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martedì 16 dicembre 2008

Apprendisti stregoni. Attenti all'errore.

La riflessione sui tempi difficili che viviamo dovrebbe indurci a prendere atto, se non l'abbiamo ancora fatto, della fallibilità delle scienze sociali teoriche.
Economisti, studiosi della società e della politica, insigni intellettuali attenti ad individuare ed interpretare tendenze della vita e della storia hanno fallito nell'anticipare e nel comprendere ciò che oggi mette in difficoltà individui, famiglie, imprese ed addirittura stati sovrani.
Non si tratta certo di una novità. Da sempre circola una battuta sugli economisti che mette alla berlina la loro capacità di spiegare il passato ma non di prevedere il futuro. Ed in realtà pure la capacità di spiegare ciò che è successo è assai modesta. Questa fallibilità si aggiunge a quella degli operatori economici e dei protagonisti della vita sociale e politica, rendendo non raramente poco efficace il tentativo di trovare qualche rimedio e portarlo ad effetto. Ancora una volta colse nel segno Karl Popper, scrivendo nel suo Congetture e confutazioni:

"una delle singolari circostanze della vita sociale è che mai nulla riesce precisamente nel modo prestabilito.
Tutto va sempre a finire un poco diversamente. Quasi mai, nella vita sociale, riusciamo a provocare il preciso effetto che desideriamo, e, normalmente, otteniamo conseguenze ulteriori non desiderate....
Conseguenze non desiderate delle nostre azioni che, in genere, non possono essere eliminate.
Spiegare perchè ciò non sia possibile è il compito principale della teoria sociale
".

Questo tema dovrebbe costituire una parte fondamentale non solo della ricerca teorica, ma anche della formazione stessa dei cosiddetti scienziati sociali. La chiara consapevolezza della possibilità dell'errore, delle sue radici, della sua non infrequente estrema gravità sotto il profilo delle conseguenze, aiuterebbe tutti noi a vivere meglio.

Karl POPPER, Congetture e confutazioni, pagg. 212 e segg.

giovedì 11 dicembre 2008

La Seconda guerra mondiale. Un esempio di "guerra preventiva".



Un classico della storiografia contemporanea:

Alan J. P. TAYLOR, Le origini della seconda guerra mondiale.

Taylor sottolinea la costante politica di Hitler:
"pur volendo mano libera in Oriente per distruggere una situazione che anche all'opinione pubblica illuminata dell'Occidente pareva intollerabile, egli non aveva ambizioni dirette contro la Gran Bretagna e la Francia".

Sono i governanti, i parlamentari e l'opinione pubblica inglesi, non quelli francesi, a "fare la storia". Alle mosse del regime tedesco prima in Austria e sul Reno, poi in Cecoslovacchia e Polonia, tutte ugualmente contro i patti ed il diritto internazionali, eppure mai direttamente contro le potenze occidentali, rispondono in modo opposto. Prima la tolleranza, se non addirittura il favoreggiamento. Poi la guerra.
Taylor mette bene in luce il ruolo del caso. Sottolinea come i governanti non abbiano compreso gli eventi, se non in misura modesta, né si siano resi ben conto delle conseguenze delle loro azioni.
Ma dal lavoro di questo grande storico emerge abbastanza chiaramente il nucleo della tragica svolta che aprì la Seconda guerra mondiale. Il governo, il parlamento, ma soprattutto l'opinione pubblica britannici ad un certo punto cambiarono idea sulla natura e le intenzioni del regime tedesco e del suo capo. Accettarono di fare la guerra al regime nazista non tanto per quello che faceva, ma per ciò che era.
Il "processo alle intenzioni" condusse ad uno dei più significativi esempi di "guerra preventiva".
I campi di sterminio tedeschi dimostrarono poi la sostanziale esattezza delle intuizioni alle quali l'opinione pubblica e i governanti britannici alla fine erano giunti.
Dunque la "guerra preventiva" non è certo estranea alla tradizione delle democrazie liberali. E non può essere esclusa dal novero delle scelte possibili. Altrimenti si lascerebbe un vantaggio decisivo proprio ai più mortali nemici della democrazia aperta, libera e tollerante che diciamo di voler difendere. Va insomma considerata anch'essa nell'ambito concettuale e morale della guerra per la pace. Dolorosa ipotesi che purtroppo non si può accantonare.

sabato 6 dicembre 2008

Afroamericani. Tra Luther King e Malcom X.



L'elezione di Obama rappresenta ovviamente per gli afroamericani una svolta fondamentale. Nel secondo Novecento già due grandi figure hanno segnato la loro cultura, le loro vicende politiche e religiose, il loro stesso immaginario collettivo, catalizzando l'attenzione del mondo intero. Si tratta di Martin Luther King e di Malcom XDue personalità diversissime, ma soprattutto due visioni  alternative del passato e del futuro, due progetti, due sogni incompatibili tra loro.
Scegliere Obama significa scegliere King ed abbandonare Malcom X. E' una scelta dura e un difficile confronto con se stessi e con ciò che si è amato. Ma le conseguenze sono straordinariamente positive per gli USA e per tutti coloro che si riconoscono nella tradizione di libertà che li contraddistingue.

giovedì 4 dicembre 2008

Verità e certezza. Elogio di una concezione assoluta ed oggettiva della verità.

Karl Popper

La verità oggettiva ed assoluta esiste sempreUna teoria, un'ipotesi, sono oggettivamente ed assolutamente vere quando corrispondono ai fatti. Ma non possiamo mai essere certi della verità delle nostre ipotesi. La distinzione tra verità oggettiva e certezza soggettiva consente di salvare la fallibilità umana e di evitare il dogmatismo.
Nel contempo, offre alla ricerca umana un obiettivo nobile e grande. Ma soprattutto dà alla critica dei potenti ed alla denuncia dei loro misfatti la forza di colpire, di ferire, di cambiare le cose. Chi grida "il re è nudo" perde il suo tempo se non regna l'ideale della verità assoluta.


giovedì 27 novembre 2008

Benedetto Pera. Dare vita alla società libera

"... il liberalismo....., per essere fedele a se stesso, può collegarsi con una dottrina del bene, in particolare quella cristiana che gli è congenere, offrendo così veramente un contributo al superamento della crisi".

"...all’essenza del liberalismo appartiene il suo radicamento nell’immagine cristiana di Dio: la sua relazione con Dio di cui l’uomo è immagine e da cui abbiamo ricevuto il dono della libertà.
.... il liberalismo perde la sua base e distrugge se stesso se abbandona questo suo fondamento".



Si leggono critiche sovente dal tono ironico alle parole di Ratzinger. Ovviamente tutte le critiche sono legittime, anzi benvenute. Ma risultano incomprensibili se pretendono di muovere da posizioni liberali.
Perchè qui Benedetto XVI riprende linee di pensiero che appartengono certamente al miglior pensiero liberale. Basti pensare al Popper degli Addenda alla Società aperta, per quanto riguarda il rifiuto del cosiddetto relativismo etico. O al Tocqueville della Democrazia in America, sulla dipendenza del liberalismo dal cristianesimo.
Va infatti a mio parere denunciato l'errore di fondo che impedisce a molti di lavorare per una società libera vitale, durevole, in espansione. Ci affatichiamo a disegnare i tratti della società aperta ed umana che vorremmo. Però non comprendiamo che la possono rendere durevolmente vitale solo individui dotati di una visione dell'uomo, della vita e dei propri doveri con essa compatibile, ma soprattutto sentita come assoluta, non negoziabile, irrinunciabile.
Tale visione non può consistere in una morale puramente umana, necessariamente relativa, essendo i valori inderivabili dai fatti, le prescrizioni dalle descrizioni (legge di Hume). Nè tale visione assolutamente non negoziabile può avere origine nella ricerca scientifica, che dà esiti sempre congetturali, ipotetici. Può e deve invece fornirla il cristianesimo, religione di libertà e fraternità.

lunedì 24 novembre 2008

Dialogo tra religioni o tra culture? Il coraggio della fede.

Sul dialogo tra le religioni ed il rapporto tra cristianesimo e liberalismo è stata pubblicata una lucida lettera scritta da Benedetto XVI al prof. Marcello Pera, ex presidente del Senato.
La riporto di seguito, copiandola dal sito del Corriere della Sera.

"Il dialogo tra le religioni non è possibile. La fede non si può mettere tra parentesi


Caro Senatore Pera, in questi giorni ho potuto leggere il Suo nuovo libro Perché dobbiamo dirci cristiani. Era per me una lettura affascinante. Con una conoscenza stupenda delle fonti e con una logica cogente Ella analizza l’essenza del liberalismo a partire dai suoi fondamenti, mostrando che all’essenza del liberalismo appartiene il suo radicamento nell’immagine cristiana di Dio: la sua relazione con Dio di cui l’uomo è immagine e da cui abbiamo ricevuto il dono della libertà.
Con una logica inconfutabile Ella fa vedere che il liberalismo perde la sua base e distrugge se stesso se abbandona questo suo fondamento
. Non meno impressionato sono stato dalla Sua analisi della libertà e dall’analisi della multiculturalità in cui Ella mostra la contraddittorietà interna di questo concetto e quindi la sua impossibilità politica e culturale.
Di importanza fondamentale è la Sua analisi di ciò che possono essere l’Europa e una Costituzione europea in cui l’Europa non si trasformi in una realtà cosmopolita, ma trovi, a partire dal suo fondamento cristiano-liberale, la sua propria identità. Particolarmente significativa è per me anche la Sua analisi dei concetti di dialogo interreligioso e interculturale.
Ella spiega con grande chiarezza che un dialogo interreligioso nel senso stretto della parola non è possibile, mentre urge tanto più il dialogo interculturale che approfondisce le conseguenze culturali della decisione religiosa di fondo. Mentre su quest’ultima un vero dialogo non è possibile senza mettere fra parentesi la propria fede, occorre affrontare nel confronto pubblico le conseguenze culturali delle decisioni religiose di fondo. Qui il dialogo e una mutua correzione e un arricchimento vicendevole sono possibili e necessari.
Del contributo circa il significato di tutto questo per la crisi contemporanea dell’etica trovo importante ciò che Ella dice sulla parabola dell’etica liberale. Ella mostra che il liberalismo, senza cessare di essere liberalismoma, al contrario, per essere fedele a se stesso, può collegarsi con una dottrina del bene, in particolare quella cristiana che gli è congenere, offrendo così veramente un contributo al superamento della crisi.
Con la sua sobria razionalità, la sua ampia informazione filosofica e la forza della sua argomentazione, il presente libro è, a mio parere, di fondamentale importanza in quest’ora dell’Europa e del mondo. Spero che trovi larga accoglienza e aiuti a dare al dibattito politico, al di là dei problemi urgenti, quella profondità senza la quale non possiamo superare la sfida del nostro momento storico. Grato per la Sua opera Le auguro di cuore la benedizione di Dio.
Benedetto XVI"


domenica 16 novembre 2008

Moralità politica. Un caso italiano.

"Il veto di Sturzo al ritorno di Giolitti fu in effetti il più grande servizio che il prete di Caltagirone avrebbe potuto rendere al movimento fascista per cui, non a torto, Sturzo è stato paradossalmente definito da taluni come uno dei padri della marcia su Roma"

Dino GRANDI, Il mio paese. Ricordi Autobiografici, ed.1985, pag. 157

Luigi Sturzo, padre nobile del cattolicesimo democratico italiano, qui commette un grave passo falso, mosso da un un'errata percezione della moralità politica e delle circostanze. Impedendo il ritorno al governo di Giovanni Giolitti, grande statista liberale, spregiudicato ma abile ed esperto, apre involontariamente la strada alla dittatura fascista.
Dove non si risolvono i problemi non c'è moralità politica.

mercoledì 12 novembre 2008

Moammed Sceab. L'identità e la memoria.

Giuseppe Ungaretti ci coinvolge in un dolore che sembra di oggi.
Da "L'Allegria".


IN MEMORIA.
Locvizza il 30 settembre 1916.

Si chiamava
Moammed Sceab

Discendente
di emiri di nomadi
suicida
perché non aveva più
Patria
Amò la Francia
e mutò nome

Fu Marcel
ma non era Francese
e non sapeva più
vivere
nella tenda dei suoi
dove si ascolta la cantilena
del Corano
gustando un caffè

E non sapeva
sciogliere
il canto
del suo abbandono

L’ho accompagnato
insieme alla padrona dell’albergo
dove abitavamo
a Parigi
dal numero 5 della rue des Carmes
appassito vicolo in discesa.

Riposa
nel camposanto d’Ivry
sobborgo che pare
sempre
in una giornata
di una
decomposta fiera

E forse io solo
so ancora
che visse



martedì 11 novembre 2008

Sul mercato e lo stato. Il mercato dove possibile, lo stato dove necessario.

E' tornato di gran moda l'intervento dello stato in economia. Pur non essendo questo mai venuto meno. Perfino il diametro delle uova è regolato. Il mercato è invece sotto tiro. Lo si incolpa ormai di ogni nefandezza. Si dimentica che il mercato mal globalizzato che abbiamo di fronte vede incontrarsi operatori economici soggetti ciascuno a regole ben diverse.
Assistiamo ad una globalizzazione "al ribasso", dove vengono premiati i soggetti che operano in sistemi dove la tutela dell'ambiente e dei diritti politico-sindacali è minore, in grado quindi di esercitare una concorrenza sleale, con effetti distorsivi proprio sul mercato stesso. Mentre le agenzie chiamate a vigilare sul rispetto delle regole si sono rivelate incapaci di operare con efficacia. Erroneamente ci si scaglia contro il mercato in sé. Invece l'attenzione dovrebbe andare ai suoi vizi ed alle sue distorsioni.
E poi la memoria non ci aiuta. Negli anni Settanta del secolo appena terminato, furono proprio le politiche economiche incentrate sulla spesa pubblica e sull'intervento troppo esteso ed indiscriminato dello stato in economia a determinarne la stagnazione accompagnata da altissima inflazione.
Meglio dunque fissare e seguire alcuni buoni principi. Non si pensi che il mercato possa sostituire la grande politica. Non è il suo compito. Ma la politica non uccida la concorrenza. Non elimini il mercato che premia merito ed innovazione. Non riduca il ruolo della responsabilità degli operatori economici. Intervenga in economia per fronteggiare emergenze, distorsioni, povertà. Ma il mercato quando possibile, lo stato solo quando necessario.

mercoledì 5 novembre 2008

La retorica dei sogni.

La retorica abita da sempre i luoghi della politica e di per sè non ne esclude la grandezza. Ma una certa retorica, quella dei sogni e delle speranze, è davvero pericolosa. Prima avvicina, sprona, supera diffidenze, talvolta mobilita, converte. Poi la realtà si mostra con tutte le sue durezze e complessità. Appare scostante, refrattaria.
Allora quella retorica o il suo ricordo sfociano nella disillusione, nel qualunquismo, nel rifiuto e nel disprezzo della politica stessa. Un paese ha bisogno di un elettorato saggio, che chieda ed accetti sempre meno sogni e speranze, ma pretenda sempre più la verità.

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