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domenica 17 maggio 2009

Preferenze. Una battaglia sbagliata.

Tra poco si terranno le elezioni per il Parlamento europeo ed amministrative. Si tratta di elezioni dove è possibile esprimere preferenze. Possibilità che molti invocano anche per l' elezione del Parlamento italiano.Tale facoltà viene presentata come indispensabile momento di democrazia e come strumento efficacissimo per rinnovare e migliorare la rappresentanza politica. 
Si dovrebbe però considerare che comunque i candidati, uno o pochi che siano, vengono designati dai partiti, sostanzialmente con un meccanismo di cooptazione. Che si ha una significativa differenza tra candidati di uno stesso partito solo quando questo è diviso in correnti di cui i candidati sono espressione. Che la divisione di un partito in correnti in competizione ne indebolisce l' azione. Che la concorrenza per il conseguimento delle preferenze eleva il costo della politica, spingendo i candidati singolarmente o con la corrente di appartenenza a procurarsi risorse finanziarie con mezzi leciti e non raramente illeciti.
Dunque quella per le preferenze pare una battaglia sbagliata. In realtà, in una democrazia sana, è la competizione tra grandi partiti, ciascuno capace di proporsi concretamente come forza di governo, a spingere i gruppi dirigenti di tali partiti alla scelta dei candidati con maggiori possibilità di successo. E' dunque la pressione esterna, più che quella interna, a risultare più efficace ed utile per il paese.

venerdì 8 maggio 2009

L'invasione dei "senzatutto".

Il recente caso dei cosiddetti migranti riportati in Libia senza consentire lo sbarco in Italia riaccende per l'ennesima volta il dibattito sulla loro accoglienza. Si distingue nel chiedere attenzione ai loro bisogni e diritti la Chiesa cattolica. La Chiesa fa il suo dovere. Ma sono molti milioni le persone che ormai premono alle frontiere di un'Europa in crisi eppure capace di suscitare speranze tali da indurre ad accettare rischi elevatissimi. Dunque un'accoglienza a maglie larghe è impossibile. Mi pare che, accantonando ipocrisie vecchie e nuove, diventi sempre più centrale il problema del governo di quei paesi che non riescono ad assicurare una tutela adeguata dei diritti fondamentali e condizioni di vita dignitose. Si tratta spesso di dirigenti locali corrotti e/o inetti. Senza una decisa ingerenza da parte dei paesi chiamati a fornire aiuti e ad accogliere chi emigra la situazione non cambierà. Certo interventi non soltanto umanitari ma soprattutto diretti ad imporre modelli amministrativi, politici ed economici sono costosi ed impopolari, non potendosi escludere la necessità di operazioni militari assai protratte nel tempo. Ma la questione è ineludibile. Karl Popper, in una intervista di pochi anni fa al tedesco Spiegel, si espresse con una franchezza brutale in questi termini: "...è un fatto che va principalmente riportato alla stupidità dei dirigenti dei diversi Stati della fame. Abbiamo liberato questi Stati troppo rapidamente ed in modo troppo primitivo. Questi Stati non sono stati di diritto. La stessa cosa accadrebbe se si lasciasse a se stesso un asilo infantile." Sono parole così dure da sembrare irritante espressione di ottusità. Ma sono davvero così lontane dalla realtà? Karl R. POPPER, Tutta la vita è risolvere problemi, 1996, pag. 265

venerdì 1 maggio 2009

Quando la debolezza paga. La logica paradossale della strategia.

L'accordo Fiat-Chrysler, ad una mente avvezza più alla riflessione politico strategica che a quella economica, può ispirare la seguente considerazione. La compagnia torinese non è certo la sola a possedere le tecnologie indispensabili alla ristrutturazione dell'azienda automobilistica statunitense, né ad avere amministratori capaci. Ma per le sue dimensioni relativamente modeste, per la sua ancora importante debolezza finanziaria, per l'appartenenza ad un sistema-paese poco dinamico ed ancor meno capace di influenzarne altri, retto da governi tradizionalmente non solo alleati ma anche amici, presenta le caratteristiche di un partner privo di tendenze espansive politicamente ed economicamente inaccettabili. Per questo, prima di tutto, mi pare sia stata preferita ad altre.
La debolezza diviene un punto di forza. Si tratta di un percorso logico paradossale. Però molto della vita e della storia si presta a questa chiave di lettura.

Chi vuole trovare in rete un interessante libro di qualche anno fa che getta acutamente luce sulla logica paradossale della strategia può cercare :

Edward N. LUTTWAK, Strategia. Le logiche della guerra e della pace nel confronto tra le grandi potenze

venerdì 24 aprile 2009

L'antifascismo in mezzo al guado. Un'anomalia italiana.

Sono i giorni dedicati al ricordo della Resistenza italiana. Tanti uomini coraggiosi persero la vita per liberare il paese dall'occupazione nazista e da ciò che restava della ventennale dittatura fascista.
Oggi dobbiamo essere consapevoli, dopo aver visto ed appreso altre drammatiche vicende, che un antifascismo che non sia saldamente radicato in una generale avversione per il totalitarismo è monco, incompleto. E purtroppo monco, incompleto, incompiuto fu l'antifascismo della componente maggioritaria della nostra Resistenza, legata al totalitarismo comunista sovietico ed a questo subordinata. Molti italiani si sacrificarono anche per tentare di sostituire un regime autoritario con un altro, non meno pericoloso.
Si è a lungo parlato di tradimento degli ideali della Resistenza. Ma il primo grande tradimento degli ideali della maggior componente della nostra Resistenza fu proprio l'entrata in vigore della nostra Costituzione liberaldemocratica, che garantisce le libertà e i diritti fondamentali calpestati nei paesi comunisti.
Purtroppo la nostra Resistenza in larga misura non è stata la resistenza nazionale e democratica che invece prevalse nel Nord Europa ed in Francia, con De Gaulle. Questa è stata una fondamentale anomalia italiana. Qui ha origine la guerra civile strisciante che ha segnato il Secondo dopoguerra italiano fino alla prima metà degli anni Ottanta. Qui ha origine il blocco della democrazia italiana, logorata dalla mancanza di alternanza, sfiancata dalla corruzione.
Insegniamo ai nostri giovani a rifiutare e a combattere ogni totalitarismo. Solo allora potremo commemorare la nostra Liberazione nel modo migliore: onorando insieme la libertà e la verità.

lunedì 13 aprile 2009

Un potere politico senza responsabilità politica. Mito e realtà della separazione dei poteri in una democrazia libera.

Da lungo tempo ormai, con periodiche accelerazioni, si sviluppa in Italia il dibattito sulla riforma della Costituzione e dell'ordinamento giudiziario.
I difensori ad oltranza dell'esistente, quanto alle prerogative ed alla struttura degli organi giurisdizionali, si richiamano ad una inesistente teoria liberaldemocratica classica della separazione dei poteri, erroneamente ricondotta a precursori della teoria liberale come Locke e Montesquieu.
Questi infatti, guardando all'Inghilterra loro contemporanea ed ispirandosi alle sue istituzioni, non pensavano affatto a una separazione dei poteri consistente in una separazione di corpi autonomi ed indipendenti di funzionari pubblici, dotati della titolarità esclusiva di una funzione, da realizzare anche con la formazione di un potere giudiziario in questo senso separato. Il loro obiettivo era non tanto quello della "separazione dei poteri", quanto piuttosto quello della divisione del potere.
Ed infatti ancora oggi
negli USA i giudici della Corte Suprema federale, che in sostanza concentra in sè i compiti delle nostre Corte Costituzionale e Corte di Cassazione, sono scelti e nominati dal Presidente degli Stati Uniti, eletto democraticamente. Mentre i vertici della pubblica accusa, esercitata di solito da avvocati dello stato, sono direttamente eletti dai cittadini o comunque, sia pure indirettamente, rispondono politicamente ad essi. Così in Inghilterra, fino ad oggi, le funzioni di Corte Suprema sono state in gran parte attribuite ad un organo del Parlamento, i Law Lords, sulla cui nomina ha influito in modo determinante il governo. In tali ordinamenti del resto le attribuzioni dei giudici sono circoscritte mediante l'ampio ricorso all'istituto della giuria popolare.
Quando si riflette su questi problemi da una prospettiva liberaldemocratica bisogna essere ben consapevoli di quanto segue.

1) L'interpretazione della legge, ineliminabile in qualsiasi ordinamento, ha sempre una connotazione politica. "Interpretando" la legge si influisce sull'indirizzo politico del paese.

2) Anche quando, come nel nostro paese, formalmente l'esercizio dell'azione penale è obbligatorio, in realtà chi esercita l'azione penale svolge sempre, necessariamente, un ruolo di scelta.

Materialmente non tutti i reati possono essere perseguiti. Inoltre non tutti i reati possono essere perseguiti con la stessa intensità. La scelta operata, anche solo di fatto, nell'esercizio dell'azione penale si risolve dunque nell'adesione ad una "politica criminale" in luogo di un'altra. Ha quindi certamente una connotazione politica. E' perfino possibile che esercitando l'azione penale un magistrato riesca deliberatamente ed indebitamente a danneggiare uomini e partiti politici.
La previsione di un potere giudiziario tendenzialmente separato da legislativo ed esecutivo, dotato di una rilevante possibilità di influenzare l'indirizzo politico, senza dover rispondere direttamente od indirettamente ai cittadini, rappresenta un pericolo per la democrazia libera. Infatti gruppi o movimenti politici, al di fuori di ogni vero controllo democratico, possono utilizzarlo per sovvertire nella prassi quotidiana le istituzioni democratiche. Un potere politico senza responsabilità politica non deve trovare posto in un ordinamento libero e democratico.

Si rifletta sul nostro ordinamento, dove in teoria le sentenze della Cassazione esplicano la loro forza vincolante solo nel caso giudicato. Tale Corte svolge un ruolo di difesa generale della corretta ed uniforme interpretazione della legge direttamente od indirettamente riconosciuto dall'ordinamento. Ma anche le sentenze dei giudici inferiori, sia pure con minore autorevolezza, "fanno giurisprudenza". Dunque non sono prive, di fatto, di effetti che vanno al di là del caso esaminato. Per non parlare dell'attività della Corte Costituzionale. Qui il problema del senso concreto della separazione dei poteri diventa evidentissimo.


sabato 4 aprile 2009

Enrico Caviglia. L'Italia che non è stata.





A più di mezzo secolo dalla precedente edizione vengono ripresentati in libreria, in veste economica, i diari 1925-1945 di Enrico Caviglia, tra i più influenti generali italiani durante la Prima guerra mondiale, poi maresciallo d'Italia. Che senso ha ricordare oggi questa grande figura, purtroppo pressoché dimenticata? Caviglia rappresenta l'Italia che sarebbe potuta essere e non fu, non è.
Fedele servitore delle istituzioni costituzionali, tecnico capace, uomo colto e coraggioso, disprezzava la retorica e quell'atteggiamento superficialmente arrogante e presuntuoso, spesso erroneamente confuso con il vero coraggio, che egli chiamava "spavalderia". 
Dopo l'avvento della dittatura fascista fu privato della possibilità di influire sugli eventi e gli furono negati incarichi non di semplice rappresentanza. In due momenti cruciali della storia italiana, quando il movimento fascista tentava di prendere il potere e alla caduta di Mussolini nel luglio 1943, ricorrere alle sue doti di coraggio, intelligenza e fedeltà alle istituzioni rappresentò per il Re e per l'Italia la scelta migliore. Ma, com'è noto, la storia prese un'altra direzione.
Riporto di seguito questa sua acuta riflessione, tratta dai diari citati, più che mai attuale in questo momento di crisi in cui molti, presi totalmente dal presente, perdono di vista il futuro dei nostri giovani e del paese intero.

"L'uomo politico deve tenere conto delle grandi correnti di interessi e di sentimenti e saper distinguere le correnti transitorie da quelle che additano ai popoli la via da seguire a scadenza di generazioni.
Deve conoscere la situazione morale, politica ed economica generale per valutare con tranquilla coscienza gli elementi e i fattori che interessano il suo popolo.
Se sarà invece assorbito completamente dalla situazione interna del proprio Paese e da interessi immediati che premono ad ogni piè sospinto, egli non guiderà il suo popolo, ma andrà con quello alla deriva"
. (pag.39)

E' del curatore del suo Diario, Pier Paolo Cervone, questa biografia del maresciallo d'Italia Enrico Caviglia

Qui Vittorio Veneto di Enrico Caviglia


Enrico CAVIGLIA, I dittatori, le guerre e il piccolo re

Diario 1925-1945
A cura di Pier Paolo Cervone

Da leggere con attenzione, infine, la lucida sintetica biografia di Giorgio Rochat.


Rochat mette in evidenza la modesta capacità mostrata da Caviglia di leggere con precisione le situazioni politiche che si trovò a fronteggiare. Vanno riconosciute importanti attenuanti. Spesso Caviglia era privo delle necessarie informazioni, lontano fisicamente e relazionalmente dai luoghi delle decisioni. Emerge comunque una insufficiente attitudine a cogliere gli elementi determinanti, gli sviluppi repentini, le possibilità celate negli interstizi della storia. Altre grandi figure della storia italiana contemporanea, don Sturzo, Luigi Einaudi, Giovanni Amendola, come lui non sempre riuscirono a capire e ad agire nel modo opportuno, impacciati, viene da dire, dalla loro moralità e dai loro stessi elevati ideali.

domenica 29 marzo 2009

Rotta verso il nulla. La cultura dell'esclusione.




Le società occidentali contemporanee sono ferite dall'esclusione dai benefici della modernizzazione che, al di là delle difficoltà del momento, sembrano notevoli. Molto si è detto sui tratti oggettivi, quantitativi e non, di tale esclusione. Ma non si indaga abbastanza su una sorta di variegata "cultura dell'esclusione", di essa insieme concausa, elemento distintivo ed ostacolo importante al superamento. Tale cultura caratterizza una parte soltanto, ma significativa, degli individui emarginati ed esclusi, soprattutto giovani o giovanissimi.
Si tratta di una visione della vita e delle cose che arriva talvolta a considerare l'emarginazione e l'esclusione come situazioni positive, che danno e non tolgono. L'approccio ai problemi che la connota è distruttivo. L'attrazione per il nulla inarrestabile. Il peso ed il fascino del "qui ed ora" totale.
Occorre che le istituzioni pongano in essere efficaci politiche inclusive. Ma senza incidere su questa cultura segnata dalla tendenza alla distruzione ed all'autodistruzione l'azione pubblica rischia di risultare poco efficace.

venerdì 20 marzo 2009

La politica estera di Obama. Alla prova dei fatti.

Obama è ormai saldamente al timone degli Stati Uniti. In politica estera deve confrontarsi con i loro tradizionali obiettivi: la difesa dei diritti dell' uomo, in particolare della libertà politica e religiosa; la diffusione delle istituzioni liberaldemocratiche e dei principi dello stato di diritto; la lotta contro la proliferazione nucleare, diretta soprattutto ad evitare che regimi autoritari ed irresponsabili ottengano armi atomiche; la garanzia della sopravvivenza e dell' integrità di Israele.
Il nuovo presidente mostrerà la sua grandezza se riuscirà a perseguire efficacemente questi obiettivi riducendo il ricorso ai metodi cruenti che tanto hanno pesato nella valutazione dell' opera del suo predecessore. Se invece la sua suadente retorica coprirà l' abbandono di fatto dei grandi obiettivi che hanno segnato tradizionamente la politica estera americana, passerà alla storia come il liquidatore fallimentare non solo della potenza statunitense, ma anche e soprattutto di quel patrimonio ideale che nelle sue stesse parole rappresenta la sua costante fonte d' ispirazione. E' il momento dei fatti, presidente.

domenica 8 marzo 2009

Per una nuova teologia laica. Con Dario Antiseri contro Vito Mancuso.

Arriva spesso perfino sui media italiani il dibattito volto a districare il problema di una teologia pienamente laica, capace di fare i conti fino in fondo con il pensiero laico contemporaneo e con la scienza in particolare. Nel panorama italiano si distinguono per risonanza e chiarezza le posizioni del filosofo della scienza Dario Antiseri e del teologo Vito Mancuso.
Dario Antiseri pensa, in sostanza, che una teologia laica, fondata sulle sole risorse della ragione umana, debba confrontarsi soprattutto con i due principali esiti del pensiero contemporaneo. Da un lato la piena consapevolezza dell'ineliminabile congetturalità della scienza: la "scienza su palafitte" di Karl Popper è una impresa collettiva i cui esiti sono sempre inevitabilmente provvisori, ipotetici, aperti a sviluppi imprevedibili. Dall'altro la convinta accettazione della cosiddetta legge di Hume, cioè della inderivabilità dei valori dai fatti, delle prescrizioni morali dalle descrizioni della natura. Questa prospettiva, conducendo alla distruzione di ogni "assoluto terrestre", lungi dal negare la compatibilità con la ragione di una religione rivelata e "tradizionale", cioè tramandata di generazione in generazione, come quella cristiana cattolica, apre ad essa ampi spazi.
Secondo il teologo Vito Mancuso si tratta invece di "argomentare a favore della bellezza, della giustizia e della sensatezza della vita, fino a ipotizzare che da essa stessa, senza bisogno di interventi dall'alto, sorga un futuro di vita personale dopo la morte". Pare, in sostanza, una ripresa del vecchio progetto deista sei-settecentesco, la cui tesi principale è che si può pensare Dio solo con gli attributi che ci indica la ragione secondo natura. 
Le idee del professor Mancuso cozzano contro gli esiti prevalenti del pensiero contemporaneo (Popper, Wittgenstein, Lakatos, Feyerabend). Se la scienza dà sempre risultati congetturali e provvisori e non possiamo ricavare da essa un grammo di etica allora la ragione critica contemporanea, al di fuori della fede religiosa e di un progetto rivelato, non può parlare di Dio in termini positivi, nè trovare da sola soluzioni convincenti al problema di dare un senso all'esistenza ed una risposta assoluta alle domande morali fondamentali.

Dario ANTISERI, Cristiano perchè relativista, relativista perchè cristiano.
Dario ANTISERI, Credere

Vito MANCUSO, L' anima e il suo destino
Vito MANCUSO, Per amore. Rifondazione della fede.


lunedì 2 marzo 2009

Diario della crisi. Quando i rimedi sono peggiori del male.

Due parole ancora sulla grave crisi economica in atto. Una domanda drogata da un eccessivo e patologico ricorso al debito, prima pubblico e poi privato, tende ad implodere. I vizi del commercio internazionale e della ricerca globalizzata dei fattori della produzione, ingigantiti dalla mancata applicazione agli operatori economici di regole comuni e virtuose, danneggiano in profondità economie tradizionalmente arricchite da imprese dinamiche. Non si può curare una crisi determinata dall'eccessivo consumo a debito e dalla fiducia in risorse fittizie con l'avventurosa prodigalità pubblica. Nè si deve tentare di ovviare ai vizi di un mercato distorto ed insufficiente con la riduzione dei suoi spazi, con il protezionismo. Chi non è più giovane ha davanti agli occhi i disastri provocati dallo statalismo, dal collettivismo, dalla protezione di aziende inefficienti attuata da paesi ripiegati su se stessi, con una corruzione dilagante. Occorre controllare il lievitare del debito, pubblico e privato. Occorre realizzare un mercato vero, genuino, virtuoso, mediante l'attenta applicazione di regole comuni a tutti gli operatori economici, su scala globale. Occorre ripristinare ed incrementare la responsabilità individuale, elevando l'osservanza spontanea delle regole. Queste devono essere le priorità. Le sofferenze individuali e spesso incolpevoli che questa situazione economica determina devono essere alleviate con un intervento pubblico selettivo ed attento a non causare un aumento strutturale ed incontrollato della spesa pubblica. Sarebbe davvero un grave errore scambiare incerti effetti oggi su una condizione temporanea e contingente con il peggioramento più che probabile di un domani già in parte compromesso dalla miopia.

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