò, le ALS contribuiscono a erodere la distinzione tra politica estera economica e politica interna, e richiedono una visione (finanche una cultura) politica comune, assente tra le democrazie occidentali e la RPC".

"Non è un caso che Mark Tokola, vice-capo missione all’ambasciata americana a Londra, abbia dichiarato: “l’ALS tra l’Unione Europea e gli Stati Uniti potrebbe diffondere le norme occidentali in tutto il mondo”. Non si tratta più quindi di dazi o altri strumenti tecnici, ma di norme e di sottesi valori: è la prova del passaggio della politica commerciale dalla sfera della low politics a quella dell’ high politics". 

La crisi economica in atto ha le proprie profonde radici in una globalizzazione disordinata e tumultuosa, caratterizzata dalla mancata o insufficiente convergenza delle forme di stato e degli ordinamenti giuridici. I nodi di questa competizione viziata dalla radicale diversità dei sistemi, dalla diffidenza reciproca e dal protezionismo più o meno scoperto vengono al pettine.

Così conclude Gabusi:

"Il  rilancio  del  WTO  potrebbe  davvero  rappresentare un’occasione migliore e più efficiente per raggiungere un consenso multilaterale, rispetto alle discussioni segrete sui nuovi ALS, che stanno solamente aggiungendo insicurezza a un ordine economico liberale che, con tutti i suoi limiti, ha finora servito degnamente, in termini di crescita, Washington, Bruxelles e Pechino".

In realtà il mercato globale contemporaneo ha ben poco di liberale, non poggiando su regole comuni. Questo disordinato ordine economico rappresenta il contesto in cui sono diventati insostenibili non solo i vizi e le inadeguatezze ma anche alcuni dei tratti migliori delle democrazie occidentali.
Bisogna essere consapevoli del valore della concorrenza virtuosa, che deve essere il più possibile ampia, aperta e tutelata. L'istanza della sicurezza economica non deve soffocare tale consapevolezza e il conseguente tentativo di rimuovere barriere che penalizzano il merito e l'innovazione. In questa prospettiva l'ALS tra Europa e Stati Uniti potrebbe davvero essere "la risposta realista dell’Occidente all’impossibilità di progredire in sede WTO". Mentre non si può escludere che una chiara e ferma posizione occidentale si riveli un positivo stimolo per regimi autoritari che rispettano soprattutto la forza priva di accenti provocatori. 

martedì 13 agosto 2013

Tocqueville. Saggio sulla povertà.







Nel 1835, anno in cui pubblicò la prima parte de La Democrazia in America, Tocqueville presentò alla Società accademica di Cherbourg il Mémoire sur le paupérisme, recentemente riproposto in edizione digitale dalla Casa editrice dell'Istituto Bruno Leoni con il titolo Saggio sulla povertà.
In questo denso scritto Tocqueville esamina lo sviluppo della povertà e i metodi per combatterla. Ad un certo punto della storia umana si diffondono bisogni artificiali e secondari, soddisfatti dal lavoro non agricolo.

Ma "...circostanze avverse possono portare la popolazione a rifiutare certi bisogni superficiali, dei quali godrà in altri tempi senza difficoltà. Ora c’è il gusto e l’uso di questi piaceri sui quali gli operai contano per vivere. Se vengono a mancare, non resta alcuna risorsa. Il suo raccolto è per lui bruciato; i suoi campi sono colpiti dall'infertilità, e per poco che un simile stato si protragga, non si prevede che un’orribile miseria e la morte.
Non ho parlato che del caso in cui la popolazione limiterà i propri bisogni. Molte altre cause possono portare allo stesso effetto: una produzione esagerata dei cittadini, la concorrenza degli stranieri...
La classe industriale che provvede alla spinta verso il benessere degli altri è dunque ben più esposta di loro a difficoltà improvvise ed irrimediabili".

Come fronteggiare la miseria? Con l'esercizio della virtù individuale della carità o con l'assistenza pubblica?

"Non c’è, a prima vista, un’idea che sembri più bella e più grande che quella della carità pubblica".

 " L’uomo, come tutti gli esseri organizzati, ha una passione naturale per l’ozio. Ci sono pertanto due motivi che lo portano al lavoro: il bisogno di vivere e il desiderio di migliorare le condizioni della sua esistenza". 

"Ora, un’organizzazione caritatevole, aperta indistintamente a tutti coloro che sono nel bisogno, o una legge che dà a tutti i poveri, qualunque sia l’origine della loro povertà, un diritto al soccorso pubblico, indebolisce o distrugge il primo stimolo al lavoro e lascia intatto soltanto il secondo". 

"Ma sono profondamente convinto che tutto il sistema legislativo, permanente, amministrativo, il cui scopo sarà di provvedere ai bisogni del povero, farà nascere più miserie di quelle che può guarire, depraverà la popolazione che vuole soccorrere e consolare, ridurrà con il tempo i ricchi a non essere altro che i servitori dei poveri, trarrà le risorse dai risparmi, arresterà l’accumulo dei capitali, comprimerà lo sviluppo del commercio, debiliterà l’attività e l’operosità umane e finirà per produrre una rivoluzione violenta nello Stato, quando il numero di quelli che ricevono l’elemosina sarà diventato quasi tanto grande quanto il numero di quelli che la offrono, e che l’indigente non potendo più aspirare ad impoverire i ricchi per provvedere ai suoi bisogni, troverà più facile di depredarli tutto d’un colpo dei loro beni che di chiedere il loro soccorso".

Lucidamente il grande intellettuale francese distingue virtù individuale e moralità pubblica, lanciando un duro monito. Il compito della grande politica non è riprodurre la perfezione personale, ma fronteggiare efficacemente grandi problemi. Una severa lezione sempre attuale, da meditare attentamente.    

lunedì 5 agosto 2013

America ed Europa senza fabbriche. Troppi resterebbero fuori.







Su La Stampa del 5 agosto 2013 Enrico Moretti delinea un quadro della produzione e dell'occupazione nell'età della globalizzazione tecnologica soltanto in parte condivisibile.

Scrive Moretti:

" In tutti i Paesi occidentali, l’occupazione nell’industria manifatturiera sta calando ormai da trent’anni...  questo trend accomuna un po’ tutte le società avanzate, dagli Stati Uniti al Giappone, dalla Gran Bretagna all’Italia e persino la Germania".

"Questo declino non è solo l’effetto di fenomeni a breve termine, come le recessioni: l’industria perde posti di lavoro anche durante le fasi di espansione. Le ragioni sono due forze economiche profonde: progresso tecnologico e globalizzazione. Grazie agli investimenti in sofisticati macchinari di nuova concezione, le fabbriche occidentali sono molto più efficienti che in passato e per produrre la stessa quantità di beni impiegano sempre meno manodopera".

"La seconda forza che sta decimando l’occupazione manifatturiera dei paesi occidentali è la globalizzazione. Le produzioni più tradizionali sono state le prime a essere delocalizzate".

"A differenza della maggior parte dei Paesi Europei, e dell’Italia in particolare, negli ultimi cinquant’anni, gli Stati Uniti si sono reinventati, passando da un’economia fondata sulla produzione di beni materiali a un’economia basata su innovazione e conoscenza. L’occupazione nel settore dell’innovazione è cresciuta a ritmi travolgenti. L’ingrediente chiave di questo settore è il capitale umano, e dunque istruzione, creatività e inventiva. Il fattore produttivo essenziale sono insomma le persone: sono loro a sfornare nuove idee. Le due forze che hanno decimato le industrie manifatturiere tradizionali – la globalizzazione e il progresso tecnologico – stanno ora determinando l’espansione dei posti di lavoro nel campo dell’innovazione. 
La globalizzazione e il progresso tecnologico hanno trasformato molti beni materiali in prodotti a buon mercato, ma hanno anche innalzato il ritorno economico del capitale umano e dell’innovazione. Per la prima volta nella storia, il fattore economico più prezioso non è il capitale fisico, o qualche materia prima, ma la creatività".

"Nei prossimi decenni la competizione globale sarà incentrata sulla capacità di attrarre capitale umano e imprese innovative. Il numero e la forza degli hub dell’innovazione di un Paese ne decreteranno la fortuna o il declino. I luoghi in cui si fabbricano fisicamente le cose seguiteranno a perdere importanza, mentre le città popolate da lavoratori interconnessi e creativi diventeranno le nuove fabbriche del futuro".

In realtà nulla esclude che i luoghi della fabbricazione e della concezione innovativa  possano essere gli stessi e che l'offerta di ingegneri e di lavoro creativo a minor costo determini lo spostamento in Asia anche della fase di progettazione. Si tratta di un processo in larga misura prevedibile.
Del resto bisogna essere ben consapevoli che l'occupazione nel settore dell'innovazione non può per sua natura soddisfare adeguatamente la richiesta di inclusione economico-sociale. Quanti non possiedono le doti necessarie per un contributo significativamente creativo? Basterà il supporto di un efficiente sistema formativo/educativo, peraltro spesso ancora da realizzare?
Emerge in Europa e in America una tendenza a radunare ai due estremi le occasioni di impiego. Da una parte il lavoro ad alta o altissima qualificazione, dall'altra un'ampia offerta di occupazione poco qualificata e mal retribuita nei settori della grande distribuzione, della grande ristorazione, del servizio sanitario e dell'assistenza agli anziani. Quanti non potranno o non vorranno essere parte attiva di un mercato del lavoro siffatto?
L'espulsione dai paesi occidentali della manifattura ad alto valore aggiunto non pare inevitabile. Una profonda ristrutturazione della legislazione del lavoro e dell'impresa, del welfare, del fisco e del sistema educativo/formativo può rendere decisivi i legami con le tradizioni produttive e il territorio, il taglio dei costi di trasporto, la capacità di adattare elasticamente la produzione alle esigenze particolari del consumatore. Si consideri poi che le nuove economie  orientali non sono prive di tensioni e contraddizioni. Il futuro resta aperto. 


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