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martedì 19 marzo 2013

Il vescovo di Roma nella prospettiva ecumenica.


Secondo il vigente codice di diritto canonico della Chiesa cattolica

"Il Vescovo della Chiesa di Roma, in cui permane l'ufficio concesso dal Signore singolarmente a Pietro, primo degli Apostoli, e che deve essere trasmesso ai suoi successori, è capo del Collegio dei Vescovi, Vicario di Cristo e Pastore qui in terra della Chiesa universale; egli perciò, in forza del suo ufficio, ha potestà ordinaria suprema, piena, immediata e universale sulla Chiesa, potestà che può sempre esercitare liberamente" (can.331).

Tale potestà del successore di Pietro nell'episcopato romano è uno dei principali ostacoli all'unità dei cristiani. Le altre grandi chiese cristiane infatti riconoscono o possono riconoscere un primato d'onore del vescovo di Roma ma non una sua potestà piena, immediata e universale su tutti i cristiani.
La Chiesa cattolica  persegue il superamento delle divisioni tra le chiese cristiane, con una lucida comprensione dei problemi che rallentano il processo di unificazione. Tra essi particolare  attenzione desta quello rappresentato dal cosiddetto primato petrino, sopra delineato.
Sull'impegno ecumenico resta insuperato il magistero di Giovanni Paolo II che nella lettera enciclica Ut unum sint ha dato alla Chiesa cattolica un compito preciso:

" Quale Vescovo di Roma so bene, e lo ho riaffermato nella presente Lettera enciclica, che la comunione piena e visibile di tutte le comunità, nelle quali in virtù della fedeltà di Dio abita il suo Spirito, è il desiderio ardente di Cristo. Sono convinto di avere a questo riguardo una responsabilità particolare, soprattutto nel constatare l'aspirazione ecumenica della maggior parte delle Comunità cristiane e ascoltando la domanda che mi è rivolta di trovare una forma di esercizio del primato che, pur non rinunciando in nessun modo all'essenziale della sua missione, si apra ad una situazione nuova. Per un millennio i cristiani erano uniti "dalla fraterna comunione della fede e della vita sacramentale, intervenendo per comune consenso la sede romana, qualora fossero sorti fra loro dissensi circa la fede o la disciplina"

"Ma ... è per il desiderio di obbedire veramente alla volontà di Cristo che io mi riconosco chiamato, come Vescovo di Roma, a esercitare tale ministero .... Lo Spirito Santo ci doni la sua luce, ed illumini tutti i pastori e i teologi delle nostre Chiese, affinché possiamo cercare, evidentemente insieme, le forme nelle quali questo ministero possa realizzare un servizio di amore riconosciuto dagli uni e dagli altri" (95).

Passi decisivi verso l'attribuzione al servizio petrino di forme e contenuti compatibili con la piena comunione delle chiese cristiane sono stati realizzati dai due ultimi papi. Benedetto XVI, rinunciando al suo ufficio di Romano Pontefice e diventando vescovo emerito di Roma, ha sottolineato la centralità del ministero episcopale.
Il nuovo papa Francesco ha con chiarezza percorso la via indicata dal predecessore, con comportamenti la cui portata ecumenica può rivelarsi determinante. In questo senso va letta anche la decisione di rivolgersi ai fedeli durante il suo primo Angelus soltanto in lingua italiana.
Il vescovo di Roma ha parlato alla Chiesa di Roma prima che ai cristiani di tutto il mondo, chiamati  a vedere nel successore di Pietro il titolare di una potestà legata all'importanza della sede episcopale e che si esprime nel servizio all'unità della Chiesa universale.


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