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sabato 12 novembre 2011

Poteri forti o Occidente debole?

Ormai da alcuni anni le due sponde dell'Atlantico sono unite da una comune grave crisi economica, che in questo momento colpisce in particolare le finanze pubbliche. Le lobbies finanziarie-bancarie spingono i governi ad intervenire, mentre i loro esponenti riescono spesso a ottenere cospicui guadagni. La gente vede tutto questo e addebita le difficoltà e i danni subiti proprio a tali lobbies, a operatori economici senza scrupoli, pretendendo dai governi misure drastiche contro gli speculatori.
Finanzieri e banchieri cercano di massimizzare i profitti, mentre le loro lobbies esercitano una incisiva influenza. Ma in realtà si tratta di condotte abituali nelle economie occidentali, anche in periodi di crescita e diffuso benessere. L'attenzione dovrebbe invece soprattutto fermarsi su alcuni dati capaci di indirizzare la ricerca in altre direzioni.
La Cina ha una pressione fiscale oltre venti punti più bassa di quella italiana, tedesca e francese (meno del 20% contro oltre il 40% del PIL). Ha un debito pubblico quasi certamente inferiore al 20% del PIL, mentre sono intorno al 90% Francia e Germania, a loro volta virtuose rispetto a Italia e Giappone, che presentano un debito pubblico ben maggiore del 100% del PIL.
Bassa pressione fiscale e debito pubblico contenuto sono ottenuti grazie ad un welfare cortissimo, che "copre" poco, costa poco, utilizza strumenti semiprivati, costringe individui e famiglie a risparmiare, studiare e lavorare duramente. Anche a ciò è connessa l'alta capacità di esportare. Tutto questo consente di accumulare ingenti riserve valutarie.
E' poi indispensabile confrontare mentalità, tradizioni, visione del mondo e della vita. Pur con qualche adattamento, sono largamente applicabili considerazioni svolte dal professor Luca Ricolfi a proposito degli immigrati in Italia (La Repubblica delle tasse, 2011, pagg. 45 e 46):

"E infatti i nuovi posti sono spesso di livello modesto, e finiscono per essere accettati soltanto dagli stranieri".
"La differenza è che "loro" vivono in un altro tempo, che noi abbiamo dimenticato. Un tempo in cui la cosa fondamentale era avere un lavoro, non importa quanto adeguato all'immagine che abbiamo di noi stessi, un tempo in cui fare sacrifici era normale, un tempo in cui il benessere non era considerato un diritto".


A tali fattori si devono aggiungere processi decisionali pubblici più rapidi, burocrazia in via di razionalizzazione, stipendi tuttora più bassi.
Considerazioni analoghe valgono per altri paesi asiatici e, in parte, per Russia e Brasile.
La finanza internazionale guarda l'Occidente in crisi e valuta realisticamente prospettive di crescita, sostenibilità del debito pubblico, struttura dello stato sociale, possibilità di sviluppo dei consumi interni, in una economia globalizzata, vendendo, acquistando, speculando di conseguenza.
Dunque cinici poteri forti o piuttosto Occidente debole, in declino? I nostri politici ed economisti non nascondano ai loro concittadini l'inevitabile risposta.


giovedì 10 novembre 2011

La Repubblica delle tasse.

E' in libreria dal mese scorso La Repubblica delle tasse, di Luca Ricolfi. Il professor Ricolfi è docente di analisi dei dati presso l'Università di Torino. Il libro costituisce una rielaborazione dei suoi ultimi scritti pubblicati sulla "Stampa" e su "Panorama".
I principali temi che infiammano il dibattito pubblico - sistema fiscale, fattori politici del declino italiano, federalismo, questioni meridionale e settentrionale, effetti della globalizzazione, prospettive del paese - sono discussi con ricchezza di argomenti. Particolare attenzione è prestata al problema della insufficiente crescita economica.
Ricolfi chiude il suo lavoro con queste parole:

"D'altronde la spudoratezza con cui le forze politiche eludono il problema della crescita ha la sua base nell'immaturità dei cittadini-contribuenti. L'unico tema che sembra davvero appassionare i cittadini è chi dovrà pagare di più: il Nord o il Sud, i pensionati o i lavoratori, i dipendenti o gli autonomi, i ricchi o i poveri, gli evasori o gli onesti. Mentre il punto centrale per il futuro di tutti noi è un altro: non tanto se le misure saranno giuste, ma se saranno efficaci. Ed è su questo, solo su questo, che - temo - ci giudicheranno i mercati".
Un taglio insolitamente franco in un paese come il nostro, dove gli intellettuali sono spesso al prevalente servizio di corporazioni e gruppi politici, da cui dipende la propria personale affermazione.
La Repubblica delle tasse è un' agile opera indispensabile per comprendere l'Italia contemporanea. Rappresenta una lettura utilissima anche per i nostri giovani, che possono trovare in essa un modello di approccio critico e di ricerca della verità.


Luca Ricolfi è direttore della rivista Polena, dove è possibile leggere numerosi suoi interessanti scritti.




giovedì 3 novembre 2011

Che fare?

Piero Ostellino in un coraggioso editoriale sul Corriere della Sera di oggi (pdf) denuncia l'immobilismo e le piccole furbizie della classe dirigente italiana:

"Le divisioni, sia nella maggioranza, sia fra le opposizioni, riflettono il rifiuto di ogni cambiamento, che le tocchi da vicino, delle corporazioni, socialmente, economicamente ed elettoralmente più forti. Sono riformiste solo quando si tratta di dissodare il terreno altrui. La politica ha abdicato alla propria funzione di indirizzo, e di guida, per assolvere il compito di remunerare, di volta in volta, questa o quella corporazione, sulla base di una cultura politica vecchia e disastrosa e in funzione del proprio consenso elettorale. Non è l'italiano qualunque ad avere scarsa credibilità all'estero; è l'establishment. A doversi chiedere se non abbia fatto il suo tempo — qualora non trovi un minimo di coesione su un «che fare» frutto di una più matura idea dell'Italia — è la classe dirigente".
La crescita economica in Europa e USA, secondo l'OCSE, resterà minima nel 2012. Il PIL dell' area euro aumenterà soltanto del 0,3 %.
Ciò è in larga misura inevitabile perchè è inevitabile ridurre tempestivamente il consumo a debito. Ma restano tutti i temi scottanti che la competizione internazionale ci costringe ad affrontare. Estensione ed obiettivi dello stato sociale, pensioni, lavoro, strumenti per limitare e ripianare il debito pubblico, concorrenza e libertà economica, efficienza della pubblica amministrazione, sistema fiscale, prerogative della magistratura ed amministrazione della giustizia, assetto delle istituzioni di rilievo costituzionale.
Un paese dove si raggiungono meschini accordi di facciata solo al prezzo della rinuncia a discutere sinceramente e costruttivamente del " che fare" merita il declino. Le crisi sono una straordinaria occasione per capire e cambiare. Ma occorrono adeguate risorse morali ed intellettuali. Il conflitto politico ideologico del secolo scorso e l'indebolimento di preziose tradizioni hanno determinato una drammatica perdita di tali risorse. Forse non siamo più pronti a infliggere sofferenze in nome dell'utopia e dell'ideologia ma non siamo nemmeno più capaci di costruire con lungimiranza.




martedì 25 ottobre 2011

Mezzogiorno. Un disastro senza alibi.

Il professor Luca Ricolfi in un articolo su Panorama del 19 ottobre 2011 denuncia con considerazioni assai incisive la gravità della situazione in cui versa gran parte del Mezzogiorno italiano, un "mondo che è incluso nell'Italia, ma in cui nulla è come nel resto del Paese".
I dati medi relativi all'evasione fiscale e contributiva, al tasso di occupazione, soprattutto giovanile e femminile, alla qualità e all'efficienza della spesa pubblica, all'istruzione, se confrontati con quelli del resto dell'Italia sono impressionanti.
Ma particolarmente lucide e significative appaiono le seguenti parole: "Né si pensi che l'abisso che separa le due metà del Paese sia limitato alle modalità di funzionamento dell'economia o delle grandi istituzioni pubbliche. Se proviamo a misurare il cosiddetto capitale sociale, ossia quanta fiducia, solidarietà, spirito civico, senso della comunità circola fra la gente, i risultati sono ancora più sconfortanti. Nel Mezzogiorno fa volontariato meno di una persona ogni 16, nel resto d'Italia una su 10, nel Nord quasi una su 8".
"Né il quadro cambia se dalle donazioni in denaro passiamo a quelle di sangue: nel Sud le donazioni sono 20 ogni 1.000 abitanti, nel Nord sono 41".
Il quadro che emerge induce a rigettare la retorica della "società civile" da contrapporre alle consorterie criminali, che non raramente vela il giudizio su situazioni francamente inaccettabili. L'inadempimento dei doveri più elementari si riscontra ad ogni livello della società, nell'ambito delle mansioni dirigenziali e di quelle meramente esecutive. Il degrado delle coscienze individuali pare largamente diffuso.
Il fallimento educativo delle istituzioni scolastiche è evidente. Ma anche la Chiesa deve interrogarsi sull'adeguatezza del proprio impegno formativo.
Papa Benedetto XVI nella sua enciclica Deus caritas est (28 a) ha scritto, indicando efficacemente uno dei compiti fondamentali della comunità cristiana:

"Così lo Stato si trova di fatto inevitabilmente di fronte all'interrogativo: come realizzare la giustizia qui ed ora? Ma questa domanda presuppone l'altra più radicale: che cosa è la giustizia? Questo è un problema che riguarda la ragione pratica; ma per poter operare rettamente, la ragione deve sempre di nuovo essere purificata, perché il suo accecamento etico, derivante dal prevalere dell'interesse e del potere che l'abbagliano, è un pericolo mai totalmente eliminabile.
In questo punto politica e fede si toccano. Senz'altro, la fede ha la sua specifica natura di incontro con il Dio vivente — un incontro che ci apre nuovi orizzonti molto al di là dell'ambito proprio della ragione. Ma al contempo essa è una forza purificatrice per la ragione stessa. Partendo dalla prospettiva di Dio, la libera dai suoi accecamenti e perciò l'aiuta ad essere meglio se stessa. La fede permette alla ragione di svolgere in modo migliore il suo compito e di vedere meglio ciò che le è proprio. È qui che si colloca la dottrina sociale cattolica: essa non vuole conferire alla Chiesa un potere sullo Stato. Neppure vuole imporre a coloro che non condividono la fede prospettive e modi di comportamento che appartengono a questa. Vuole semplicemente contribuire alla purificazione della ragione e recare il proprio aiuto per far sì che ciò che è giusto possa, qui ed ora, essere riconosciuto e poi anche realizzato".
"La Chiesa non può e non deve prendere nelle sue mani la battaglia politica per realizzare la società più giusta possibile. Non può e non deve mettersi al posto dello Stato. Ma non può e non deve neanche restare ai margini nella lotta per la giustizia. Deve inserirsi in essa per la via dell'argomentazione razionale e deve risvegliare le forze spirituali, senza le quali la giustizia, che sempre richiede anche rinunce, non può affermarsi e prosperare. La società giusta non può essere opera della Chiesa, ma deve essere realizzata dalla politica. Tuttavia l'adoperarsi per la giustizia lavorando per l'apertura dell'intelligenza e della volontà alle esigenze del bene la interessa profondamente".

Queste chiare direttive chiedono un maggiore impegno soprattutto nella ricostruzione delle coscienze individuali, necessaria premessa di ogni possibile soluzione dei problemi che mediamente affliggono il Sud italiano. Risultano lontani da questa impostazione molti dei temi e dei discorsi svolti nel recente raduno delle organizzazioni cattoliche a Todi. L'impegno cristiano che contribuisce a risolvere i problemi sociali e politici delle società democratiche è invece quello ben delineato da Tocqueville nella sua Democrazia in America ( (Libro Terzo, Parte Prima, Capitolo Quinto):
"... nei tempi di civiltà e di eguaglianza...le religioni devono mantenersi più discretamente nei loro limiti senza cercare di uscirne poiché volendo estendere il loro potere fuori del campo strettamente religioso, rischiano di non essere credute in alcun campo".
Proprio rispettando questi limiti, concentrandosi sull'evangelizzazione e sul rinnovamento delle coscienze individuali, la Chiesa riesce a contribuire nel modo migliore all'edificazione di una società libera e più giusta.




martedì 18 ottobre 2011

Indignati. Il futuro di un'illusione.

Sul tema degli scontri e delle devastazioni di Roma scrive il direttore della Stampa Mario Calabresi:

"In 950 città le manifestazioni sono state assolutamente pacifiche: colorate, rumorose ma ordinate.
In una soltanto si è scatenata una violenza spaventosa e senza freni: a Roma. Anche ieri abbiamo mostrato al mondo un’anomalia italiana".
"Perché l’Italia si ritrova ancora prigioniera della violenza e degli estremisti? Perché siamo sempre condannati a veder soffocare le spinte per il cambiamento tra i lacrimogeni?".
"Penso spesso al nostro destino beffardo: da questa parte dell’Oceano le proteste del ‘68 si sono trasformate nel terrorismo o negli scontri del ‘77, uccidendo non solo uomini ma anche idee e ideali. Dall’altra parte la violenza non ha vinto e il movimento che sognava di cambiare il mondo è riuscito a farlo inventandosi le energie alternative o la Silicon Valley: al posto dei leader dell’Autonomia l’America ha avuto Steve Jobs...".
"Da noi accade ancora perché non abbiamo mai preso (uso il plurale perché dovrebbe farlo la società tutta) le distanze in modo netto e definitivo dalle pratiche violente. Perché siamo i massimi cultori del «Ma» e del «Però», che servono a giustificare qualunque cosa in nome di qualcos’altro".
"Tutto questo da noi accade però anche per un altro motivo: perché la nostra malattia è la mancanza di un pensiero costruttivo. Se ripetiamo continuamente ai giovani che non c’è futuro ma solo declino e precarietà, se li intossichiamo di cinismo, scenari catastrofici e neghiamo spazio alla speranza, allora cancelliamo ogni occasione per una spinta al cambiamento".
"Una sola speranza ci resta ed è legata a quei giovani che non ascoltano, che si tappano le orecchie di fronte ai discorsi improntati al pessimismo e che nel loro cuore sognano e sperano".

Perchè questa anomala violenza in Italia?
Perchè "non abbiamo mai preso le distanze in modo netto e definitivo dalle pratiche violente" e perchè "la nostra malattia è la mancanza di un pensiero costruttivo", risponde Calabresi, rifiutando di spiegare le violenze romane con la congiuntura politica e indicando un percorso esplicativo storico e culturale. Pare davvero l'approccio più corretto e promettente.
Secondo Alberto Franceschini, uno dei fondatori delle Brigate Rosse, "le Brigate Rosse non sono nate dal nulla. Non sono un prodotto da laboratorio, magari di qualche Servizio segreto, ma il frutto di una cultura e di una tradizione politica della sinistra italiana. Quindi hanno radici nella storia di questo paese" (Giovanni FASANELLA - Alberto FRANCESCHINI, Che cosa sono le BR, 2004, pag. 4).
A differenza di quelle delle democrazie del Nord Europa, Francia compresa (De Gaulle), la Resistenza al nazifascismo italiana non è stata guidata da una forte componente nazionale e democratica ma da movimenti stalinisti finanziati e diretti dall'Unione Sovietica.
Questo peccato originale ha determinato struttura, metodi e cultura politica della sinistra italiana, fino allo scioglimento dell'Unione Sovietica stessa (1991).
In tutti questi decenni la nostra sinistra è stata egemonizzata dal più grande ed astuto partito comunista dell'Occidente, che ha a lungo partecipato alla vita democratica del paese accantonando la via insurrezionale alla conquista del potere a causa degli sfavorevoli rapporti di forza internazionali. Ancora il partito comunista di Enrico Berlinguer, soltanto una trentina di anni fa, accettava finanziamenti e direttive dai sovietici.
Queste sono le radici della doppiezza culturale e politica che ha a lungo caratterizzato la componente maggiore della sinistra italiana. Il mito fondante e legittimante, quello della Rivoluzione d'Ottobre, e l'influenza determinante del marxismo leninismo non sono mai venuti davvero meno. Da qui l'atteggiamento doppio, contraddittorio e reticente verso la violenza politica. E da qui, in larga misura, il rifiuto del riformismo e la mancanza di una cultura liberale.
Del resto anche il nucleo del patrimonio ideale fondamentale delle democrazie dell'Occidente è rappresentato da uguaglianza e libertà. Si tratta di idee suggestive che, se non concepite e diffuse in termini realistici e rispettosi della complessità dei problemi, possono produrre le cause della loro fine.
Uguaglianza e libertà possono costituire pericolose illusioni o la Stella Polare di un'attività politica quotidiana efficacemente rivolta a ridurre le sofferenze degli uomini. L'educazione dei giovani fa la differenza.





sabato 8 ottobre 2011

La Russia tra Oriente e Occidente.

In un recente articolo su La Stampa Enzo Bettiza delinea un condivisibile quadro della Russia di Putin.
Scrive Bettiza:

"Ma, al tempo stesso, non va dimenticato che l’enigmatico Putin definì il collasso dell’Unione Sovietica nel 1991 «la più grande catastrofe geopolitica del XX secolo». Quell’accento così drammatico sulla «catastrofe geopolitica» può aiutarci a comprendere, fino ad un certo punto, i suoi sforzi mirati a ricomporre oggi pezzo per pezzo, con la mezza finzione di un mercato o bazar comune, un’entità che almeno in parte possa evocare gli spazi «geopolitici» dell’impero perduto".

"Il controllo sulla stampa e sulle televisioni si è assolutizzato; il partito putiniano «Russia Unita» è divenuto di fatto un partito unico circondato e sostenuto da simulacri pseudodemocratici; contemporaneamente la popolarità del presidente reale, che fingeva di fare il primo ministro, è cresciuta a balzi esponenziali. Oggi il volto sorridente e rassicurante del presidente Medvedev ci appare simile alla faccia intensamente dipinta di una matrioska che al proprio interno conteneva da sempre, fin dall’inizio, dal 2008, la grinta gelida dello zar autentico di tutte le Russie.
Il gioco delle parti, lo scambio fisiologico delle consegne tra burattinaio e burattino, è affare concluso da tempo e da tempo accettato dalla maggioranza dei «consumatori» votanti. Al terzo mandato al Cremlino di Putin potrà seguire il quarto e la durata prolungarsi fino al 2024. Praticamente presidente a vita. Una simile longevità politica ricorda solo quella di Stalin. Così come il rimpianto, più o meno segreto, della grandezza di Stalin sembra riflettersi in chiave minore nell’«Urss leggera» che Putin sta pianificando e già realizzando da Minsk al cuore dell’Asia".

Tutto vero. Ma è sbagliato mettere sullo stesso piano Russia e Cina in quanto regimi autoritari, senza distinzioni. Le parti del Rapporto 2011 di Amnesty International relative appunto a Russia e Cina (pdf) lasciano intravvedere un controllo sociale e una lesione di diritti e dignità umani per estensione ed intensità chiaramente differenti.
La Cina dei campi di "rieducazione e lavoro" laogai, che ancora esercitano un significativo ruolo economico, dell'estesa brutale applicazione della pena di morte senza giusto processo, del capillare controllo di internet e delle reti sociali, delle dure limitazioni della libertà religiosa, dei figli unici per legge, della netta diversità di trattamento di città e campagna, pare regime dai tratti ancora fortemente totalitari.
La Russia di oggi è un grande paese composito e contraddittorio, in ogni senso sospeso tra Occidente e Oriente. I suoi dirigenti, come nel periodo prerivoluzionario, tentano di promuovere e controllare la modernizzazione guardando anche a modelli esterni. Le attuali insufficienti prestazioni economiche e le tensioni sociali dei paesi occidentali rendono non attraenti ai loro occhi standard di democrazia e libertà per noi irrinunciabili e non negoziabili.
Solo un Occidente forte, capace di coniugare di nuovo democrazia, libertà, competitività ed efficienza potrà ancora porsi come solido polo di attrazione per una Russia in bilico, dove l'influenza del nuovo autoritarismo asiatico sembra ogni giorno più incisiva.




venerdì 30 settembre 2011

Il Largo dal Serse. Cavalli, Bononcini, Handel.

Il Largo dal Serse di Handel (1738) in versione soltanto strumentale





è abbastanza noto anche fuori della cerchia degli appassionati di musica barocca. In realtà si tratta dell'aria iniziale dell'opera. Il protagonista, mentre guarda l'ombra di un platano, canta:

                              Frondi tenere e belle
                              del mio platano amato
                              per voi risplenda il fato.  
                             Tuoni, lampi, e procelle                                           
                              non v'oltraggino mai la cara pace,
                              nè giunga a profanarvi austro rapace.
                              Ombra mai fu
                              di vegetabile,
                              cara ed amabile,
                              soave più.





Il Serse di Handel è l'adattamento del Xerse del compositore modenese Giovanni Bononcini, scritto nel 1694 su libretto di Silvio Stampiglia. Mentre l'opera di Bononcini è la rielaborazione del Xerse di Francesco Cavalli, del 1654, su libretto di Nicolò Minato. Tra il lavoro di Cavalli e l'adattamento di Handel intercorrono dunque più di ottanta anni, un tempo maggiore di quello che ci separa dall'instaurazione del regime nazista in Germania.

Musicista a Venezia, Cavalli compose anche per la Corte di Francia.
Bononcini lavorò in Italia, Austria, Prussia, Inghilterra, Francia e Portogallo.
Fu in Inghilterra, con poche interruzioni, dal 1720 al 1733, dove divenne uno dei principali competitori dello stesso Handel. Questo il giudizio di James Ralph, contemporaneo dei due compositori:

"Handel sarebbe in grado di scaldarci col gelo e con la neve, suscitando ogni specie di sentimento con note appropriate all'argomento, Bononcini nei giorni più caldi dell'anno potrebbe soffiare su di noi una brezza italiana e farci addormentare cullandoci con gentili bisbiglii "
In un periodo, quello tra Seicento e Settecento, di conflitti e contraddizioni sono da segnalare anche rilevanti continuità, tradizioni, retaggi culturali. Il genio individuale, come sempre, si sviluppa tra e da questi, li valorizza ancora, li esalta, ha in essi la necessaria premessa. Avremmo il Serse di Handel senza il Xerse di Cavalli e Bononcini?

Su Handel e la musica barocca l'ottimo Haendel.it.



giovedì 22 settembre 2011

Tocqueville. La religione nei suoi propri limiti.





Papa Benedetto XVI è oggi nella sua patria, la Germania. E' lì per riportare al centro dell'attenzione Dio e la fede cristiana, temi offuscati dallo scandalo dei sacerdoti pedofili.
Religione cristiana e libertà. Il potente processo di secolarizzazione in atto allontana dai cuori e dalle menti una relazione che i grandi precursori del liberalismo contemporaneo indicarono con chiarezza e che le bandiere delle più antiche e solide democrazie europee manifestano esponendo la croce.
Durante la cerimonia di benvenuto nella residenza ufficiale del presidente della Repubblica Federale Tedesca il papa ha detto: "Come la religione ha bisogno della libertà, così anche la libertà ha bisogno della religione". Parole che Tocqueville avrebbe certamente sottoscritto.
Fu proprio il grande francese, infatti, nella Democrazia in America (Libro Terzo, Parte Prima, Capitolo Quinto) ad affermare: "Per parte mia non credo che l'uomo possa mai sopportare insieme una completa indipendenza religiosa e un'intera libertà politica e sono portato a pensare che, se egli non ha fede, bisogna che serva e, se è libero, che creda".
Ma nelle stesse pagine scrisse anche:

"Ho fatto vedere come nei tempi di civiltà e di eguaglianza lo spirito umano non accetti volentieri credenze dogmatiche e ne senta il bisogno solo in fatto di religione. Ciò indica anzitutto che in questi secoli le religioni devono mantenersi più discretamente nei loro limiti senza cercare di uscirne poiché volendo estendere il loro potere fuori del campo strettamente religioso, rischiano di non essere credute in alcun campo. Esse debbono, dunque, tracciare con cura il circolo in cui pretendono fermare lo spirito umano e lasciarlo interamente libero di sè fuori di esso".

Non si tratta certo di limitare all'ambito privato il fenomeno religioso. E' anzi necessario favorirne la dimensione pubblica. Il presidente degli Stati Uniti giura sulla Bibbia, secondo regole e tradizioni che tale dimensione pubblica accolgono. Si tratta piuttosto di distinguere le religioni secondo i loro contenuti. Prosegue Tocqueville:

"....nel Corano non solo dottrine religiose, ma anche massime politiche, leggi civili e criminali e teorie scientifiche. Il Vangelo, invece, parla solo dei rapporti generali degli uomini con Dio e fra loro. Al di fuori di questo non insegna nulla e non obbliga a credere nulla. Questo soltanto, fra mille altre ragioni, basta a mostrare che la prima di quelle due religioni non può dominare a lungo in tempi di civiltà e di democrazia, mentre la seconda è destinata a regnare anche in quei secoli come in tutti gli altri".

Al cristianesimo, per recuperare la sua storica relazione con la libertà civile, basta essere veramente se stesso, conservando e se necessario ripristinando il ruolo centrale di Fede, Rivelazione e Tradizione. Bisogna evitare di costringerlo nelle pastoie di un razionalismo astratto ed acritico, di introdurre a forza nel suo patrimonio dogmatico filosofie soltanto umane, di trarne dottrine sociali elaborate con le migliori intenzioni ma destinate a restare vitali solo nel nucleo che recepisce direttamente la morale rivelata.
In questo modo l'uomo contemporaneo è chiamato a rinunciare alla sua ragione critica? No! Proprio questa, demolendo gli "assoluti terrestri", apre spazi alla Fede e alla Rivelazione, rende ragionevole credere, delegittima la presunzione dell'uomo stesso di riuscire a cogliere il bene e il male con le sole proprie risorse, arrogandosi le prerogative di Dio.

"Ho la nettissima impressione che tutta la materia sia troppo profonda per l'intelletto umano. Un cane potrebbe speculare altrettanto bene sulla mente di Newton".
Questo uomo fallibile, che probabilmente non riuscirà nemmeno a conoscere l'intima struttura della natura, può sostituirsi a Dio? Può conquistare e conservare la propria libertà senza Dio?



mercoledì 14 settembre 2011

Welfare cinese.


La comparazione dei modelli di welfare rappresenta oggi uno strumento indispensabile. La struttura dello stato sociale è infatti uno dei principali fattori della competitività di un sistema paese.
Il professor Maurizio Ferrera è uno dei più autorevoli studiosi italiani della materia. In questo recente articolo sul Corriere della Sera ha scritto:

"I diritti sono una cosa seria, ma proprio per questo bisogna riconoscere che non sono tutti uguali. Alcuni (quelli civili e politici) tutelano libertà e facoltà dei cittadini e sulla loro certezza non si può transigere. I diritti sociali sono diversi: conferiscono spettanze, ossia titoli a partecipare alla spartizione del bilancio pubblico, che a sua volta dipende dal gettito fiscale e dal funzionamento dell'economia. Dato che al mondo non esistono pasti gratis, i diritti sociali non possono essere considerati come delle garanzie immodificabili nel tempo. Il loro contenuto deve essere programmaticamente commisurato alle dimensioni della torta di cui si dispone e all'andamento dell'economia e della demografia.
Purtroppo il welfare italiano è stato costruito ignorando questa elementare verità".

"Le manovre estive non hanno affrontato la sfida dei tagli strutturali alla spesa pubblica. Se si vuole agire sul serio, sul welfare va fatta al più presto un'operazione verità, che spieghi perché e come debbano essere cambiate le dissennate promesse del passato. Altrimenti di «acquisita» resterà solo la prospettiva di una bancarotta collettiva, senza più alcuna torta da spartire".

Ma dalla struttura del welfare non dipende soltanto la tenuta della finanza pubblica. In realtà essa determina in larga misura anche la capacità di un paese di crescere economicamente.
Ormai da anni la Cina in tutto il mondo acquista titoli dei debiti pubblici, acquisisce partecipazioni in grandi compagnie, accaparra materie prime, finanzia la realizzazione di infrastrutture. Ma come si procura le necessarie risorse finanziarie? Come trova i soldi? Certo non esportando petrolio o minerali, di cui è piuttosto uno dei maggiori paesi importatori.
Lo stesso professor Ferrera, in un articolo del 10 maggio 2004, ci presenta dati e considerazioni utili:

"Se è vero che il fiume dello sviluppo economico porterà il welfare state anche in Asia, non è detto però che si tratti di un welfare all'europea. Non è detto, in altre parole, che le economie asiatiche vedano in futuro esaurirsi il proprio vantaggio comparativo sotto questo profilo. Ciò che sta emergendo in Corea, Taiwan e Singapore è un sistema diverso dal nostro, molto più strettamente integrato con il mercato, tanto che la letteratura specialistica ha coniato il nuovo termine di «welfare state produttivistico». Tre sono gli ingredienti principali di questo modello: priorità all'istruzione e alla formazione; regolazione pubblica (ad esempio, obbligo di assicurazione medica o previdenziale), ma fornitura di prestazioni da parte di soggetti privati, tramite i canali del mercato; copertura gratuita solo per i più poveri. Anche la Cina sembra avviata in queste direzioni: in molti settori è stato ad esempio recentemente introdotto l'obbligo di copertura sanitaria, ma attraverso forme assicurative semi-private. La scelta di una via «produttivistica» al welfare ha in parte motivazioni ideologico-culturali: l' influenza dell' etica confuciana, la tradizione del paternalismo autoritario, oggi gli entusiasmi iperliberisti. In parte si tratta però di motivazioni prettamente economiche: a differenza dei Paesi europei, che hanno storicamente costruito il welfare all'interno di economie protette verso l' esterno, i Paesi asiatici devono incamminarsi verso la protezione sociale in un mondo di scambi e competizione globali. La crisi finanziaria del 1997 ha suonato un campanello d'allarme: le élite locali hanno capito che basta poco a mettere in discussione i risultati economici raggiunti. Sapremo solo nei prossimi anni (forse decenni) se la via produttivistica al welfare avrà successo. Nel frattempo non possiamo permetterci però di dormire sonni tranquilli. Il modello asiatico di sviluppo ci pone una sfida che non è solo «di prezzo», ma di sistema. La ricerca di nuove, virtuose combinazioni fra competitività economica e tutele sociali deve continuare - ed anzi intensificarsi - anche in Europa".

Nonostante le recenti riforme, destinate a rendere lo stato sociale cinese meno lontano dal modello europeo, si può affermare che fin dai tempi di Deng Xiaoping la turbo "economia socialista di mercato" cinese presuppone un welfare che "copre" poco, impiega strumenti semiprivati, privilegia la città rispetto alle campagne e quindi costa relativamente poco. Restano così adeguate risorse per la formazione dei giovani, le infrastrutture, il supporto alla crescita, le acquisizioni all'estero.
Con questi sistemi paese dobbiamo competere in un mondo "globalizzato". La ristrutturazione del welfare occidentale contemporaneo appare inevitabile.


lunedì 5 settembre 2011

Festivalfilosofia di Modena: la Natura. Ma una morale naturale è impossibile.


Il Festivalfilosofia di Modena, operazione culturale ormai tradizionale, vetrina prestigiosa per gli intellettuali di sinistra e le loro opere in libreria, si occupa questa volta della Natura, trattata da diversi punti di vista. Uno dei più importanti è quello del rapporto tra natura e morale. Perché la "vita secondo natura" è un tema, un programma, uno slogan che sempre affascina, suggestiona, inganna, prestandosi ad ogni sorta di strumentalizzazione.
Scrive il cattolico professor Dario Antiseri nel suo Cristiano perchè relativista, relativista perchè cristiano, 2003, pag. 62:

"...da proposizioni descrittive possono venir logicamente dedotte unicamente proposizioni descrittive: l'informazione non produce imperativi. E, dunque, non è logicamente possibile passare dall'essere al dover essere. Questa, in breve, è la legge di Hume, la grande divisione tra asserzioni indicative e asserzioni prescrittive, tra fatti e valori. Tale legge è una legge di morte per il diritto naturale e ci dice che i valori non si fondano sulla scienza: essi trovano fondamento sulle nostre scelte di coscienza".

Mentre il compianto biologo e paleontologo statunitense Stephen Jay Gould, in un scritto compreso anche nel suo I Have Landed, ha sottolineato che:

" La scienza però non può mai decidere la moralità della morale. Supponiamo di scoprire che un milione di anni fa, nelle savane africane, l'aggressività, la xenofobia, l'infanticidio selettivo e la sottomissione delle donne offrisse dei vantaggi darwiniani ai nostri progenitori cacciatori-raccoglitori. Una tal conclusione non sancirebbe – nel presente come nel passato – il valore morale di questi comportamenti, né di qualsiasi altro".

Amore e odio sono entrambi ben presenti in natura. E' l'uomo che decide ed è responsabile delle proprie decisioni.






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