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lunedì 25 marzo 2013

Scuola. Meglio pagarla di tasca propria.




Nel suo recente Manifesto capitalista Luigi Zingales ha sottolineato il carattere regressivo del sistema universitario italiano:

"Mentre uno studente costa mediamente all'erario 15.000 euro all' anno, la tipica matricola paga poco più di 1000 euro. Ciò sostiene artificialmente la domanda per un prodotto di scarsa qualità".
"Per sensibilizzare i consumatori alla qualità del prodotto è necessario far pagare loro il costo reale del prodotto. Paradossalmente un'iniziativa altamente progressista. L'università quasi gratuita è una redistribuzione dai poveri (che pagano le imposte ma non vanno all'università) ai ricchi (che ottengono in servizi universitari più di quanto pagano)".
"E per evitare che la retta universitaria sia un ostacolo per gli studenti capaci ma indigenti, basta trasformare l'attuale sussidio in finanziamenti...". (op.cit., 2012, p. 231 e seg.)

Considerazioni analoghe si trovano ne La ricchezza delle nazioni, l'opera più nota ed influente di Adam Smith. Il grande precursore del pensiero economico liberale contemporaneo più di due secoli fa, a proposito dell'istruzione inferiore, ma con rilievi di portata generale, osservò che:

"Lo stato può facilitare l'apprendimento di queste parti dell'istruzione creando in ogni parrocchia o distretto una piccola scuola, nella quale i bambini possano essere istruiti per un compenso così modesto che anche un lavoratore comune possa pagarlo, e in cui il maestro sia pagato in parte, ma non esclusivamente, dallo Stato, perché se fosse pagato esclusivamente, o anche principalmente, dallo Stato imparerebbe presto a trascurare il suo mestiere" ( Adam SMITH, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, Libro Quinto, I, Parte III).

Istruzione, sanità, previdenza e assistenza sociali sono rese non solo finanziariamente sostenibili ma anche più efficienti dalla compresenza di disciplina pubblica e strumenti privati. Minore pressione fiscale in cambio di maggiori responsabilità per i ceti medi italiani, chiamati a individuare e a premiare i migliori fornitori di servizi, abbattendo chiusure corporative e steccati ideologici.
Questo è un programma davvero rivoluzionario che purtroppo non troviamo tra quelli di chi dice di voler cambiare tutto.

martedì 19 marzo 2013

Il vescovo di Roma nella prospettiva ecumenica.


Secondo il vigente codice di diritto canonico della Chiesa cattolica

"Il Vescovo della Chiesa di Roma, in cui permane l'ufficio concesso dal Signore singolarmente a Pietro, primo degli Apostoli, e che deve essere trasmesso ai suoi successori, è capo del Collegio dei Vescovi, Vicario di Cristo e Pastore qui in terra della Chiesa universale; egli perciò, in forza del suo ufficio, ha potestà ordinaria suprema, piena, immediata e universale sulla Chiesa, potestà che può sempre esercitare liberamente" (can.331).

Tale potestà del successore di Pietro nell'episcopato romano è uno dei principali ostacoli all'unità dei cristiani. Le altre grandi chiese cristiane infatti riconoscono o possono riconoscere un primato d'onore del vescovo di Roma ma non una sua potestà piena, immediata e universale su tutti i cristiani.
La Chiesa cattolica  persegue il superamento delle divisioni tra le chiese cristiane, con una lucida comprensione dei problemi che rallentano il processo di unificazione. Tra essi particolare  attenzione desta quello rappresentato dal cosiddetto primato petrino, sopra delineato.
Sull'impegno ecumenico resta insuperato il magistero di Giovanni Paolo II che nella lettera enciclica Ut unum sint ha dato alla Chiesa cattolica un compito preciso:

" Quale Vescovo di Roma so bene, e lo ho riaffermato nella presente Lettera enciclica, che la comunione piena e visibile di tutte le comunità, nelle quali in virtù della fedeltà di Dio abita il suo Spirito, è il desiderio ardente di Cristo. Sono convinto di avere a questo riguardo una responsabilità particolare, soprattutto nel constatare l'aspirazione ecumenica della maggior parte delle Comunità cristiane e ascoltando la domanda che mi è rivolta di trovare una forma di esercizio del primato che, pur non rinunciando in nessun modo all'essenziale della sua missione, si apra ad una situazione nuova. Per un millennio i cristiani erano uniti "dalla fraterna comunione della fede e della vita sacramentale, intervenendo per comune consenso la sede romana, qualora fossero sorti fra loro dissensi circa la fede o la disciplina"

"Ma ... è per il desiderio di obbedire veramente alla volontà di Cristo che io mi riconosco chiamato, come Vescovo di Roma, a esercitare tale ministero .... Lo Spirito Santo ci doni la sua luce, ed illumini tutti i pastori e i teologi delle nostre Chiese, affinché possiamo cercare, evidentemente insieme, le forme nelle quali questo ministero possa realizzare un servizio di amore riconosciuto dagli uni e dagli altri" (95).

Passi decisivi verso l'attribuzione al servizio petrino di forme e contenuti compatibili con la piena comunione delle chiese cristiane sono stati realizzati dai due ultimi papi. Benedetto XVI, rinunciando al suo ufficio di Romano Pontefice e diventando vescovo emerito di Roma, ha sottolineato la centralità del ministero episcopale.
Il nuovo papa Francesco ha con chiarezza percorso la via indicata dal predecessore, con comportamenti la cui portata ecumenica può rivelarsi determinante. In questo senso va letta anche la decisione di rivolgersi ai fedeli durante il suo primo Angelus soltanto in lingua italiana.
Il vescovo di Roma ha parlato alla Chiesa di Roma prima che ai cristiani di tutto il mondo, chiamati  a vedere nel successore di Pietro il titolare di una potestà legata all'importanza della sede episcopale e che si esprime nel servizio all'unità della Chiesa universale.

martedì 12 marzo 2013

Il modello tedesco divide l'Europa.






Emerge con chiarezza un rinnovato modello tedesco, nato dalla riforma della tradizionale economia sociale di mercato. Al conseguimento di una maggiore competitività sono diretti la riduzione della pressione fiscale, la ristrutturazione del welfare, l'impostazione produttivistica di scuola e pubblica amministrazione tutta, il riassetto delle relazioni industriali, l'impulso all'innovazione produttiva, la disciplina della finanza pubblica.

"La Merkel invece si concentra sul futuro più immediato, sulla messa a punto entro giugno, di un patto europeo per la competitività". 
"Ora il copione si ripete a Varsavia ed è anche molto più facile da recitare. Il cancelliere venuto dall'Est in fondo gioca in casa, ne conosce bene la vecchia cultura e ne condivide quella nuova nata sulle macerie del comunismo. Perché è tutta imperniata sul recupero di competitività (in larga parte riuscito) di un modello di sviluppo aperto, fatto di costi e salari bassi, welfare leggero e regimi fiscali mirati a calamitare gli investimenti esteri. Che infatti piovono abbondanti, cinesi in testa. 
La ricetta piace alla Germania dell'economia sociale di mercato riformata. Tanto che medita di farne una sorta di laboratorio delle future riforme europee. I dati parlano chiaro: tra il 1999 e il 2012, grazie alla profonda revisione del suo modello nello scorso decennio, la competitività globale della Germania è salita del 22,5% contro un aumento dell'1,2% in Francia, dell'1,4 in Italia, del 3,3 in Spagna".
"Per colmare queste divergenze abissali, dopo aver imposto il fiscal compact, ora la Merkel sogna il patto per la competitività. Che naturalmente non passa per un euro più debole e neanche per una politica monetaria più accomodante, all'americana o alla giapponese, ma sempre e soltanto per rigore e riforme strutturali a tappeto".

Per tentare di riprodurre questo modello i paesi periferici dell'Eurozona devono realizzare riforme strutturali profonde ed adottare una incisiva austerità fiscale e di bilancio. Hans-Werner Sinn, professore di economia e finanza pubblica all'università di Monaco di Baviera, su Il Sole 24 Ore del 9 marzo 2013:

"Temo che tra la quantità di austerità necessaria per riportare in equilibrio i conti e quella che la popolazione può tollerare senza disordini in strada, c'è un grande dislivello". 

Assistiamo infatti a un diffuso ed aspro rifiuto del cosiddetto rigore fiscale, monetario e di bilancio. Anche il risultato delle recenti elezioni italiane è in larga misura interpretabile in questo senso. Ma rappresenta un'alternativa efficace quella suggerita da Cerretelli con l'accenno alla prospettiva di "euro più debole" e di "una politica monetaria più accomodante, all'americana o alla giapponese"? Bisogna dire chiaramente che questa alternativa non dà i risultati sperati.
A lungo esplorata dall'Amministrazione Obama, non ha consentito di fronteggiare con successo la crisi occupazionale e i problemi posti dalla globalizzazione della competizione economica, mentre si è rivelata insostenibile per gli effetti sulla finanza pubblica. Il perdurante squilibrio della bilancia  commerciale USA e i dati su occupazione/disoccupazione non consentono un giudizio meno severo. Anche le più recenti statistiche ufficiali devono essere lette in questo senso:

"Employment increased in professional and business 
services, construction, and health care". 
Nessun incremento nella manifattura.

"In February, the number of long-term unemployed (those jobless for 27 weeks 
or more) was about unchanged at 4.8 million. These individuals accounted for 
40.2 percent of the unemployed.
The employment-population ratio held at 58.6 percent in February. The civilian 
labor force participation rate, at 63.5 percent, changed little. 
The number of persons employed part time for economic reasons, at 8.0 million, 
was essentially unchanged in February. These individuals were working part 
time because their hours had been cut back or because they were unable to 
find a full-time job.
In February, 2.6 million persons were marginally attached to the labor force, 
the same as a year earlier. (The data are not seasonally adjusted.) These 
individuals were not in the labor force, wanted and were available for work, 
and had looked for a job sometime in the prior 12 months. They were not 
counted as unemployed because they had not searched for work in the 4 weeks 
preceding the survey".
 Il numero dei disoccupati di lunga durata, dei non occupati e degli occupati a tempo parziale per motivi economici resta molto lontano dai livelli auspicati.

Ma come fare accettare alla ricalcitrante opinione pubblica dei paesi più colpiti dalla crisi le  necessarie riforme? Iniettando robuste dosi di equità nell'attività riformatrice e di verità nel dibattito pubblico. Il peso del cambiamento più deve essere sopportato da chi in passato ha tratto maggior vantaggio dalle relazioni clientelari, dalle rendite di posizione, dalle chiusure corporative, dai privilegi più odiosi. Mentre devono essere posti a disposizione dei cittadini  elementi che consentano di formare opinioni più costruttive perchè meglio corrispondenti alla struttura dei problemi. 




martedì 5 marzo 2013

Einaudi e De Gasperi. L'Italia ricostruita con il rigore.








Luigi Einaudi, governatore della Banca d'Italia, ministro delle Finanze e del Tesoro e poi ministro del Bilancio nei Governi De Gasperi, difese strenuamente il valore della lira e limitò rigidamente la spesa pubblica. Questa condotta economica rese possibile la ricostruzione italiana dopo la Seconda guerra mondiale.






Randolfo Pacciardi fu dal 1948 al 1953 ministro della Difesa nei governi De Gasperi. Ha ricordato il secondo presidente della Repubblica italiana con queste  parole:

"Il prestigio di Einaudi in materia economica era indiscusso ed era a lui che spettava l'ultima parola sulle proposte di legge dei singoli ministri. Era rigidissimo. Le sedute del Consiglio dei Ministri con De Gasperi erano interminabili. Einaudi sembrava disinteressarsi delle lunghe discussioni che non riguardavano la sua specifica competenza. Si faceva portare regolarmente un brodo alle 11 del mattino e riteneva che quello fosse il tonico migliore per tener desta la sua attenzione. E' avvenuto anche a me di tentare di profittare a tarda ora della sonnecchiante distrazione di Einaudi per varare proposte di legge che comportavano spese per la Difesa, ma al punto culminante il Ministro del Bilancio si risvegliava regolarmente per dire di no. La difesa della lira faceva parte, egli diceva, del problema generale della difesa del paese".
"Pella, come Ministro del Tesoro aveva davvero le spalle al sicuro. Con questi cerberi alle finanze dello Stato non si facevano davvero spese inutili. Il raddrizzamento della situazione economica nei governi cosiddetti centristi lo si deve certamente a Einaudi" (Protagonisti grandi e piccoli, 1972, p. 186).

Oggi, quando il declino dell'Italia appare una prospettiva difficile da evitare, la lezione di Einaudi e De Gasperi è più che mai attuale. Mentre la demagogia contraddistingue i discorsi e la propaganda dei loro sedicenti eredi, si deve riaffermare con forza il valore della politica economica che consentì di ricostruire l'Italia devastata dalla guerra. 



martedì 26 febbraio 2013

Italia. La disperazione e il semplicismo.


Ormai più di trenta anni fa il compianto professor Piero Melograni scrisse nel suo brillante Saggio sui potenti:

"Ma in tutti i luoghi l'assetto politico-sociale è il risultato di tendenze e di forze numerose e complesse, materiali e spirituali, razionali e irrazionali, difficilmente controllabili. Nel continuo, intricato, ondeggiante accavallarsi di tutte queste forze e tendenze deve essere cercata la spiegazione delle diverse situazioni storiche nelle quali gli individui e le collettività si trovano concretamente ad operare. Gli stessi capi... sono profondamente condizionati e spesso addirittura travolti dalla circostante realtà" (ed.1977, pag. 123).

Anche e soprattutto la gente comune deve fonteggiare una realtà che travolge individui, famiglie, imprese. Ma più dei potenti ripone le proprie residue speranze in spiegazioni e misure semplicistiche, mentre riconoscendo ed accettando la complessità potrebbe trovare concrete soluzioni.
Fuori dei suoi confini oggi l'Italia è guardata con apprensione.




Preoccupano le scelte del suo elettorato, ma devono ancor più preoccupare la cultura politica diffusa, l'addestramento alla vita democratica, la capacità di competere con successo nel mercato globale. Queste sono le risorse più inadeguate.

martedì 19 febbraio 2013

Russia. L' agenda economica del governo.


Nella società sovietica matura "il potente Stato redistributivo garantiva alla popolazione un alto grado di stabilità e di salvaguardia sociale non giustificabili con il livello di produttività raggiunto dall'economia sovietica. Il "segreto" della politica economica di Breznev fu svelato soltanto dopo la morte del suo ideatore".
"Il regime brezneviano aveva rinunciato definitivamente a introdurre qualsiasi seria riforma strutturale e cominciato a sostituire le riforme con l'esportazione di materie prime ed energia. Gli sforzi principali si erano concentrati sullo sviluppo rapido e ipertrofico dell'industria estrattiva, in primo luogo, di petrolio e gas".
"Tale politica di sostituzione delle riforme con la svendita delle ricchezze naturali contribuì a mantenere lo sviluppo dell'industria e a creare un gran numero di posti di lavoro. Questa fu la ricetta brezneviana per l'organizzazione della stabilità e del consenso nella società sovietica" (Victor ZASLAVSKY, Storia del sistema sovietico, 2009, p. 194).

L'URSS si è dissolta nel 1991, ma questo assetto non ha subito mutamenti decisivi. La Russia è ancora in larga misura dipendente dall'esportazione di petrolio, gas e altre materie prime. Il governo russo tenta di realizzare riforme strutturali: diversificazione produttiva, riduzione del deficit, innovazione tecnologica, ristrutturazione del sistema assistenziale/previdenziale e rinnovamento istituzionale vengono riproposti come punti principali dell'agenda governativa.





Russia OGGI ne espone le linee guida, con un interessante riferimento all'evoluzione del mercato internazionale del gas:


"L’impennata nella produzione a basso costo del gas di scisto e la costruzione degli impianti per la sua liquefazione e il successivo trasporto in Europa costituiscono una reale minaccia per Gazprom, i cui ricavi vengono prodotti al 75 per cento dall’esportazione. Per parecchi anni Gazprom ha guardato con scetticismo alla realtà di una simile minaccia e quindi alla sua remota eventualità, ma a un tratto essa è apparsa come una prospettiva imminente".




Da sottolineare infine il ruolo tuttora centrale dell'industria degli armamenti russa. Nel 2011 la Russia ha mantenuto la posizione di secondo esportatore di armi al mondo dopo gli Stati Uniti. Nel Ventunesimo secolo non potrà più essere soprattutto un esportatore di armi e materie prime energetiche. Ma la strada delle riforme è in salita.

lunedì 11 febbraio 2013

La democrazia occidentale tra promessa e realtà.


Le idee sono potenti fattori della storia umana. Nel Settimo secolo la nuova religione islamica mutò rapidamente e imprevedibilmente non solo i tratti culturali ma lo stesso assetto politico del bacino del Mediterraneo. Il marxismo-leninismo e l'ideologia nazista produssero i grandi totalitarismi del Ventesimo secolo.
Riferendosi a tali totalitarismi Robert Conquest ha intitolato un suo brillante libro Il secolo delle idee assassine. Ma alcuni ideali hanno svolto un ruolo determinante anche nella formazione e nella evoluzione delle democrazie liberali. Sovranità popolare, uguaglianza di fronte alla legge, uguaglianza delle opportunità, diritto alla ricerca della felicità e libertà sono le idee che hanno fondato e legittimato le democrazie occidentali a partire almeno dalle rivoluzioni settecentesche, con le loro incisive dichiarazioni dei diritti dell'uomo e del cittadino.




Queste promesse fondanti e legittimanti rappresentano però l'origine di problemi e tensioni che possono rivelarsi fatali per gli stessi assetti sociali ed istituzionali che hanno potentemente contribuito a creare.
Francois Furet ha scritto:

"Libertà ed eguaglianza sono promesse illimitate". "Quelle promesse astratte in realtà creano un divario insormontabile tra le aspettative dei popoli e quello che la società può offrire". "Si spiega così quell'aspetto certamente singolare della democrazia moderna nella storia universale, che consiste nell'infinita capacità di produrre giovani e adulti che detestano  il regime sociale e politico nel quale sono nati e odiano l'aria che respirano, pur vivendone e non conoscendone altre". "Ho in mente... la passione politica costitutiva della democrazia, quella fedeltà esasperata ai principi che nella società moderna rende un po' tutti nemici del borghese, compreso lo stesso borghese" (Il passato di un' illusione, 1997, p. 23 e seg.).

Queste parole dell'insigne storico francese risalgono agli albori della globalizzazione contemporanea, quando il divario di produttività tra l'Occidente avanzato ed i paesi cosiddetti emergenti era ancora ampio a favore dei paesi occidentali più sviluppati. Proprio l'elevata produttività in termini assoluti e relativi ha consentito il notevole miglioramento delle condizioni di vita di larghi settori della popolazione e l'avvicinamento tra promessa e realtà che contiene il malcontento.
Oggi elevati livelli  di produttività si raggiungono anche nei paesi ormai ex emergenti, nei quali inoltre costo del lavoro, pressione fiscale, relazioni industriali, tutela dell'ambiente e situazione politica rendono vantaggiosa la produzione manifatturiera, lì spesso trasferita dai paesi di più antica industrializzazione. Così diventa sempre più difficile garantire buone opportunità nelle democrazie occidentali. La distanza tra promessa e realtà si allarga. Non si può escludere la rivolta di chi non ha accesso a uno standard considerato irrinunciabile.
Che fare? E' urgente eliminare privilegi, rendite di posizione, chiusure corporative. Occorre ripristinare sufficienti produttività e competitività, esercitando nel contempo pressioni sulle nuove potenze affinché aprano le loro economie, oggi ancora sottratte alla concorrenza leale con dazi, regole ed intervento pubblico. Bisogna favorire lo sviluppo di una cultura compatibile con le esigenze della democrazia liberale e della crescita economica. Si deve educare alla libertà responsabile, insegnando ai giovani a vedere ed accettare la complessità, ad imparare dagli errori. E' necessario diffondere la consapevolezza che non esistono pasti gratis, che per ogni pasto consumato qualcuno paga il conto. Troppo? Troppo difficile? L'alternativa è un doloroso declino. 

mercoledì 6 febbraio 2013

Cina e crisi. La durevole diversità.



Da un articolo di Stephen S. Roach, professore all'Università di Yale ed ex presidente della Morgan Stanley Asia, su Il Sole 24 Ore del 29 gennaio 2013:

" La Cina ha smentito gli scettici ancora una volta. Nell'ultimo trimestre del 2012, infatti, la crescita economica del Paese si è attestata al 7,9%, registrando un’accelerazione di mezzo punto percentuale rispetto alla crescita del Pil, pari al 7,4%, nel trimestre precedente. Dopo dieci trimestri consecutivi di decelerazione, si tratta di un incremento degno di nota che segna il secondo atterraggio morbido dell'economia cinese in poco meno di quattro anni".
"Malgrado i discorsi sull’imminente spostamento dell'asse verso la domanda interna, la Cina continua a dipendere fortemente dalle esportazioni e dalla domanda esterna, fattori determinanti per la sua crescita economica".
"La Cina è riuscita a resistere ai duri shock esterni degli ultimi quattro anni grazie al risparmio (53% del Pil) e alle riserve valutarie (3.300 miliardi dollari), che hanno funto da cuscinetto".
"L'economia cinese appare più instabile, avendo registrato importanti rallentamenti nella crescita del Pil reale sia nel 2009 che nel 2012. Anche i suoi squilibri interni si sono aggravati, con la percentuale di investimenti del Pil che sfiora il 50% e i consumi privati inferiori al 35%".

La Cina, grazie al suo welfare produttivistico che, utilizzando strumenti semiprivati, "copre" e costa meno di quelli dell'Europa occidentale, può attingere a imponenti riserve valutarie e a una elevata quota di risparmio per realizzare investimenti. Sembra improbabile che i governanti cinesi rinuncino ai vantaggi competitivi che tale modello offre nella economia globalizzata per aderire a quello europeo. I tecnocrati che oggi reggono la potenza asiatica sono ben consapevoli dei problemi che affliggono le democrazie europee. Significativa questa intervista a Al Jazeera di Jin Liqun, presidente del fondo sovrano cinese:




Sono i difetti del welfare, secondo Jin Liqun, le cause della crisi europea. Le leggi sul lavoro sono obsolete, spingono alla pigrizia e all'indolenza invece che al duro lavoro. Il "welfare system" è buono per ogni società per ridurre il divario, per aiutare gli svantaggiati, ma una società del benessere non deve indurre la gente a non lavorare duramente. Questa Europa non attrae più a sufficienza investimenti stranieri.

Luca Vinciguerra su Il Sole 24 Ore del 31 gennaio 2013 ha scritto:

"Ma nel caso della Cina il sostegno fornito ai colossi di Stato, e la totale schermatura contro qualsiasi forma di concorrenza esterna, ha raggiunto livelli parossistici. Che si sono materializzati in una serie di privilegi altrove impensabili: benefici fiscali, credito illimitato, sussidi a pioggia, concessioni di terreni a costo zero, accesso preferenziale alle commesse pubbliche".
"Risultato: la forbice tra i valori medi della produzione industriale delle aziende di Stato e del settore privato si è progressivamente allargata, passando da sei volte del 2004 a undici volte del 2010. "L'industria pubblica cinese ha raggiunto uno strapotere simile a quello detenuto dai kombinat in Unione Sovietica – avverte un bancario occidentale - Con la differenza, però, che a quei tempi Mosca non competeva e non voleva competere con nessuno sia sul mercato interno che su quello internazionale, mentre i national champion cinesi puntano a conquistare il mercato globale".

Proprio nel settore delle aziende di stato il regime cinese probabilmente concentrerà gli sforzi per incrementare la produttività e razionalizzare un assetto socioeconomico che non può e non vuole davvero stravolgere. I dirigenti cinesi non imboccheranno con decisione la via dell'aumento della domanda di beni di consumo e continueranno ad indurre un elevato risparmio privato con uno stato sociale "corto", che responsabilizza individui e famiglie. Chi in Occidente punta su una Cina che abbandoni le sue peculiarità per tentare di conseguire lo standard democratico-sociale europeo confonde i propri desideri con la realtà.

martedì 29 gennaio 2013

Nord Africa e Medio Oriente. La prospettiva propagandistica.




In una lucida analisi del rapporto tra sicurezza europea e destino dell'unione politica europea Angelo Panebianco, sul Corriere della Sera del 28 gennaio 2013, ha riassunto le preoccupazioni per la situazione delle aree di espansione dell'islamismo radicale:

"Dodici anni dopo l'attacco dell'11 Settembre, appare chiaro che il mondo occidentale sta perdendo la battaglia per contenere la diffusione dell'islamismo radicale. Né la strategia di Bush né quella di Obama, pur diversissime, hanno dato i frutti sperati. In Afghanistan e in Pakistan la minaccia non è stata affatto debellata. Per parte loro, le rivoluzioni arabe, che tante speranze avevano suscitato, hanno accresciuto il pericolo.
Nel più importante Paese arabo, l'Egitto, l'opposizione si scontra ormai quasi quotidianamente nelle piazze con il governo islamista, democraticamente eletto ma già nel mirino di Amnesty International per le continue violazione dei diritti umani. Nel frattempo, i salafiti dilagano nell'Africa subsahariana (aiutati anche dalla dabbenaggine esibita da noi occidentali nella vicenda libica). Cercano di creare nuovi Afghanistan in grado di minacciare chiunque, europei inclusi, ostacoli il loro disegno espansionista".

A tali preoccupazioni si accompagnano spesso critiche rivolte ai governi occidentali che quelle rivoluzioni hanno appoggiato e forse fomentato. Perchè togliere l'appoggio a regimi dispotici ma amici dell'Occidente per dare aiuto ai compositi movimenti rivoluzionari? Non erano forse già allora chiari i rischi?
Bisogna prendere in considerazione l'alternativa. Continuare a puntellare i regimi corrotti e autoritari del Nord Africa e del Vicino Oriente si sarebbe rivelato dannoso anche sul piano politico-propagandistico. La memoria storica dei musulmani e degli arabi in particolare raggiunge livelli di intensità e sensibilità ormai non ravvisabili in Occidente, come ha ben sottolineato Bernard Lewis:  "I popoli musulmani, come tutti i popoli del mondo, sono stati plasmati dalla loro storia, ma a differenza di altri ne sono fortemente consapevoli" (La crisi dell' Islam, 2004, pag. 5) .
Le vicende passate forniscono chiare indicazioni sui danni a lungo termine prodotti da atteggiamenti impresentabili in ambito politico-propagandistico. Basti pensare al colpo di stato contro Mossadeq in Iran. Nel 1951 "l'autorità dello scià subì un duro colpo...quando, cedendo alle pressioni dell'opinione pubblica, nominò alla carica di primo ministro un eccentrico nazionalista, il dottor Muhammad Mossadeq. Questi, per prima cosa, nazionalizzò l'industria petrolifera, sfidando il governo britannico che possedeva il 50 per cento della Iranian Oil Company".
"La Gran Bretagna e ancor più gli Stati Uniti esagerarono sulla vulnerabilità di Mossadeq all'influenza dei comunisti". Nel 1953 "la CIA e il SIS organizzarono congiuntamente un colpo di Stato che rovesciò Mossadeq e restaurò l'autorità dello scià". "Il breve successo del colpo di Stato, tuttavia, fu abbondantemente offuscato dal danno a lungo termine subito dalla politica americana e britannica in Iran. Fu semplicissimo, per il KGB, alimentare tra gli iraniani la convinzione già ampiamente diffusa secondo cui la CIA e il SIS continuavano a manovrare oscuramente dietro le quinte. Persino lo scià giunse a sospettare, in alcuni casi, che la CIA stesse cospirando contro di lui" (Christopher ANDREW e Vasilij MITROKHIN, Una storia globale della guerra fredda, 2005, p.183 e seg.).

Il sostegno offerto alle rivoluzioni arabe, pur criticabile sotto altri profili, pone innegabilmente l'Occidente in una posizione meno difficile sotto quello propagandistico, di fronte alla stretta illiberale operata dai movimenti islamici radicali. Chi ha già difeso libertà e democrazia può oggi con qualche coerenza opporsi a chi intende soffocare ogni genuina aspirazione ad esse.

mercoledì 23 gennaio 2013

Gli USA di Obama evitano il baratro ma non il declino.





Gianni Riotta su La Stampa del 22 gennaio 2013 ha così delineato le prospettive della seconda presidenza Obama:

"Il brusco passaggio dall’utopia alla realtà è la cifra del secondo mandato di Obama".
"Non si può più - Obama lo sa, ma non ha fatto nulla, perfino stracciando le proposte di una commissione bipartisan convocata sul tema - spendere come se le tasse Usa fossero altissime e tassare come se la spesa Usa fosse ridottissima. Alta spesa e basse tasse sono, da G. W. Bush soprattutto, somma rovinosa. Con un numero record di americani che vanno in pensione, figli del boom del dopoguerra, le tre voci di spesa, difesa, sanità e pensioni, vanno tagliate. Gli economisti più intelligenti, come Rogoff, propongono di «tagliare la spesa attraverso l’innovazione», riformando cioè esercito, ospedali, sussidi agli anziani e scuole con le tecnologie, per fornire servizi a spesa ridotta. Ma nessuno ha il coraggio di dirlo agli elettori".

"Nessuno ha il coraggio di dirlo agli elettori". Sono le aspettative degli elettori, da sempre e sempre più nelle democrazie occidentali, ciò che fa la differenza.

Sul Corriere della Sera del 23 gennaio 2013 Giovanni Sartori ha scritto:

" Un libro molto letto, oggi, nelle università americane, è Prozac Leadership di David Collinson: un titolo che dice tutto, e cioè che il crac è figlio di una cultura che "premiando l’ottimismo ha indebolito la capacità di pensare criticamente, ha anestetizzato la sensibilità al pericolo"".

In America come in Europa è difficile dire agli elettori verità che non sono preparati a sentire e a capire. I problemi di competitività posti dalla globalizzazione e l' insostenibilità del nostro welfare appaiono spesso argomenti tabù. Eppure questi sono i temi decisivi e pressanti. Non a caso sono stati pubblicamente discussi nei paesi che meglio hanno retto l' urto della crisi. I politici tedeschi ne parlano, compresi da un elettorato che meno di altri si lascia suggestionare dagli imbonitori.
Alcuni recenti dati mettono a nudo le difficoltà strutturali dell' economia americana. Le grandi compagnie dell' hi-tech mostrano un' insolita caduta dei profitti:

"E' il poker dell'hi-tech a stelle e strisce: Google, Ibm, Apple e Microsoft. Ma questa volta la "mano" giocata degli utili tecnologici questa settimana non basterà a vincere la partita dei profitti a Wall Street: le aziende dell'alta tecnologia, abituate a sbancare con marce inesorabili dei bilanci e trainare l'intera stagione dei conti, questa volta usciranno sconfitte. Le performance, ammoniscono gli analisti, dovrebbero mostrare nell'insieme - cioe' una volta sommate 70 grandi società - un insolito calo dei profitti trimestrali" ( Marco Valsania - Il Sole 24 Ore).

Fondamentale importanza ha la bilancia commerciale. L' ormai abituale deficit aumenta, ma soprattutto tale aumento non è determinato dalle importazioni di petrolio nè dalle vicende del settore alimentare, bensì dall' andamento dei beni di consumo:

 "Brutta sorpresa per i mercati dagli Stati Uniti. A novembre il deficit commerciale Usa è cresciuto del 15,8%, a 48,73 miliardi di dollari, dai 42,06 miliardi di dollari di ottobre (dato rivisto al ribasso dai precedenti 42,24 miliardi). Gli analisti avevano previsto invece un ribasso a 41,2 miliardi, sulla scia del calo dei prezzi del petrolio.
Il risultato è dovuto principalmente all'aumento delle importazioni di beni non petroliferi, che hanno toccato livelli record. Se dal conteggio si esclude l'oro nero, il dato ha raggiunto i massimi degli ultimi cinque anni. Lo ha reso noto il dipartimento del Commercio americano.
In generale le importazioni sono aumentate del 3,8%, a 231,28 miliardi, con rialzi soprattutto per i beni di consumo. In particolare, gli acquisti di cellulari sono saliti del 27% e i prodotti farmaceutici quasi del 20%. L'import di greggio è sceso a 23,68 miliardi di dollari, dai 25,9 miliardi di ottobre. Il prezzo medio del barile è calato di 2,3 dollari, a 97,45 dollari" (FIRSTonline).

Quando il consumatore può spendere continua ad acquistare beni di produzione straniera, più competitivi rispetto a quelli prodotti negli Stati Uniti. Senza una manifattura ad alto valore aggiunto davvero competitiva gli USA  come l' Europa non possono risolvere i propri problemi, non riescono a creare nuova occupazione di buona qualità e a ottenere redditi più alti per ampi settori della popolazione.
E' sempre più evidente che il lassismo monetario e di bilancio praticato dall' Amministrazione Obama non è in grado di fronteggiare adeguatamente questi problemi strutturali, risultando controproducente. Un severo monito per chi in Italia vorrebbe allentare la disciplina fiscale e monetaria senza un efficace taglio della spesa pubblica corrente.


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