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domenica 8 aprile 2012

Una grande politica per il nostro tempo.

Oggi il professor Ernesto Galli della Loggia, sul Corriere della Sera, ha commentato le recenti vicende politiche italiane con queste parole:

"Ma così ancora una volta il Nord, quel Nord che ho definito sopra «ideologico», ha dimostrato la sua antica, direi storica, difficoltà a fare politica, la sua incapacità a rappresentare un soggetto politico all'altezza dei suoi propositi.
Difficoltà e incapacità che hanno una sola origine: l'idea, condivisa tanto dalla Lega che dal berlusconismo, che al dunque la politica possa essere, e di fatto sia, solo rappresentanza di interessi (inclusi quelli di coloro che la fanno...), e nulla più. Non già, come invece è, visione generale, indicazione di traguardi collettivi e di strumenti adeguati, impulso autonomo mosso da valori, e su queste basi, poi, ma solo poi, anche mediazione creativa tra esigenze diverse".

Senza "visione generale, indicazione di traguardi collettivi e di strumenti adeguati, impulso autonomo mosso da valori", superamento della mera rappresentanza di interessi, non c'è grande politica capace di risolvere problemi. Si tratta di considerazioni condivisibili ma ovvie e non prive di una certa astrattezza, non toccando le condizioni, i presupposti, i limiti e i pericoli di ogni politica che guardi oltre gli interessi particolari tentando di dar corpo a visioni generali e soluzione a grandi problemi.
Molti pensano che sia soprattutto necessaria la disponibilità di statisti adeguati per ingegno e integrità. Ma forse è ancora più importante la ricettività dell'elettorato, la capacità degli elettori di cogliere l'essenza dei problemi, di premiare con il voto politiche ampie, lungimiranti. Elettori così non si ottengono facilmente. Presuppongono tradizioni e clima colturale idonei, spesso con vicende storiche impressionanti per intensità e tragicità come catalizzatori.
Si deve poi sottolineare il pericolo insito in ogni approccio esteso, in ogni visione generale dalla forte connotazione etica. Il rischio è quello di tentare di sottrarsi alla critica ed al giudizio, di continuare a percorrere con ostinazione vie che si sono rivelate sbagliate, di non riuscire a correggere gli errori. La grande politica corre sul filo del rasoio. Possono talvolta essere inaccettabili i suoi grandi obiettivi e/o intollerabili i suoi strumenti, i suoi metodi. Ma di essa non si può fare a meno, anche negli anni in cui la vita è meno difficile.
Le democrazie occidentali hanno conosciuto statisti lungimiranti come:


Churchill


De Gasperi


   Adenauer   


De Gaulle


Reagan


I video proposti mostrano l'ammirazione dei sostenitori ed il rispetto degli avversari. Ma non possiamo non indagare le condizioni e i limiti dei loro successi, le ragioni dei loro insuccessi, le tradizioni, i valori, le idee che hanno reso possibile e sorretto la loro opera.


martedì 3 aprile 2012

Riforma elettorale.

In uno dei suoi più recenti interventi nel dibattito pubblico Karl Popper riaffermò la sua visione della democrazia (La lezione di questo secolo - Intervista di Giancarlo Bosetti, 1992, Appendice, pp. 84 -87):

"La parola "democrazia" che significa "dominio del popolo" è purtroppo un pericolo. Ogni membro del popolo sa di non comandare, perciò sente che la democrazia è una truffa. E' qui che sta il pericolo. E' importante che si impari fin dalla scuola che "democrazia", a partire dalla democrazia ateniese, è il nome tradizionale che si dà a una costituzione che deve impedire una dittatura, una tyrannis".

"... non tutti noi possiamo governare e dirigere, ma tutti possiamo partecipare al giudizio sul governo, possiamo avere la funzione di giurati".

"Proprio questo dovrebbe essere...il giorno delle elezioni, non un giorno che legittima il nuovo governo, ma un giorno in cui noi sediamo a giudizio sul vecchio governo. Il giorno in cui il governo deve rendere conto del suo operato".


"...la differenza fra la democrazia come dominio del popolo e la democrazia come giudizio del popolo ha anche effetti pratici: non è affatto solo verbale. Lo si vede dal fatto che l'idea del dominio del popolo porta ad approvare una rappresentanza popolare proporzionale".

"Considero una disgrazia la proliferazione dei partiti e quindi anche la legge elettorale proporzionale. La frammentazione dei partiti infatti porta a governi di coalizione in cui nessuno si assume la responsabilità di fronte al tribunale del popolo perchè tutto è un inevitabile compromesso. Inoltre diviene molto incerto riuscire a liberarsi di un governo, perchè gli basterebbe trovare un nuovo piccolo partner nella coalizione per poter continuare a governare".

Il grande filosofo austriaco descrive correttamente la "democrazia" possibile e, insieme, capace di risolvere problemi. Del resto l'avversione per il proporzionalismo appartiene al miglior pensiero liberale. Basti leggere, per l'Italia, quanto lucidamente scritto da Luigi Einaudi.
Ma, come paventato da Popper, l'illusione della democrazia come governo del popolo è largamente diffusa. Da ciò la pressochè generale richiesta di maggiore "partecipazione" e di una rappresentanza politica a tal punto "specchio del popolo" da realizzare un genuino "governo popolare".
A questa visione comune a molti si aggiunge l'oggettiva difficile condizione in cui si trova l'Italia odierna, afflitta da problemi strutturali che possono essere affrontati con qualche speranza di successo solo prendendo misure impopolari.
Chi si accinge a riformare la legge elettorale deve fare i conti con queste due esigenze: venire incontro alla domanda di "partecipazione", di legittimazione popolare della rappresentanza politica, e consentire la formazione anche di governi di coalizione al di fuori della logica bipolare.
Tale situazione può condurre, qualora si giunga ad una riforma, ad una legge elettorale più proporzionale della attuale, con una attenuazione dei tratti bipolari del sistema. Una sciagura per il paese? Non necessariamente. L'Italia non può sopportare oltre un conflitto politico distruttivo. Sembra necessario accentuare la flessibilità del sistema, anche al provvisorio prezzo di rendere meno diretta l'efficacia del voto popolare.
Vale forse la pena di tollerare, esaminando i tentativi di riforma in atto, qualche distanza dai buoni principi della tradizione liberale. Con il proposito di giudicare severamente alla prossima occasione i politici che abbiano fatto cattivo uso di tale deviazione dalle migliori regole.


domenica 25 marzo 2012

Il modello Lee Kuan Yew. Singapore.


Lee Kuan Yew è stato il primo ministro di Singapore dal 1959 al 1990. Successivamente ha svolto nel governo un ruolo di influenza e consulenza. Si è ritirato nel 2011, pur continuando a partecipare al dibattito pubblico nazionale ed internazionale con scritti, interviste e conferenze.
Dopo una breve fusione con la Malesia, firmò nel 1965 un accordo di separazione che fece di Singapore uno stato indipendente e sovrano. Nei lunghi anni del suo governo il paese ha conosciuto un intenso sviluppo economico, realizzato grazie a una originale combinazione di autoritarismo politico, pianificazione familiare, approccio multiculturale, apertura agli investimenti stranieri, impulso alla costruzione di infrastrutture, edificazione di un efficiente sistema scolastico.
Il modello di governo di Singapore, caratterizzato da una repressione capillare del dissenso, dal ricorso alla pena di morte ed alle punizioni corporali (fustigazione), ma anche dalla lotta alla corruzione e dal conseguimento di obiettivi economici e sociali eclatanti, viene attentamente studiato dai gruppi dirigenti dei paesi nuovi protagonisti nel contesto internazionale segnato dalla globalizzazione.
Spesso il dibattito su questi temi esce dalle stanze del potere e dagli ambienti accademici e occupa spazi significativi sui media, vecchi e nuovi. Si confrontano sistemi autoritari come quello cinese e forme di stato democratiche, come quella indiana, che hanno consentito un notevole sviluppo economico. Alla democrazia rappresentativa liberale vengono riconosciute una maggiore efficacia legittimante, una maggiore trasparenza e una migliore capacità di gestire i conflitti. Non si deve nascondere però che le istituzioni della democrazia rappresentativa liberale vengono messe a dura prova nei periodi di grave crisi economica. Basti pensare al discredito in cui caddero negli anni Trenta del secolo scorso e che oggi si ripresenta in forme sempre più preoccupanti.
La tradizionale democrazia rappresentativa occidentale ha mostrato rilevanti problemi di efficienza. Processi decisionali pubblici farraginosi e inconcludenti, tendenza ad una espansione incontrollata della spesa pubblica, alta pressione fiscale, incapacità di far crescere le economie di mercato assicurando l'applicazione di regole generali adeguate, compromettono tradizioni e istituzioni che hanno permesso di attribuire e tutelare diritti individuali e collettivi in una misura mai prima conosciuta.
Occorre riprendere un percorso di sviluppo insieme economico e civile. La via maestra resta l'educazione alla libertà responsabile e all'autocontrollo. La manutenzione della nostra democrazia è infatti non da ora affidata ai cittadini elettori. Si formi un largo genuino consenso sulle misure necessarie. I governanti disposti a realizzarle si trovano sempre.




domenica 18 marzo 2012

Crisi: competitività decisiva.

Nonostante la cospicua riduzione dello spread relativo al tasso di interesse applicato al debito pubblico italiano, nei primi due mesi del 2012 sono rapidamente aumentate le ore di cassa integrazione autorizzate.
Secondo il segretario confederale Cgil Vincenzo Scudiere: "Il nostro sistema produttivo è invischiato in una crisi profondissima con prospettive pericolose di declino. La cosiddetta recessione tecnica comincia a dispiegare i suoi effetti sui lavoratori con un balzo deciso nella richiesta di ore di cassa. È sempre più difficile immaginare una inversione di tendenza senza una ripresa nelle produzioni e nei consumi". Scudiere riporta al centro dell'attenzione la produzione, correttamente, e i consumi, meno correttamente, perché se la competitività delle imprese che producono in Italia è bassa i consumatori acquisteranno in larga misura beni e servizi prodotti fuori del nostro paese.
Prima che il governo attualmente in carica suscitasse enormi speranze, il professor Pietro Reichlin, con riferimento alla manovra di inizio estate del precedente governo, aveva scritto sul Sole 24 ORE :

" La scommessa alla base dell'Uem è la determinazione di un equilibrio in cui un insieme di Paesi con culture, redditi e istituzioni diverse, possono crescere insieme senza ricorrere a trasferimenti unilaterali eccessivi nei confronti delle aree svantaggiate".

"Le caratteristiche del mercato interno di ogni Paese dell'Eurozona deve adattarsi alle condizioni economiche sovranazionali. Ciò significa una maggiore liberalizzazione nella circolazione di lavoro e capitale, politiche che favoriscano l'afflusso di investimenti diretti verso i Paesi periferici, liberalizzazioni per ridurre il peso dei settori protetti, una riqualificazione della spesa pubblica che favorisca la crescita del capitale umano e dell'innovazione, un sistema più efficiente di relazioni industriali e un alleggerimento della tassazione su lavoro e imprese".

"I commenti sulla manovra del Governo di questi giorni si sono concentrati molto sulla dimensione dei tagli e delle entrate. Ma se la manovra non affronta i problemi che sono alla base della mancanza di competitività del nostro Paese, l'obiettivo di portare il disavanzo primario in territorio negativo nei tempi previsti potrebbe non essere sufficiente".

Le considerazioni di Reichlin sembrano tuttora valide. Porre un freno al deficit pubblico o addirittura riportare il bilancio in pareggio non basta. Solo riducendo il divario di competitività che presentano molte imprese italiane e l'intero sistema paese si potranno creare nuovi vitali posti di lavoro e nuova ricchezza, realizzando la necessaria premessa di una riduzione del debito pubblico che non determini un insostenibile impoverimento di ampi settori della società.
Alle indicazioni dell'economista citato giova aggiungere quelle ricavabili da un incisivo studio/manifesto della Cgia di Mestre, ancora sostanzialmente corrispondente alla situazione italiana, che propone un "decalogo dei «costi diretti e indiretti che il nostro sistema economico sconta, rispetto alla media Ue, in materia di tasse, infrastrutture, giustizia civile, energia, pagamenti della Pubblica Amministrazione e competitività».
Pressione fiscale, infrastrutture, ritardi nei pagamenti della Pubblica Amministrazione, giustizia civile e istruzione, costi dell'energia, qualità delle istituzioni, criminalità organizzata, legislazione del lavoro, burocrazia, welfare costoso e inefficiente, alimentato con trasferimenti che gravano sulle regioni più produttive. Ecco il programma di governo di cui il paese ha bisogno. Vedremo se retorica e propaganda non sostituiranno una attività di governo pronta e coraggiosa.


sabato 10 marzo 2012

Cina e USA secondo Kissinger.



In un recente editoriale su La Stampa Gianni Riotta ha scritto:

"E' scontato che il prossimo conflitto del nostro pianeta veda Stati Uniti e Cina affrontarsi in guerra per l’egemonia? Lo sostengono a Pechino i falchi, persuasi da 3000 anni di timori di accerchiamento del Regno di Mezzo".

" Insomma per interessi economici, geopolitica, cultura e valori, è «inevitabile» la guerra Usa-Cina?".

"Per scongiurare la catastrofe della III guerra mondiale, la prima del XXI secolo, interviene il decano della diplomazia Henry Kissinger, con il saggio «The future of U.S. Chinese relations», che qui anticipiamo dal prossimo numero della rivista Foreign Affairs, e che già sta facendo discutere Casa Bianca e Dipartimento di Stato".

" Dopo aver criticato gli oltranzisti di Pechino e Washington, Kissinger compie il passo più astuto del buon stratega, cerca di capire quali sono le paure dei contendenti che possano scatenare mosse azzardate. La paura cinese, scrive, è essere accerchiati nei confini nazionali, senza accesso alle vie dei commerci e della comunicazione globale: ogni volta che la fobia scatta, Pechino va in guerra, Corea 1950, India 1962, Urss 1969, Vietnam 1979. La speculare angoscia americana è perdere accesso e influenza sull’Oceano Pacifico, e Kissinger, profugo europeo da bambino, ricorda che solo questo fattore trascina gli Usa in guerra nel 1941".

"Con freddezza che impressiona, Kissinger, l’uomo che col presidente Nixon ha riportato la Cina nel mondo e isolato l’Urss ai tempi della Guerra Fredda, ammonisce i rivali: non fatevi illusioni, lo scontro sarebbe nucleare, feroce e vi indebolirebbe entrambi per sempre. Devastando città ed economia e paralizzando anche, per la prima volta nella storia dell’umanità grazie alla cyber guerra, Internet e le comunicazioni, satelliti tv, Gps inclusi. «Le stesse culture» cinesi ed americane, conclude Kissinger, porterebbero i duellanti a non darsi tregua fino in fondo, lasciandosi alle spalle macerie e vittime".

L'analisi pare sbagliata a partire dalle sue premesse storiche. Secondo l'ex segretario di stato USA, come citato da Riotta, ogni volta che la fobia dell'accerchiamento scatta "Pechino va in guerra": Corea 1950, India 1962, Urss 1969, Vietnam 1979. Si tratta di conflitti profondamente diversi tra loro. Ma quello che sembra in ogni caso inesistente è proprio il fattore "accerchiamento" delineato da Kissinger.
La guerra di Corea cominciò per iniziativa del regime nord coreano e solo con il consenso di Stalin, quando la Repubblica popolare cinese, appena costituita, era ancora legata all'Unione Sovietica (Christopher ANDREW e Vasilij MITROKHIN, L'Archivio Mitrokhin - Una storia globale della guerra fredda, 2005, p. 265).
Victor Zaslavsky in Storia del sistema sovietico, 2009, pag.142, ha ben riassunto le ragioni e le circostanze dell'intervento cinese in questa guerra:

"Stalin ha formulato molto chiaramente la sua posizione riguardo alla inevitabilità e persino all'opportunità della Terza guerra mondiale in una lettera a Mao Tse-tung dell'ottobre 1950 in cui proponeva alla Cina di inviare le sue truppe in Corea". "La politica estera staliniana, basata sull'idea dell'inevitabilità della guerra, stava portando sull'orlo della Terza guerra mondiale".

Successivamente la Cina diventò un duro avversario dell'URSS. Il contrasto cino-sovietico venne alla luce nella primavera del 1960 (v. ANDREW e MITROKHIN, op.cit., pag. 273). Nel corso del 1969 ci furono alcuni scontri armati tra truppe cinesi e sovietiche, poco più che scaramucce, ma lo stesso Kissinger, come risulta da un altro suo scritto, espresse la convinzione che gli aggressori fossero i sovietici (Henry KISSINGER, White House Years, 1979, pp. 174-177).
Nel febbraio 1979 forze cinesi invasero il Vietnam, alleato dell'Unione Sovietica. Un mese prima Cina e USA avevano instaurato regolari relazioni diplomatiche, a suggello di un'intesa in funzione antisovietica (v., ancora, ANDREW e MITROKHIN, op cit, p. 288). L' invasione cinese dell'India nell'ottobre 1962 rappresentò invece una fase cruenta dell'annosa controversia sul confine tra i due paesi tuttora in atto.
Nel pensiero di Kissinger, presentato da Riotta, "L’alternativa alle armi è l’idea di una «Comunità del Pacifico», con Pechino e Washington a convivere intorno ad organizzazioni tipo Trans-Pacific Partnership, zona di libero scambio economico cui il presidente Obama vuole associare la Cina. Se i due ultimi giganti si legano reciprocamente - sul modello di Usa e Europa - possono risolvere i conflitti negoziando, magari con maratone diplomatiche estenuanti. Washington, Londra, Parigi, Berlino e Roma possono dividersi e riunirsi, ma senza spargere mai sangue".
Però Europa e USA condividono istituzioni democratiche e principi liberali. Si tratta di un'apertura reciproca fondata su comuni principi e regole fondamentali. Comunanza che non è senza conseguenze sulla competizione economica. Democrazia, libertà, rispetto dei diritti umani e dell'ambiente "costano", fanno crescere pressione fiscale, debito pubblico, costo del lavoro, costi di produzione, rallentano i processi decisionali pubblici e la costruzione di infrastrutture.
La Cina in questo senso trae dai tratti autoritari del suo regime importanti vantaggi competitivi in ambito economico. Quando l'Occidente sostiene i dissidenti cinesi persegue indirettamente l'obiettivo di una competizione economica leale, secondo regole comuni che non attribuiscano ai cinesi vantaggi ingiustificati. Una pressione di questo tipo spingerà la superpotenza cinese alla guerra? Diversamente da ciò che sembra sostenere Kissinger, pare da escludere. I governanti cinesi non sono più pesantemente condizionati dall'ideologia e non sono realmente accecati dal nazionalismo. Sono tecnocrati astuti, che non porteranno alla distruzione il loro paese e il loro popolo. Più Ronald Reagan e meno Kissinger dunque, se si vuole evitare che l'Occidente diventi sempre più terra di speculatori e di disoccupati.


sabato 3 marzo 2012

Mario Draghi. Un' Europa meno sociale e più competitiva.


Il presidente della Bce Mario Draghi in una recente intervista al Wall Street Journal ha dichiarato:
"Il modello sociale europeo è già andato nel momento in cui alcuni paesi hanno un tasso di disoccupazione giovanile elevato. Le riforme strutturali sono necessarie per aumentare l'occupazione, specialmente giovanile, e, quindi, i consumi e la spesa".
"Rudi Dornbusch era solito dire che gli europei sono così ricchi da potersi permettere di pagare tutti per non lavorare. Questo tempo è andato"

Il welfare europeo è stato costruito in economie protette. Ma la globalizzazione ha posto le economie europee in competizione con quelle di paesi caratterizzati da un "welfare produttivistico" che protegge gratuitamente, e neppure sempre, soltanto gli indigenti.
Da un lato un modello sociale che determina elevata spesa pubblica, alta pressione fiscale e spesso un imponente debito pubblico. Dall'altro sistemi che consentono di contenere spesa pubblica, pressione fiscale e debito pubblico, stimolando l'impegno individuale ed il risparmio.
Ciò si traduce in uno svantaggio competitivo che non può durare a lungo senza compromettere la vitalità delle imprese e la possibilità di conseguire un alto tasso di occupazione.
Sembra dunque indispensabile riformare il nostro stato sociale. Del resto, come ha efficacemente precisato il professor Maurizio Ferrera, "I diritti... non sono tutti uguali. Alcuni (quelli civili e politici) tutelano libertà e facoltà dei cittadini e sulla loro certezza non si può transigere. I diritti sociali sono diversi: conferiscono spettanze, ossia titoli a partecipare alla spartizione del bilancio pubblico, che a sua volta dipende dal gettito fiscale e dal funzionamento dell'economia. Dato che al mondo non esistono pasti gratis, i diritti sociali non possono essere considerati come delle garanzie immodificabili nel tempo. Il loro contenuto deve essere programmaticamente commisurato alle dimensioni della torta di cui si dispone e all'andamento dell'economia e della demografia".
Ma gli osservatori più avveduti del nostro difficile tempo vedono gli ostacoli e le difficoltà. Scrive Antonio Polito sul Corriere della Sera:
"si sta creando una tensione molto forte tra ciò che va fatto e ciò che gli elettorati sono disposti ad accettare, e questa tensione «democratica» è da sempre il pericolo maggiore per l'Unione, progetto di élite e tecnocratico per eccellenza. La Merkel è nei guai che abbiamo visto, e deve conquistarsi un terzo mandato l'anno prossimo. Ma già tra poche settimane in Francia una vittoria del socialista Hollande potrebbe portare alla richiesta francese di rinegoziare il Trattato fiscale appena varato. Senza contare che i sondaggi in Grecia pronosticano un trionfo di estremisti di ogni colore, e che in Italia nessuno sa chi governerà tra un anno, e se per vincere dovrà promettere di fermare la marcia delle riforme. Neanche ancora scampato ai mercati, l'euro è ora nelle mani degli elettorati".
L'editorialista del Corriere non esplora a sufficienza una prospettiva inquietante. Si moltiplicano i segnali della trasformazione dell'opposizione alle riforme in una temibile questione di ordine pubblico. Lo scenario diverrebbe segnato da convulsioni politico - sociali difficili da superare.
Probabilmente è nel giusto chi, al di là delle apparenze, vede in insufficienze culturali e morali i fattori decisivi della inadeguata risposta alla crisi. Emergono chiari il fallimento delle principali agenzie educative, l'efficacia devastante di lunghi decenni di propaganda politica demagogica, la pochezza intellettuale e morale di tanti cattivi maestri che hanno occupato cattedre, riempito di assurdità gli scaffali delle librerie, imbrattato le pagine dei quotidiani.
Non bisogna però pensare che sia troppo tardi per iniziare una correzione di rotta. Uno sforzo sufficientemente condiviso, che trovi la propria premessa nell'accettazione di amare verità, può rallentare il declino, quel tanto che basta a rendere insostenibili le contraddizioni dei nostri spregiudicati competitori. Poi si vedrà.






venerdì 24 febbraio 2012

Tocqueville e Russell. Le donne americane.

Tocqueville (La Democrazia in America, libro terzo, parte terza, capitolo dodicesimo):

"Gli americani mostrano continuamente una piena fiducia nella ragione della loro compagna e un rispetto profondo per la sua libertà. Essi giudicano che il suo spirito sia altrettanto capace di scoprire la verità quanto quello dell'uomo ed il suo cuore abbastanza costante per seguirla".

"Se ora che mi avvicino alla fine di questo libro, in cui ho mostrato tante cose considerevoli fatte dagli americani, mi si domandasse a cosa io credo si debba attribuire la singolare prosperità e la forza sempre crescente di questo popolo, risponderei che la si deve alla superiorità delle sue donne".

Un secolo dopo, Bertrand Russell:

"L'azione della donna è sempre stata maggiore negli Stati Uniti che in qualsiasi altro paese, e nelle comunità di frontiera essa si svolse nel senso della civiltà. Ciò era dovuto in parte al fatto che esse non bevevano whisky, in parte al desiderio di una distinzione sociale, in parte al sentimento materno e in parte al fatto che erano imbevute meno dei loro mariti del selvaggio desiderio, proprio dell'avventuriero, di liberarsi delle pastoie di una società artificiale. Alla frontiera vi erano naturalmente meno donne che uomini, e questo le aiutava a imporre rispetto. Nonostante la sfrenatezza delle riunioni all'aperto, la religione era nel complesso una forza purificatrice, e in genere le donne erano più religiose degli uomini. Per tutti questi motivi, le donne tenevano viva l'aspirazione a una esistenza ordinata, anche in condizioni che, per il momento, la rendevano impossibile" (Bertrand RUSSELL, Storia delle idee del secolo XIX, 1968, pagg. 363 e 364, tit. orig. Freedom and Organization, 1814–1914).

Un grande paese deve soprattutto alle sue donne la propria fortuna.




venerdì 17 febbraio 2012

Obama e i talebani. Come rendere inutili dieci anni di guerra.

I governi statunitense e afghano hanno intrapreso trattative segrete trilaterali per porre fine al conflitto in Afghanistan. Questi sviluppi sono stati resi possibili dalla recente apertura di un ufficio diplomatico dei talebani a Doha (Qatar) e dalla disponibilità dell'amministrazione USA a favorire il trasferimento in Qatar di non più di cinque terroristi detenuti a Guantanamo.
Oltre alla liberazione dei detenuti nel carcere cubano i talebani chiedono l' uscita dall'Afghanistan delle truppe straniere. Mentre il governo americano dichiara di esigere la fine della lotta armata, la rescissione dei legami con al-Qaeda e l'accettazione della nuova costituzione afghana, con la garanzia dei diritti di uomini e donne.
Le elezioni si avvicinano. Obama è gravato del bilancio fallimentare della sua presidenza. Lo sbrigativo ritiro dall'Iraq e dall'Afghanistan si spiega con la necessità di recuperare consensi e di contenere la spesa pubblica. Ma la sofferta vittoria in Iraq viene così posta a rischio mentre appare certa l'incapacità del governo afghano di provvedere alla sicurezza del proprio territorio senza il decisivo contributo delle truppe occidentali.
AsiaNews è una agenzia del Pontificio Istituto Missioni Estere (P.I.M.E.). Solitamente molto ben informata, è una fonte preziosa per chi vuole sapere cosa succede in Asia.
Secondo le fonti di AsiaNews " Stati Uniti e governo afghano sono in una posizione di debolezza rispetto ai ribelli, che in questi mesi hanno ripreso il controllo di diverse aree del Paese e in settembre sono riusciti a sferrare un attacco nella capitale. "Se le truppe internazionali lasciassero ora l'Afghanistan - sottolineano - il Paese piomberebbe nel caos. A tutt'oggi l'esercito afghano è troppo impreparato e non ha sufficienti mezzi per garantire la sicurezza. L'uscita da al-Qaeda non è una garanzia di abbandono totale della guerriglia. Ci sono molti gruppi terroristi afghani legati ai talebani che nulla hanno a che fare con l'organizzazione. Inoltre nessun leader islamico si è espresso sul riconoscimento della costituzione afghana".
Tali fonti "criticano l'eccessiva esuberanza con cui l'amministrazione Obama sta gestendo gli incontri. Per spingere gli estremisti islamici a iniziare subito i colloqui, nelle scorse settimane Barak Obama, presidente USA, ha proposto il rilascio di tre detenuti dal carcere di massima sicurezza. "Gli Stati Uniti - sottolineano - sono troppo sbrigativi. Alcuni dei detenuti hanno commesso stragi di civili e sono in carcere per crimini contro l'umanità e non possono essere rilasciati senza garanzie". "Il futuro del Paese - concludono - dipende dal dialogo con i talebani, la guerra non può più andare avanti. Per non rendere inutili questi anni di continui combattimenti e spargimenti di sangue, i negoziatori dovranno però essere risoluti a non cedere sulle conquiste della lotta contro i talebani: democrazia e rispetto dei diritti umani".
Ma si tratta in realtà di richieste inconciliabili. Il disimpegno bellico degli alleati occidentali in Afghanistan non potrà avvenire senza compromettere lo sviluppo della democrazia afghana e senza consentire il ritorno al potere dei gruppi talebani più influenti, secondo l'opinione prevalente controllati dal Pakistan.
Obama conferma il suo ruolo di curatore fallimentare. Può darsi che i suoi elettori apprezzino l'abbandono di responsabilità oggi difficili da sostenere, non vedendo le conseguenze negative che potranno derivarne.


sabato 11 febbraio 2012

Il successo di Newton. Il pericoloso fascino della scienza trionfante.

Isaac Newton

E' diffusa la consapevolezza della immensa influenza che la scienza esercita sulla vita umana aprendo la via a nuovi prodotti e processi produttivi. Si riflette invece troppo poco sulle relazioni tra l'impresa scientifica e il clima intellettuale e politico. Il successo straordinario di alcuni programmi di ricerca scientifici, le teorie di Newton, Darwin e Einstein, ha contribuito potentemente a mutare visioni morali e politiche e quindi il corso stesso della storia. Una migliore conoscenza della storia della scienza ed una più attenta considerazione della portata dell'impresa scientifica sono oggi più che mai indispensabili.
La meccanica celeste newtoniana ha rappresentato il primo programma di ricerca capace di conseguire un successo imponente ed assoluto. La sua divulgazione in termini agiografici ha trasfigurato Newton costruendo il mito dello scienziato illuminista e positivista.
Imre Lakatos ha fornito una efficace sintesi di questi sviluppi (La metodologia dei programmi di ricerca scientifici, 2001, pag. 278):

"L'influenza del successo newtoniano raggiunse anche il pensiero politico".

"La lotta per il riconoscimento della meccanica celeste di Newton come episteme prese un certo tempo; ma, quando ciò accadde, l'intero clima intellettuale subì un tremendo mutamento. Buona parte del pensiero del del diciottesimo secolo fu determinato dai due principali eventi del secolo precedente, i cui effetti furono contrastanti. Il primo fu costituito dalle terribili sofferenze e dal caos creati dalla guerra fra cattolici e protestanti. Il secondo dalle scoperte di Newton. La reazione al primo evento fu un tollerante illuminismo scettico: non c'era modo di ottenere la verità dimostrata sulle questioni più importanti, quindi chiunque doveva aver diritto alle proprie credenze. Il più noto esponente di questa posizione fu Bayle. La reazione al secondo evento fu un intollerante illuminismo dogmatico: la luce della scienza - che andava estesa a tutti i domini della conoscenza umana - doveva scacciare le tenebre pre-newtoniane e anche le tenebre della Chiesa. Il leader di questo movimento fu il newtoniano Voltaire. L'influenza di questo intollerante illuminismo dogmatico superò ben presto quella della sua controparte scettica e tollerante e generò le idee della democrazia totalitaria."

Ma il trionfo conseguito dalle teorie di Newton influenzò profondamente anche Kant. Sul tema le lucide considerazioni di Karl Popper (Congetture e confutazioni, 2000, pagg. 161 e 162):

"Forse è difficile per degli intellettuali dei giorni nostri, avvezzi e assuefatti di fronte allo spettacolo dei successi scientifici, comprendere quel che significava la teoria newtoniana, non solo per Kant ma per qualunque pensatore del diciottesimo secolo".

"In un tempo come il nostro, in cui le teorie vanno e vengono come gli autobus a Piccadilly, e ogni scolaro ha sentito dire che Newton è stato da tempo sostituito da Einstein, è difficile riprovare il senso di persuasione, esultanza e liberazione che la teoria newtoniana ispirava. Nella storia del pensiero era accaduto un evento unico, per sempre irripetibile: la prima e definitiva scoperta della verità assoluta intorno all'universo. Un antico sogno si era avverato. L'umanità aveva conseguito la conoscenza, reale, certa, indubitabile e dimostrabile - scientia o episteme divina, e non meramente doxa, opinione umana.
Per Kant, dunque, la teoria newtoniana era semplicemente vera, e la credenza nella sua verità restò intatta per un secolo dopo la sua morte"

Popper sottolineò il ruolo rivoluzionario delle teorie di Einstein (op. cit., pag. 52):

"... può apparire strano che nella sua filosofia della scienza Kant non abbia adottato lo stesso atteggiamento del razionalismo critico, la ricerca critica dell'errore. Sono certo che solo l'accettazione della cosmologia di Newton come autorità - risultato del successo quasi incredibile nel superare i controlli più severi - impedì a Kant di farlo. Se questa interpretazione è corretta, allora il razionalismo critico, e anche l'empirismo critico da me sostenuto, non è altro che il tocco ultimo apportato alla filosofia critica di Kant. E ciò fu reso possibile da Einstein, il quale ci insegnò che, nonostante il suo schiacciante successo, la teoria di Newton può anche essere errata".

La rivoluzione scientifica realizzata dal fisico tedesco determinò in larga misura l'incisiva revisione dell'idea di scienza che ha segnato la migliore filosofia contemporanea. Ancora il grande filosofo austriaco sugli effetti della rivoluzione einsteiniana (Karl POPPER, La ricerca non ha fine, 1978, pag. 85):

"L'elemento decisivo in tutto questo, il carattere ipotetico di tutte le teorie scientifiche, mi appariva chiaramente come una conseguenza del tutto naturale della rivoluzione einsteiniana, che aveva dimostrato che nemmeno una teoria controllata col massimo successo, come la teoria di Newton, poteva essere considerata più che un'ipotesi, un'approssimazione alla verità".

Anche la portata extrascientifica del successo della teoria dell'evoluzione di Darwin merita una approfondita analisi. Sull'argomento ha scritto brillantemente il biologo e paleontologo statunitense Stephen Jay Gould.

Resta da biasimare l'involuzione che caratterizza il dibattito pubblico contemporaneo sulla scienza in Italia. Le opere divulgative di noti matematici, astrofisici e biologi bene in vista sugli scaffali delle librerie troppo spesso ripropongono la visione della scienza sostanzialmente dogmatica e intollerante criticata con successo dai grandi filosofi della scienza della seconda metà del Novecento (Popper, Lakatos, Kuhn, Feyerabend). Un regresso da indagare con attenzione, sottolineando il ruolo delle passioni politico-ideologiche.




sabato 4 febbraio 2012

Alta pressione fiscale e crescita. Una convivenza impossibile.

E' di qualche giorno fa un importante articolo di Antonio Martino:

"...il potenziamento del fondo salva Stati cos’è se non una sorta di assicurazione offerta agli Stati gratuitamente per l’eventualità che non rispettino la disciplina fiscale loro imposta?... Da un lato si vuole rigore nella gestione del pubblico bilancio, dall’altro si garantisce che eventuali violazioni di quel rigore saranno premiate con risorse fornite dal fondo!".

"...il tentativo di eliminare i deficit di bilancio degli Stati ai livelli di spesa pubblica attuali condanna l’intera Europa a una grave recessione, le cui dimensioni, temo, saranno ben maggiori di quanto già previsto. Il principio del pareggio del bilancio su base annua è fondamentale principio di trasparenza nella gestione della cosa pubblica quando le spese del settore pubblico sono contenute. Diventa, invece, garanzia di recessione quando, come oggi in Italia, la spesa pubblica supera il 52% del reddito nazionale. Per pareggiare il bilancio sarebbe necessaria una pressione fiscale del 52% e il contribuente medio dovrebbe sopportare un’aliquota del 52%. Se il prelievo medio è a quel livello, dato che esistono anche contribuenti poveri, quelli che hanno un reddito superiore alla media dovranno versare al fisco ben più della metà di quanto producono. L’aliquota media gravante sulle imprese supererebbe agevolmente il 70-80%".

"Lo sviluppo diventa matematicamente impossibile: se deve consegnare più di metà del suo reddito, è assai dubbio che il contribuente possa darsi alla pazza gioia, accrescendo i consumi, o che possa stringere la cinghia risparmiando quanto necessario a una crescita degli investimenti".

"Stiamo senza esitazione condannando il vecchio continente e forse l’intero pianeta a una crisi grave ed evitabile. L’Italia ha bisogno urgente di riforme, che portino alla trasformazione dell’attuale, insostenibile sistema di trasferimenti. Il servizio sanitario nazionale dovrebbe smettere di essere universale, prendendo a tutti per dare (non sempre) a tutti, e diventare selettivo, prelevando dagli abbienti per dare agli indigenti. Costerebbe molto meno, sarebbe meno esposto alla corruzione e non sarebbe più regressivo; oggi grava di tributi anche i meno abbienti per fornire servizi gratuiti anche ai ricchi, la sua inefficienza è testimoniata dalla frequenza di episodi di malasanità, la sua corruzione è ampiamente documentata e il suo costo è astronomico".

"La governance locale non è sostenibile: i quattro quinti degli oltre ottomila comuni sono del tutto superflui, la maggior parte delle province non ha ragion d’essere e le regioni sono troppo grandi o troppo piccole per essere un efficiente ente locale. Quanto ai parchi nazionali ne basterebbe un numero drasticamente minore, lo stesso vale per le comunità montane, le autorità indipendenti e così via".

"Queste riforme consentirebbero di ridurre la spesa pubblica a un livello inferiore al quaranta per cento del reddito nazionale e potrebbero con grande tranquillità essere accompagnate da una radicale riforma fiscale che porti le aliquote medie delle imposte dirette a livelli non superiori al venti per cento".

Il professor Antonio Martino, con coraggio e lucidità, si pone fuori dal coro dei conformisti e mette il dito sulla piaga:
"Lo sviluppo diventa matematicamente impossibile: se deve consegnare più di metà del suo reddito, è assai dubbio che il contribuente possa darsi alla pazza gioia, accrescendo i consumi, o che possa stringere la cinghia risparmiando quanto necessario a una crescita degli investimenti".
L' Italia può sperare di risalire la china della competitività solo riducendo la pressione fiscale, ormai superiore alla metà del PIL, mentre in Cina probabilmente non supera il 20%. E può conseguire questo risultato solo riformando dalle fondamenta il suo welfare, che "oggi grava di tributi anche i meno abbienti per fornire servizi gratuiti anche ai ricchi".
Alle considerazioni di Martino si deve aggiungere che uno stato sociale più corto e diretto alla protezione di chi ha realmente bisogno della mano pubblica è esattamente quello previsto dalla Costituzione italiana vigente. La Repubblica è infatti chiamata a garantire cure gratuite "agli indigenti" (art. 32 Cost.) e a rendere effettivo il diritto dei " capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi", di "raggiungere i gradi più alti degli studi" "con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso" (art. 34 Cost.).


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