Sono i giorni dedicati al ricordo della Resistenza italiana. Tanti uomini coraggiosi persero la vita per liberare il paese dall'occupazione nazista e da ciò che restava della ventennale dittatura fascista.
Oggi dobbiamo essere consapevoli, dopo aver visto ed appreso altre drammatiche vicende, che un antifascismo che non sia saldamente radicato in una generale avversione per il totalitarismo è monco, incompleto. E purtroppo monco, incompleto, incompiuto fu l'antifascismo della componente maggioritaria della nostra Resistenza, legata al totalitarismo comunista sovietico ed a questo subordinata. Molti italiani si sacrificarono anche per tentare di sostituire un regime autoritario con un altro, non meno pericoloso.
Si è a lungo parlato di tradimento degli ideali della Resistenza. Ma il primo grande tradimento degli ideali della maggior componente della nostra Resistenza fu proprio l'entrata in vigore della nostra Costituzione liberaldemocratica, che garantisce le libertà e i diritti fondamentali calpestati nei paesi comunisti.
Purtroppo la nostra Resistenza in larga misura non è stata la resistenza nazionale e democratica che invece prevalse nel Nord Europa ed in Francia, con De Gaulle. Questa è stata una fondamentale anomalia italiana. Qui ha origine la guerra civile strisciante che ha segnato il Secondo dopoguerra italiano fino alla prima metà degli anni Ottanta. Qui ha origine il blocco della democrazia italiana, logorata dalla mancanza di alternanza, sfiancata dalla corruzione.
Insegniamo ai nostri giovani a rifiutare e a combattere ogni totalitarismo. Solo allora potremo commemorare la nostra Liberazione nel modo migliore: onorando insieme la libertà e la verità.

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venerdì 24 aprile 2009
lunedì 13 aprile 2009
Un potere politico senza responsabilità politica. Mito e realtà della separazione dei poteri in una democrazia libera.
Da lungo tempo ormai, con periodiche accelerazioni, si sviluppa in Italia il dibattito sulla riforma della Costituzione e dell'ordinamento giudiziario.
I difensori ad oltranza dell'esistente, quanto alle prerogative ed alla struttura degli organi giurisdizionali, si richiamano ad una inesistente teoria liberaldemocratica classica della separazione dei poteri, erroneamente ricondotta a precursori della teoria liberale come Locke e Montesquieu.
Questi infatti, guardando all'Inghilterra loro contemporanea ed ispirandosi alle sue istituzioni, non pensavano affatto a una separazione dei poteri consistente in una separazione di corpi autonomi ed indipendenti di funzionari pubblici, dotati della titolarità esclusiva di una funzione, da realizzare anche con la formazione di un potere giudiziario in questo senso separato. Il loro obiettivo era non tanto quello della "separazione dei poteri", quanto piuttosto quello della divisione del potere.
Ed infatti ancora oggi negli USA i giudici della Corte Suprema federale, che in sostanza concentra in sè i compiti delle nostre Corte Costituzionale e Corte di Cassazione, sono scelti e nominati dal Presidente degli Stati Uniti, eletto democraticamente. Mentre i vertici della pubblica accusa, esercitata di solito da avvocati dello stato, sono direttamente eletti dai cittadini o comunque, sia pure indirettamente, rispondono politicamente ad essi. Così in Inghilterra, fino ad oggi, le funzioni di Corte Suprema sono state in gran parte attribuite ad un organo del Parlamento, i Law Lords, sulla cui nomina ha influito in modo determinante il governo. In tali ordinamenti del resto le attribuzioni dei giudici sono circoscritte mediante l'ampio ricorso all'istituto della giuria popolare.
Quando si riflette su questi problemi da una prospettiva liberaldemocratica bisogna essere ben consapevoli di quanto segue.
1) L'interpretazione della legge, ineliminabile in qualsiasi ordinamento, ha sempre una connotazione politica. "Interpretando" la legge si influisce sull'indirizzo politico del paese.
2) Anche quando, come nel nostro paese, formalmente l'esercizio dell'azione penale è obbligatorio, in realtà chi esercita l'azione penale svolge sempre, necessariamente, un ruolo di scelta.
Materialmente non tutti i reati possono essere perseguiti. Inoltre non tutti i reati possono essere perseguiti con la stessa intensità. La scelta operata, anche solo di fatto, nell'esercizio dell'azione penale si risolve dunque nell'adesione ad una "politica criminale" in luogo di un'altra. Ha quindi certamente una connotazione politica. E' perfino possibile che esercitando l'azione penale un magistrato riesca deliberatamente ed indebitamente a danneggiare uomini e partiti politici.
La previsione di un potere giudiziario tendenzialmente separato da legislativo ed esecutivo, dotato di una rilevante possibilità di influenzare l'indirizzo politico, senza dover rispondere direttamente od indirettamente ai cittadini, rappresenta un pericolo per la democrazia libera. Infatti gruppi o movimenti politici, al di fuori di ogni vero controllo democratico, possono utilizzarlo per sovvertire nella prassi quotidiana le istituzioni democratiche. Un potere politico senza responsabilità politica non deve trovare posto in un ordinamento libero e democratico.
Si rifletta sul nostro ordinamento, dove in teoria le sentenze della Cassazione esplicano la loro forza vincolante solo nel caso giudicato. Tale Corte svolge un ruolo di difesa generale della corretta ed uniforme interpretazione della legge direttamente od indirettamente riconosciuto dall'ordinamento. Ma anche le sentenze dei giudici inferiori, sia pure con minore autorevolezza, "fanno giurisprudenza". Dunque non sono prive, di fatto, di effetti che vanno al di là del caso esaminato. Per non parlare dell'attività della Corte Costituzionale. Qui il problema del senso concreto della separazione dei poteri diventa evidentissimo.
I difensori ad oltranza dell'esistente, quanto alle prerogative ed alla struttura degli organi giurisdizionali, si richiamano ad una inesistente teoria liberaldemocratica classica della separazione dei poteri, erroneamente ricondotta a precursori della teoria liberale come Locke e Montesquieu.
Questi infatti, guardando all'Inghilterra loro contemporanea ed ispirandosi alle sue istituzioni, non pensavano affatto a una separazione dei poteri consistente in una separazione di corpi autonomi ed indipendenti di funzionari pubblici, dotati della titolarità esclusiva di una funzione, da realizzare anche con la formazione di un potere giudiziario in questo senso separato. Il loro obiettivo era non tanto quello della "separazione dei poteri", quanto piuttosto quello della divisione del potere.
Ed infatti ancora oggi negli USA i giudici della Corte Suprema federale, che in sostanza concentra in sè i compiti delle nostre Corte Costituzionale e Corte di Cassazione, sono scelti e nominati dal Presidente degli Stati Uniti, eletto democraticamente. Mentre i vertici della pubblica accusa, esercitata di solito da avvocati dello stato, sono direttamente eletti dai cittadini o comunque, sia pure indirettamente, rispondono politicamente ad essi. Così in Inghilterra, fino ad oggi, le funzioni di Corte Suprema sono state in gran parte attribuite ad un organo del Parlamento, i Law Lords, sulla cui nomina ha influito in modo determinante il governo. In tali ordinamenti del resto le attribuzioni dei giudici sono circoscritte mediante l'ampio ricorso all'istituto della giuria popolare.
Quando si riflette su questi problemi da una prospettiva liberaldemocratica bisogna essere ben consapevoli di quanto segue.
1) L'interpretazione della legge, ineliminabile in qualsiasi ordinamento, ha sempre una connotazione politica. "Interpretando" la legge si influisce sull'indirizzo politico del paese.
2) Anche quando, come nel nostro paese, formalmente l'esercizio dell'azione penale è obbligatorio, in realtà chi esercita l'azione penale svolge sempre, necessariamente, un ruolo di scelta.
Materialmente non tutti i reati possono essere perseguiti. Inoltre non tutti i reati possono essere perseguiti con la stessa intensità. La scelta operata, anche solo di fatto, nell'esercizio dell'azione penale si risolve dunque nell'adesione ad una "politica criminale" in luogo di un'altra. Ha quindi certamente una connotazione politica. E' perfino possibile che esercitando l'azione penale un magistrato riesca deliberatamente ed indebitamente a danneggiare uomini e partiti politici.
La previsione di un potere giudiziario tendenzialmente separato da legislativo ed esecutivo, dotato di una rilevante possibilità di influenzare l'indirizzo politico, senza dover rispondere direttamente od indirettamente ai cittadini, rappresenta un pericolo per la democrazia libera. Infatti gruppi o movimenti politici, al di fuori di ogni vero controllo democratico, possono utilizzarlo per sovvertire nella prassi quotidiana le istituzioni democratiche. Un potere politico senza responsabilità politica non deve trovare posto in un ordinamento libero e democratico.
Si rifletta sul nostro ordinamento, dove in teoria le sentenze della Cassazione esplicano la loro forza vincolante solo nel caso giudicato. Tale Corte svolge un ruolo di difesa generale della corretta ed uniforme interpretazione della legge direttamente od indirettamente riconosciuto dall'ordinamento. Ma anche le sentenze dei giudici inferiori, sia pure con minore autorevolezza, "fanno giurisprudenza". Dunque non sono prive, di fatto, di effetti che vanno al di là del caso esaminato. Per non parlare dell'attività della Corte Costituzionale. Qui il problema del senso concreto della separazione dei poteri diventa evidentissimo.
sabato 4 aprile 2009
Enrico Caviglia. L'Italia che non è stata.
A più di mezzo secolo dalla precedente edizione vengono ripresentati in libreria, in veste economica, i diari 1925-1945 di Enrico Caviglia, tra i più influenti generali italiani durante la Prima guerra mondiale, poi maresciallo d'Italia. Che senso ha ricordare oggi questa grande figura, purtroppo pressoché dimenticata? Caviglia rappresenta l'Italia che sarebbe potuta essere e non fu, non è.
Fedele servitore delle istituzioni costituzionali, tecnico capace, uomo colto e coraggioso, disprezzava la retorica e quell'atteggiamento superficialmente arrogante e presuntuoso, spesso erroneamente confuso con il vero coraggio, che egli chiamava "spavalderia".
Dopo l'avvento della dittatura fascista fu privato della possibilità di influire sugli eventi e gli furono negati incarichi non di semplice rappresentanza. In due momenti cruciali della storia italiana, quando il movimento fascista tentava di prendere il potere e alla caduta di Mussolini nel luglio 1943, ricorrere alle sue doti di coraggio, intelligenza e fedeltà alle istituzioni rappresentò per il Re e per l'Italia la scelta migliore. Ma, com'è noto, la storia prese un'altra direzione.
Riporto di seguito questa sua acuta riflessione, tratta dai diari citati, più che mai attuale in questo momento di crisi in cui molti, presi totalmente dal presente, perdono di vista il futuro dei nostri giovani e del paese intero.
"L'uomo politico deve tenere conto delle grandi correnti di interessi e di sentimenti e saper distinguere le correnti transitorie da quelle che additano ai popoli la via da seguire a scadenza di generazioni.
Deve conoscere la situazione morale, politica ed economica generale per valutare con tranquilla coscienza gli elementi e i fattori che interessano il suo popolo.
Se sarà invece assorbito completamente dalla situazione interna del proprio Paese e da interessi immediati che premono ad ogni piè sospinto, egli non guiderà il suo popolo, ma andrà con quello alla deriva". (pag.39)
E' del curatore del suo Diario, Pier Paolo Cervone, questa biografia del maresciallo d'Italia Enrico Caviglia
Qui Vittorio Veneto di Enrico Caviglia
Enrico CAVIGLIA, I dittatori, le guerre e il piccolo re
Diario 1925-1945
A cura di Pier Paolo Cervone
Enrico CAVIGLIA, I dittatori, le guerre e il piccolo re
Diario 1925-1945
A cura di Pier Paolo Cervone
Da leggere con attenzione, infine, la lucida sintetica biografia di Giorgio Rochat.
Rochat mette in evidenza la modesta capacità mostrata da Caviglia di leggere con precisione le situazioni politiche che si trovò a fronteggiare. Vanno riconosciute importanti attenuanti. Spesso Caviglia era privo delle necessarie informazioni, lontano fisicamente e relazionalmente dai luoghi delle decisioni. Emerge comunque una insufficiente attitudine a cogliere gli elementi determinanti, gli sviluppi repentini, le possibilità celate negli interstizi della storia. Altre grandi figure della storia italiana contemporanea, don Sturzo, Luigi Einaudi, Giovanni Amendola, come lui non sempre riuscirono a capire e ad agire nel modo opportuno, impacciati, viene da dire, dalla loro moralità e dai loro stessi elevati ideali.
domenica 29 marzo 2009
Rotta verso il nulla. La cultura dell'esclusione.
Le società occidentali contemporanee sono ferite dall'esclusione dai benefici della modernizzazione che, al di là delle difficoltà del momento, sembrano notevoli. Molto si è detto sui tratti oggettivi, quantitativi e non, di tale esclusione. Ma non si indaga abbastanza su una sorta di variegata "cultura dell'esclusione", di essa insieme concausa, elemento distintivo ed ostacolo importante al superamento. Tale cultura caratterizza una parte soltanto, ma significativa, degli individui emarginati ed esclusi, soprattutto giovani o giovanissimi.
Si tratta di una visione della vita e delle cose che arriva talvolta a considerare l'emarginazione e l'esclusione come situazioni positive, che danno e non tolgono. L'approccio ai problemi che la connota è distruttivo. L'attrazione per il nulla inarrestabile. Il peso ed il fascino del "qui ed ora" totale.
Occorre che le istituzioni pongano in essere efficaci politiche inclusive. Ma senza incidere su questa cultura segnata dalla tendenza alla distruzione ed all'autodistruzione l'azione pubblica rischia di risultare poco efficace.
Occorre che le istituzioni pongano in essere efficaci politiche inclusive. Ma senza incidere su questa cultura segnata dalla tendenza alla distruzione ed all'autodistruzione l'azione pubblica rischia di risultare poco efficace.
venerdì 20 marzo 2009
La politica estera di Obama. Alla prova dei fatti.
Obama è ormai saldamente al timone degli Stati Uniti. In politica estera deve confrontarsi con i loro tradizionali obiettivi: la difesa dei diritti dell' uomo, in particolare della libertà politica e religiosa; la diffusione delle istituzioni liberaldemocratiche e dei principi dello stato di diritto; la lotta contro la proliferazione nucleare, diretta soprattutto ad evitare che regimi autoritari ed irresponsabili ottengano armi atomiche; la garanzia della sopravvivenza e dell' integrità di Israele.
Il nuovo presidente mostrerà la sua grandezza se riuscirà a perseguire efficacemente questi obiettivi riducendo il ricorso ai metodi cruenti che tanto hanno pesato nella valutazione dell' opera del suo predecessore. Se invece la sua suadente retorica coprirà l' abbandono di fatto dei grandi obiettivi che hanno segnato tradizionamente la politica estera americana, passerà alla storia come il liquidatore fallimentare non solo della potenza statunitense, ma anche e soprattutto di quel patrimonio ideale che nelle sue stesse parole rappresenta la sua costante fonte d' ispirazione. E' il momento dei fatti, presidente.
Il nuovo presidente mostrerà la sua grandezza se riuscirà a perseguire efficacemente questi obiettivi riducendo il ricorso ai metodi cruenti che tanto hanno pesato nella valutazione dell' opera del suo predecessore. Se invece la sua suadente retorica coprirà l' abbandono di fatto dei grandi obiettivi che hanno segnato tradizionamente la politica estera americana, passerà alla storia come il liquidatore fallimentare non solo della potenza statunitense, ma anche e soprattutto di quel patrimonio ideale che nelle sue stesse parole rappresenta la sua costante fonte d' ispirazione. E' il momento dei fatti, presidente.
domenica 8 marzo 2009
Per una nuova teologia laica. Con Dario Antiseri contro Vito Mancuso.
Arriva spesso perfino sui media italiani il dibattito volto a districare il problema di una teologia pienamente laica, capace di fare i conti fino in fondo con il pensiero laico contemporaneo e con la scienza in particolare. Nel panorama italiano si distinguono per risonanza e chiarezza le posizioni del filosofo della scienza Dario Antiseri e del teologo Vito Mancuso.
Dario Antiseri pensa, in sostanza, che una teologia laica, fondata sulle sole risorse della ragione umana, debba confrontarsi soprattutto con i due principali esiti del pensiero contemporaneo. Da un lato la piena consapevolezza dell'ineliminabile congetturalità della scienza: la "scienza su palafitte" di Karl Popper è una impresa collettiva i cui esiti sono sempre inevitabilmente provvisori, ipotetici, aperti a sviluppi imprevedibili. Dall'altro la convinta accettazione della cosiddetta legge di Hume, cioè della inderivabilità dei valori dai fatti, delle prescrizioni morali dalle descrizioni della natura. Questa prospettiva, conducendo alla distruzione di ogni "assoluto terrestre", lungi dal negare la compatibilità con la ragione di una religione rivelata e "tradizionale", cioè tramandata di generazione in generazione, come quella cristiana cattolica, apre ad essa ampi spazi.
Secondo il teologo Vito Mancuso si tratta invece di "argomentare a favore della bellezza, della giustizia e della sensatezza della vita, fino a ipotizzare che da essa stessa, senza bisogno di interventi dall'alto, sorga un futuro di vita personale dopo la morte". Pare, in sostanza, una ripresa del vecchio progetto deista sei-settecentesco, la cui tesi principale è che si può pensare Dio solo con gli attributi che ci indica la ragione secondo natura.
Le idee del professor Mancuso cozzano contro gli esiti prevalenti del pensiero contemporaneo (Popper, Wittgenstein, Lakatos, Feyerabend). Se la scienza dà sempre risultati congetturali e provvisori e non possiamo ricavare da essa un grammo di etica allora la ragione critica contemporanea, al di fuori della fede religiosa e di un progetto rivelato, non può parlare di Dio in termini positivi, nè trovare da sola soluzioni convincenti al problema di dare un senso all'esistenza ed una risposta assoluta alle domande morali fondamentali.
Dario ANTISERI, Cristiano perchè relativista, relativista perchè cristiano.
Dario ANTISERI, Credere
Vito MANCUSO, L' anima e il suo destino
Vito MANCUSO, Per amore. Rifondazione della fede.
Dario Antiseri pensa, in sostanza, che una teologia laica, fondata sulle sole risorse della ragione umana, debba confrontarsi soprattutto con i due principali esiti del pensiero contemporaneo. Da un lato la piena consapevolezza dell'ineliminabile congetturalità della scienza: la "scienza su palafitte" di Karl Popper è una impresa collettiva i cui esiti sono sempre inevitabilmente provvisori, ipotetici, aperti a sviluppi imprevedibili. Dall'altro la convinta accettazione della cosiddetta legge di Hume, cioè della inderivabilità dei valori dai fatti, delle prescrizioni morali dalle descrizioni della natura. Questa prospettiva, conducendo alla distruzione di ogni "assoluto terrestre", lungi dal negare la compatibilità con la ragione di una religione rivelata e "tradizionale", cioè tramandata di generazione in generazione, come quella cristiana cattolica, apre ad essa ampi spazi.
Secondo il teologo Vito Mancuso si tratta invece di "argomentare a favore della bellezza, della giustizia e della sensatezza della vita, fino a ipotizzare che da essa stessa, senza bisogno di interventi dall'alto, sorga un futuro di vita personale dopo la morte". Pare, in sostanza, una ripresa del vecchio progetto deista sei-settecentesco, la cui tesi principale è che si può pensare Dio solo con gli attributi che ci indica la ragione secondo natura.
Le idee del professor Mancuso cozzano contro gli esiti prevalenti del pensiero contemporaneo (Popper, Wittgenstein, Lakatos, Feyerabend). Se la scienza dà sempre risultati congetturali e provvisori e non possiamo ricavare da essa un grammo di etica allora la ragione critica contemporanea, al di fuori della fede religiosa e di un progetto rivelato, non può parlare di Dio in termini positivi, nè trovare da sola soluzioni convincenti al problema di dare un senso all'esistenza ed una risposta assoluta alle domande morali fondamentali.
Dario ANTISERI, Cristiano perchè relativista, relativista perchè cristiano.
Dario ANTISERI, Credere
Vito MANCUSO, L' anima e il suo destino
Vito MANCUSO, Per amore. Rifondazione della fede.
lunedì 2 marzo 2009
Diario della crisi. Quando i rimedi sono peggiori del male.
Due parole ancora sulla grave crisi economica in atto.
Una domanda drogata da un eccessivo e patologico ricorso al debito, prima pubblico e poi privato, tende ad implodere. I vizi del commercio internazionale e della ricerca globalizzata dei fattori della produzione, ingigantiti dalla mancata applicazione agli operatori economici di regole comuni e virtuose, danneggiano in profondità economie tradizionalmente arricchite da imprese dinamiche.
Non si può curare una crisi determinata dall'eccessivo consumo a debito e dalla fiducia in risorse fittizie con l'avventurosa prodigalità pubblica. Nè si deve tentare di ovviare ai vizi di un mercato distorto ed insufficiente con la riduzione dei suoi spazi, con il protezionismo.
Chi non è più giovane ha davanti agli occhi i disastri provocati dallo statalismo, dal collettivismo, dalla protezione di aziende inefficienti attuata da paesi ripiegati su se stessi, con una corruzione dilagante.
Occorre controllare il lievitare del debito, pubblico e privato.
Occorre realizzare un mercato vero, genuino, virtuoso, mediante l'attenta applicazione di regole comuni a tutti gli operatori economici, su scala globale. Occorre ripristinare ed incrementare la responsabilità individuale, elevando l'osservanza spontanea delle regole. Queste devono essere le priorità.
Le sofferenze individuali e spesso incolpevoli che questa situazione economica determina devono essere alleviate con un intervento pubblico selettivo ed attento a non causare un aumento strutturale ed incontrollato della spesa pubblica.
Sarebbe davvero un grave errore scambiare incerti effetti oggi su una condizione temporanea e contingente con il peggioramento più che probabile di un domani già in parte compromesso dalla miopia.
mercoledì 25 febbraio 2009
Della vita e della morte. Il Terzo partito.
Due giorni fa sul Corriere il prof. Angelo Panebianco ha lucidamente esposto le principali tesi sostenute dal cosiddetto "Terzo partito" che si è venuto a formare sulle questione, oggi vivacemente discussa, della fine della vita.
Scrive Panebianco:
"Due madornali errori di valutazione, a me pare, sono stati commessi da chi ha voluto gettare fra i piedi del Paese una questione di tale portata. Il primo è stato di avere sopravvalutato le capacità della democrazia di gestire questo problema. La democrazia può occuparsi di tutto, tranne che dell'essenziale (le questioni della vita e della morte, appunto). Non è attrezzata per fronteggiare un conflitto filosofico radicale fra opposte concezioni della vita.
I fautori della «sacralità della vita», i neo guelfi, sbagliano di grosso a volere imporre per legge a tutti i loro valori (la sacralità della vita è un concetto privo di senso per chi non crede in Dio). Facendo ciò essi attentano a quel pluralismo degli orientamenti di cui solo può vivere una società liberale. Ma sbagliano anche i fautori della «libertà di scelta». Costoro la fanno troppo semplice, banalizzano in maniera inaccettabile il problema. Non è vero che essi si limitano a rivendicare un «diritto» che i credenti sono liberi di non praticare. Perché pretendendo una legge che riconosca quel diritto essi, per ciò stesso, intendono fare prevalere la loro concezione della vita e della morte, imporre il principio secondo cui la decisione sulla morte di un uomo è nell'esclusiva e libera disponibilità di quell'uomo. Un principio che non può non ripugnare ai fautori della diversa e opposta concezione".
Si tratta di idee, queste sopra riportate e le altre riconducibili a tale "terza" posizione citata, in più punti condivisibili, pur essendo sollevabili importanti obiezioni. Prima di tutto va detto che i medici possono portare, nel caso concreto, la dote rappresentata dalle loro conoscenze tecniche, necessarie per la comprensione della situazione di fatto. Ma la logica stessa preclude la possibilità di ricavare direttamente e conseguentemente prescrizioni da descrizioni, principi morali da fatti. Dunque in nessun modo la scienza medica può indicare la "cosa giusta" facendo ricorso alle proprie specifiche risorse. Quindi i medici non possono avere l' ultima parola su questo.
Nè le questioni dibattute possono essere risolte dai giudici al di fuori di qualche suggerimento in più da parte del legislatore. Perchè la stessa previsione costituzionale del diritto di rifiutare le cure, salvi i casi di trattamenti obbligatori che la legge ordinaria può a certe condizioni prevedere, trova applicazione solo con difficoltà in casi di confine, come quello della povera Eluana. In quest' ultimo caso, del resto, quasi certamente, la sensibilità toccata e la visione della vita coinvolta non erano tanto quelle della donna, quanto piuttosto quelle di chi le stava vicino.
Probabilmente la strada da percorrere passa da un lato per un inevitabile contarsi, necessario in democrazia anche soltanto come male minore, dall' altro per il ricorso da parte del Parlamento ad alcuni strumenti, come l' obiezione di coscienza nonchè le attenuanti e le esimenti proprie del diritto penale, capaci di conferire flessibilità ed umanità a regole che non si possono non individuare.
Scrive Panebianco:
"Due madornali errori di valutazione, a me pare, sono stati commessi da chi ha voluto gettare fra i piedi del Paese una questione di tale portata. Il primo è stato di avere sopravvalutato le capacità della democrazia di gestire questo problema. La democrazia può occuparsi di tutto, tranne che dell'essenziale (le questioni della vita e della morte, appunto). Non è attrezzata per fronteggiare un conflitto filosofico radicale fra opposte concezioni della vita.
I fautori della «sacralità della vita», i neo guelfi, sbagliano di grosso a volere imporre per legge a tutti i loro valori (la sacralità della vita è un concetto privo di senso per chi non crede in Dio). Facendo ciò essi attentano a quel pluralismo degli orientamenti di cui solo può vivere una società liberale. Ma sbagliano anche i fautori della «libertà di scelta». Costoro la fanno troppo semplice, banalizzano in maniera inaccettabile il problema. Non è vero che essi si limitano a rivendicare un «diritto» che i credenti sono liberi di non praticare. Perché pretendendo una legge che riconosca quel diritto essi, per ciò stesso, intendono fare prevalere la loro concezione della vita e della morte, imporre il principio secondo cui la decisione sulla morte di un uomo è nell'esclusiva e libera disponibilità di quell'uomo. Un principio che non può non ripugnare ai fautori della diversa e opposta concezione".
Si tratta di idee, queste sopra riportate e le altre riconducibili a tale "terza" posizione citata, in più punti condivisibili, pur essendo sollevabili importanti obiezioni. Prima di tutto va detto che i medici possono portare, nel caso concreto, la dote rappresentata dalle loro conoscenze tecniche, necessarie per la comprensione della situazione di fatto. Ma la logica stessa preclude la possibilità di ricavare direttamente e conseguentemente prescrizioni da descrizioni, principi morali da fatti. Dunque in nessun modo la scienza medica può indicare la "cosa giusta" facendo ricorso alle proprie specifiche risorse. Quindi i medici non possono avere l' ultima parola su questo.
Nè le questioni dibattute possono essere risolte dai giudici al di fuori di qualche suggerimento in più da parte del legislatore. Perchè la stessa previsione costituzionale del diritto di rifiutare le cure, salvi i casi di trattamenti obbligatori che la legge ordinaria può a certe condizioni prevedere, trova applicazione solo con difficoltà in casi di confine, come quello della povera Eluana. In quest' ultimo caso, del resto, quasi certamente, la sensibilità toccata e la visione della vita coinvolta non erano tanto quelle della donna, quanto piuttosto quelle di chi le stava vicino.
Probabilmente la strada da percorrere passa da un lato per un inevitabile contarsi, necessario in democrazia anche soltanto come male minore, dall' altro per il ricorso da parte del Parlamento ad alcuni strumenti, come l' obiezione di coscienza nonchè le attenuanti e le esimenti proprie del diritto penale, capaci di conferire flessibilità ed umanità a regole che non si possono non individuare.
venerdì 20 febbraio 2009
Il mercato che non c'è.
Tempi duri per per i fautori del mercato e della libera circolazione di merci e servizi.
Ma se il mercato, correttamente inteso, è il luogo dove chi cerca beni e servizi incontra chi li offre secondo regole prestabilite, certe, uguali per ogni operatore e rese vigenti da un'attività di repressione delle infrazioni sufficientemente diligente, allora questo non può essere considerato il principale responsabile dei guai che affliggono le nostre economie.
Semplicemente perchè questo mercato genuino, durante i fasti della globalizzazione, non lo abbiamo mai visto.
Chi può sostenere che un imprenditore cinese ed uno, poniamo, tedesco o canadese abbiano dovuto subire gli stessi controlli sulla qualità dei loro prodotti e servizi?
O si siano procurati lavoro, materie prime ed altri fattori della produzione dovendo rispettare gli stessi limiti?
Chi può affermare, senza esporsi al dileggio, che le autorità competenti abbiano correttamente applicato le norme a tutela del risparmio, pure certamente esistenti, e diligentemente vigilato sulla gestione dei servizi finanziari?
Non abbiamo bisogno di meno mercato e concorrenza, ma di più mercato e concorrenza.
Quelli veri però, che possono nascere e restare vitali solo grazie a regole efficaci e fatte rispettare.
venerdì 13 febbraio 2009
Darwin, per esempio.
Stephen Jay GOULD, I Have Landed
Si trova finalmente in libreria questa raccolta di scritti divulgativi del grande studioso statunitense di scienze naturali scomparso pochi anni fa.
Largamente condivisibile è a mio parere la sua condanna della strumentalizzazione delle teorie darwiniane, spesso usate come armi improprie nella lotta politica e nelle battaglie culturali.
Ma le sue considerazioni hanno una portata generale, riecheggiando la regola intuita da Hume della inderivababilità dei valori dai fatti.
Da un suo articolo recentemente pubblicato nell' inserto domenicale del Sole24ore traggo alcuni passi lucidamente significativi:
"...il dato di fatto dell'evoluzione in generale (e la teoria della selezione naturale in particolare) non può, in ogni caso, offrire un legittimo sostegno a nessuna particolare filosofia morale o sociale"
"...nessuna verità scientifica può rappresentare una minaccia per la religione, giustamente concepita come ricerca di ordine morale e significato spirituale"
"La scienza però non può mai decidere la moralità della morale. Supponiamo di scoprire che un milione di anni fa, nelle savane africane, l'aggressività, la xenofobia, l'infanticidio selettivo e la sottomissione delle donne offrisse dei vantaggi darwiniani ai nostri progenitori cacciatori-raccoglitori. Una tal conclusione non sancirebbe – nel presente come nel passato – il valore morale di questi comportamenti, né di qualsiasi altro".
"Dobbiamo tuttavia rispettare i limiti della scienza se vogliamo trarre profitto delle sue autentiche intuizioni..... Anche Darwin comprese questo principio, giacché sospettava che il cervello umano, evoluto per altre ragioni nel corso di molti milioni di anni, potesse essere male equipaggiato per risolvere gli interrogativi più profondi e astratti sul significato ultimo della vita. Come scrisse al botanico americano Asa Gray nel 1860: «Ho la nettissima impressione che tutta la materia sia troppo profonda per l'intelletto umano. Un cane potrebbe speculare altrettanto bene sulla mente di Newton»".
Nella scienza non c' è un grammo di etica. Un microscopio non ci dirà ciò che è bene e ciò che è male, nè se il dio cristiano debba essere la nostra luce. Odifreddi vada a scuola da Gould.
Si trova finalmente in libreria questa raccolta di scritti divulgativi del grande studioso statunitense di scienze naturali scomparso pochi anni fa.
Largamente condivisibile è a mio parere la sua condanna della strumentalizzazione delle teorie darwiniane, spesso usate come armi improprie nella lotta politica e nelle battaglie culturali.
Ma le sue considerazioni hanno una portata generale, riecheggiando la regola intuita da Hume della inderivababilità dei valori dai fatti.
Da un suo articolo recentemente pubblicato nell' inserto domenicale del Sole24ore traggo alcuni passi lucidamente significativi:
"...il dato di fatto dell'evoluzione in generale (e la teoria della selezione naturale in particolare) non può, in ogni caso, offrire un legittimo sostegno a nessuna particolare filosofia morale o sociale"
"...nessuna verità scientifica può rappresentare una minaccia per la religione, giustamente concepita come ricerca di ordine morale e significato spirituale"
"La scienza però non può mai decidere la moralità della morale. Supponiamo di scoprire che un milione di anni fa, nelle savane africane, l'aggressività, la xenofobia, l'infanticidio selettivo e la sottomissione delle donne offrisse dei vantaggi darwiniani ai nostri progenitori cacciatori-raccoglitori. Una tal conclusione non sancirebbe – nel presente come nel passato – il valore morale di questi comportamenti, né di qualsiasi altro".
"Dobbiamo tuttavia rispettare i limiti della scienza se vogliamo trarre profitto delle sue autentiche intuizioni..... Anche Darwin comprese questo principio, giacché sospettava che il cervello umano, evoluto per altre ragioni nel corso di molti milioni di anni, potesse essere male equipaggiato per risolvere gli interrogativi più profondi e astratti sul significato ultimo della vita. Come scrisse al botanico americano Asa Gray nel 1860: «Ho la nettissima impressione che tutta la materia sia troppo profonda per l'intelletto umano. Un cane potrebbe speculare altrettanto bene sulla mente di Newton»".
Nella scienza non c' è un grammo di etica. Un microscopio non ci dirà ciò che è bene e ciò che è male, nè se il dio cristiano debba essere la nostra luce. Odifreddi vada a scuola da Gould.
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