Il 4 giugno 2004, in occasione delle celebrazioni per il 60° anniversario dello sbarco alleato in Normandia, l'allora cardinale Joseph Ratzinger, oggi papa Benedetto XVI, pronunciò un importante discorso.
Ratzinger qui incisivamente denuncia la natura criminale del nazismo ed il modo in cui ottenne l'obbedienza di molti tedeschi.
L'attuale pontefice espone le ragioni che inducono a rifiutare un pacifismo assoluto, in accordo con la Tradizione ed il Magistero della Chiesa cattolica.
" Un criminale con i suoi accoliti era riuscito a impadronirsi del potere in Germania. Sotto il dominio del Partito, il diritto e l’ingiustizia si erano intricati tra loro in maniera pressoché indissolubile, tanto da travasarsi spesso l’uno nell’altra e viceversa".
"Al servizio di questo dominio della menzogna stava un regime di paura, nel quale nessuno poteva fidarsi dell’altro perché tutti in qualche modo dovevano proteggersi sotto la maschera della menzogna. Così fu di fatto necessario che il mondo intero intervenisse a spezzare il cerchio dell’azione criminale, perché fossero ristabiliti la libertà e il diritto. Oggi noi siamo grati al fatto che questo sia avvenuto, e a esser grati non sono soltanto i Paesi occupati dalle truppe tedesche. Noi stessi, i tedeschi, siamo grati perché, con l’aiuto di quell’impegno, abbiamo recuperato la libertà e il diritto.
Se mai si è verificato nella storia un bellum justum è qui che lo troviamo, nell’impegno degli Alleati, perché il loro intervento operava nei suoi esiti anche per il bene di coloro contro il cui Paese era condotta la guerra. Questa constatazione mi pare importante perché mostra, sulla base di un evento storico, l’insostenibilità di un pacifismo assoluto. Il che non ci esenta in alcun modo dal porci con molto rigore la domanda se oggi sia ancora possibile, e a quali condizioni, qualcosa di simile a una guerra giusta, vale a dire un intervento militare, posto al servizio della pace e guidato dai suoi criteri morali, contro i regimi ingiusti.
Soprattutto, si spera che quel che abbiamo fin qui detto aiuti a comprendere meglio che la pace e il diritto, la pace e la giustizia sono inseparabilmente interconnessi. Quando il diritto è distrutto, quando l’ingiustizia prende il potere, la pace è sempre minacciata ed è già, almeno in parte, compromessa".
"Certamente la difesa del diritto può e deve, in alcune circostanze, far ricorso a una forza commisurata. Un pacifismo assoluto, che neghi al diritto l’uso di qualunque mezzo coercitivo, si risolverebbe in una capitolazione davanti all’iniquità, ne sanzionerebbe la presa del potere e abbandonerebbe il mondo al diktat della violenza. Ma per evitare che la forza del diritto si trasformi essa stessa in iniquità, è necessario sottometterla a criteri rigorosi e riconoscibili come tali da parte di tutti".
Queste severe parole di Ratzinger riassumono il tradizionale insegnamento della Chiesa cattolica.
Si veda, ad esempio, una lettera di sant'Agostino al generale Bonifacio (417 circa):
"Non credere che non possa piacere a Dio nessuno il quale faccia il soldato tra le armi destinate alla guerra".
"La pace deve essere nella volontà e la guerra solo una necessità, affinché Dio ci liberi dalla necessità e ci conservi nella pace! Infatti non si cerca la pace per provocare la guerra, ma si fa la guerra per ottenere la pace! Anche facendo la guerra sii dunque ispirato dalla pace in modo che, vincendo, tu possa condurre al bene della pace coloro che tu sconfiggi. Beati i pacificatori - dice il Signore - perché saranno chiamati figli di Dio."
"Sia pertanto la necessità e non la volontà il motivo per togliere di mezzo il nemico che combatte. Allo stesso modo che si usa la violenza con chi si ribella e resiste, così deve usarsi misericordia con chi è ormai vinto o prigioniero, soprattutto se non c'è da temere, nei suoi riguardi, che turbi la pace".
Benedetto XVI: un tedesco contro il nazismo e contro ogni totalitarismo.
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mercoledì 28 aprile 2010
giovedì 22 aprile 2010
Bertrand Russell testimone della grande storia. Pratica e teoria del bolscevismo.
Bertrand Russell è stato uno dei più importanti ed influenti intellettuali del Novecento. Nato nel 1872 e quindi formatosi in epoca vittoriana, ebbe una vita lunghissima. Morì nel 1970. Suo nonno paterno era lord John Russell, eminente politico britannico, primo ministro e grande esperto di relazioni internazionali.
Il pensiero di Russell fu caratterizzato dall'incontro tra il tradizionale empirismo del suo paese e la logica. Ebbe profonda influenza sulla filosofia novecentesca, in particolare sul positivismo logico e sulla filosofia analitica.
Significativa la sua adesione ad una concezione oggettiva e realistica della verità come corrispondenza ai fatti. Questa posizione soprattutto, ma anche la grande chiarezza della sua scrittura, suscitarono l'ammirazione di Karl Popper.
Visse della sua attività di scrittore, conseguendo il premio Nobel per la letteratura. Scrisse quindi molto per un vasto pubblico, pubblicando opere dirette alla divulgazione e all'esposizione delle proprie personali preferenze morali, politiche e religiose. Questo taglio particolare ne ha consentita l'ampia utilizzazione nelle battaglie culturali oggi in atto, realizzata anche con numerose nuove edizioni.
Non sono state invece ristampate alcune opere notevolissime, capaci di sollevare il velo che copre un passato a dir poco imbarazzante e di mostrare la vera origine di una eredità ideale e concettuale ancora diffusa. L'ultima edizione italiana della sua Autobiografia in tre volumi e di Pratica e teoria del bolscevismo risale all'inizio degli anni Settanta. Quest'ultima opera in particolare costituisce la fondamentale testimonianza di avvenimenti e personaggi storici che hanno davvero segnato profondamente il secolo scorso.
Bertrand Russell visitò la Russia sovietica alla fine della primavera del 1920, circa due anni e mezzo dopo la Rivoluzione d'Ottobre, quando Lenin, nel pieno delle sue facoltà, era saldamente a capo del nuovo regime comunista. Pratica e teoria del bolscevismo è il resoconto di questo viaggio. La grande intelligenza di Russell comprende con chiarezza la natura totalitaria e poliziesca del regime. Il filosofo inglese, pur prevenuto a favore dell'esperimento comunista, ne coglie e denuncia aspetti a lungo poi taciuti dai politici italiani che quella spaventosa realtà ben conobbero.
Russell, tra l'altro, riuscì ad ottenere una lunga intervista con lo stesso Lenin. L'incontro del grande intellettuale con il grande rivoluzionario è raccontato nella parte prima, capitolo terzo, del libro. Si tratta di pagine assolutamente da non perdere. Pratica e teoria del bolscevismo è ormai introvabile nella sua vecchia edizione italiana di quaranta anni fa, ma si può scaricare integralmente e gratuitamente e leggere direttamente in inglese. La proverbiale chiarezza di Russell la rende comprensibile anche a chi non ha una conoscenza profonda della lingua.
venerdì 16 aprile 2010
L'atomica iraniana e l'eredità di Bush.
Obama ha ancora una volta conseguito un successo soltanto propagandistico. Tutti i governi non vogliono che armi atomiche cadano nella disponibiltà di terroristi e già ora fanno quello che possono per controllare i loro arsenali ed evitare la perdita di materiale pericoloso.
Ma lo scottante problema dell'atomica iraniana resta ben lontano da una soluzione accettabile per le grandi democrazie e soprattutto per Israele.
Le sanzioni internazionali sono poco efficaci e spesso controproducenti. Paradossalmente quanto più sono incisive tanto più sono controproducenti.
Le più incisive ipotizzabili, quelle dirette contro le esportazioni e la finanza iraniane, oltre a ledere interessi degli stessi paesi occidentali, ferirebbero i sentimenti nazionalisti della popolazione, indebolendo l'opposizione al regime islamico.
Piuttosto Obama dovrebbe puntare sul nuovo Iraq. Un paese a maggioranza scita che l'ostinazione di Bush ha dotato di un regime meno chiuso dell'iraniano verso l'Occidente, i suoi miti, le sue libertà e le sue possibilità.
I giovani iraniani e i ceti più attratti dai modelli occidentali potrebbero vedere da vicino il futuro sperato per il loro paese. Ciò favorirebbe un cambio di regime capace di consegnare la potenza iraniana a governanti più responsabili.
Obama, in campagna elettorale, ha promesso di porre di nuovo a rischio una vittoria ottenuta con tanti sacrifici, quella irachena, per gettare maggiori risorse in una guerra che non si può vincere, quella afghana.
Il presidente degli Stati Uniti sfrutti le sue innegabili risorse retoriche per fare il contrario di quello che ha promesso. Proprio il sofferto successo strategico di Bush rappresenta infatti per il suo paese la meno sfavorevole carta da giocare nella partita iraniana.
Ma lo scottante problema dell'atomica iraniana resta ben lontano da una soluzione accettabile per le grandi democrazie e soprattutto per Israele.
Le sanzioni internazionali sono poco efficaci e spesso controproducenti. Paradossalmente quanto più sono incisive tanto più sono controproducenti.
Le più incisive ipotizzabili, quelle dirette contro le esportazioni e la finanza iraniane, oltre a ledere interessi degli stessi paesi occidentali, ferirebbero i sentimenti nazionalisti della popolazione, indebolendo l'opposizione al regime islamico.
Piuttosto Obama dovrebbe puntare sul nuovo Iraq. Un paese a maggioranza scita che l'ostinazione di Bush ha dotato di un regime meno chiuso dell'iraniano verso l'Occidente, i suoi miti, le sue libertà e le sue possibilità.
I giovani iraniani e i ceti più attratti dai modelli occidentali potrebbero vedere da vicino il futuro sperato per il loro paese. Ciò favorirebbe un cambio di regime capace di consegnare la potenza iraniana a governanti più responsabili.
Obama, in campagna elettorale, ha promesso di porre di nuovo a rischio una vittoria ottenuta con tanti sacrifici, quella irachena, per gettare maggiori risorse in una guerra che non si può vincere, quella afghana.
Il presidente degli Stati Uniti sfrutti le sue innegabili risorse retoriche per fare il contrario di quello che ha promesso. Proprio il sofferto successo strategico di Bush rappresenta infatti per il suo paese la meno sfavorevole carta da giocare nella partita iraniana.
venerdì 9 aprile 2010
Se il semipresidenzialismo alla francese diventa il presidenzialismo italiano.
Oggi a Parigi il presidente Berlusconi ha meglio definito, su punti fondamentali, la proposta di riforma secondo il modello semipresidenzialista.
Berlusconi pensa ad una elezione contemporanea del presidente della repubblica e del parlamento, con un solo turno elettorale e con pari durata di presidenza e legislatura.
In questo modo, di solito, il neoeletto presidente avrebbe a disposizione una "sua" maggioranza parlamentare, con una drastica riduzione del rischio di "coabitazione" con un primo ministro di diverso orientamento politico.
Se poi si attribuissero al presidente così eletto la facoltà di sciogliere in ogni momento il parlamento per indire nuove elezioni parlamentari-presidenziali, nonchè poteri di indirizzo politico almeno analoghi a quelli oggi riconosciuti al presidente francese, si avrebbe in realtà una forma di governo molto vicina al presidenzialismo vero e proprio.
Sul Corriere della Sera il professor Sartori raccomanda di scegliere tra i modelli adottati altrove senza apportare modifiche significative. Ma perché?
In realtà ogni paese ha esigenze peculiari. Non solo può ma deve cercare una propria via per soddisfarle.
Ben venga dunque un presidenzialismo italiano, che consenta all'elettorato di scegliere direttamente a chi affidare l'indirizzo politico del paese senza introdurre rigidità insostenibili.
Berlusconi pensa ad una elezione contemporanea del presidente della repubblica e del parlamento, con un solo turno elettorale e con pari durata di presidenza e legislatura.
In questo modo, di solito, il neoeletto presidente avrebbe a disposizione una "sua" maggioranza parlamentare, con una drastica riduzione del rischio di "coabitazione" con un primo ministro di diverso orientamento politico.
Se poi si attribuissero al presidente così eletto la facoltà di sciogliere in ogni momento il parlamento per indire nuove elezioni parlamentari-presidenziali, nonchè poteri di indirizzo politico almeno analoghi a quelli oggi riconosciuti al presidente francese, si avrebbe in realtà una forma di governo molto vicina al presidenzialismo vero e proprio.
Sul Corriere della Sera il professor Sartori raccomanda di scegliere tra i modelli adottati altrove senza apportare modifiche significative. Ma perché?
In realtà ogni paese ha esigenze peculiari. Non solo può ma deve cercare una propria via per soddisfarle.
Ben venga dunque un presidenzialismo italiano, che consenta all'elettorato di scegliere direttamente a chi affidare l'indirizzo politico del paese senza introdurre rigidità insostenibili.
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