Translate

mercoledì 1 giugno 2011

Debito e crescita. La soluzione non è a portata di mano.

Sul Corriere della Sera Dario Di Vico propone un'analisi del discorso del governatore uscente della Banca d'Italia Mario Draghi. Diversi i rilievi mossi dal governatore. Il governo è accusato di aver realizzato tagli lineari alla spesa. Tagli selettivi, uniti al recupero dell'evasione, avrebbero invece consentito di diminuire la pressione fiscale su lavoratori e imprese, accrescendo nel contempo la produttività del sistema.
La critica dei tagli lineari ricorre spesso, ma pare non tener conto a sufficienza delle caratteristiche della spesa pubblica italiana, rappresentata prevalentemente dalla spesa sanitaria, dalle retribuzioni dei dipendenti pubblici e dalla spesa previdenziale.
Alla sanità i tagli cosiddetti intelligenti gioverebbero grandemente e rilevanti sarebbero i risparmi. Ma qui è decisiva la competenza delle regioni. La loro gestione dovrebbe dare attuazione ai buoni propositi espressi a livello centrale.
Altrettanto difficile è intervenire selettivamente sul numero e soprattutto sulle retribuzioni dei dipendenti pubblici per risparmiare e aumentare la produttività. La spesa previdenziale poi, per sua stessa natura, mal si presta ad interventi di questo tipo.
Condivisibile è la fiducia espressa dal governatore nell'indipendenza della istituzione che dirige e nelle qualità dei suoi collaboratori. Ma le banche centrali e le agenzie indipendenti avrebbero dovuto prevenire la recente crisi economica. L'errore e la negligenza non sono evidentemente una prerogativa esclusiva delle agenzie governative.
Poi il biasimo per le riforme non realizzate. "La lista del Governatore" - scrive Di Vico - "è fatta di otto proposte e si apre con l'efficienza della giustizia civile, il sistema dell'istruzione, la concorrenza, il mercato del lavoro e gli investimenti nelle infrastrutture. Si tratta di riforme alcune delle quali, da sole, valgono un punto di Pil e che vanno realizzate pensando "a quale Paese lasceremo ai nostri figli".
Il governo in carica ha già modificato il processo civile italiano, introducendo importanti novità. Non si dimentichi però che la giustizia italiana ha caratterstiche peculiari. L'ordinamento non solo tutela rigorosamente l'autonomia e l'indipendenza dei magistrati nell'esercizio delle funzioni giurisdizionali ma attribuisce ai magistrati capi degli uffici giudiziari anche compiti di indirizzo per la gestione delle risorse umane (personale amministrativo), finanziarie e strumentali. E' certo necessario ridurre il numero di tali uffici giudiziari e razionalizzare la loro distribuzione sul territorio. Ma spesso sono le qualità dei magistrati dirigenti a fare la differenza sotto il profilo della produttività.
Quanto al settore dell'istruzione, sono note le vicende della riforma Gelmini. Fondati sembrano poi molti dei rilievi di Draghi a proposito delle mancate liberalizzazioni. Ma su queste esiste in Italia un vero consenso popolare?
Altrettanto fondate sono le considerazioni del governatore sulle deficienze strutturali e culturali delle aziende italiane. La pressione esercitata dal mercato globalizzato già determina un'evoluzione non priva di dure conseguenze personali.
Nella relazione insomma non mancano aspetti discutibili. Draghi conosce bene la complessità della situazione italiana. Qualche cenno in più alle peculiari difficoltà che si incontrano nel tentare di riformare il nostro paese avrebbe costituito una ulteriore chiara manifestazione di indipendenza ed autorevolezza.

mercoledì 25 maggio 2011

Tocqueville: le preferenze religiose dei popoli democratici.


Nella Democrazia in America - libro terzo, parte prima, capitolo settimo - Tocqueville scrisse:

"In questi tempi lo spirito umano tende ad abbracciare contemporaneamente una quantità di oggetti diversi; e aspira senza posa a collegare moltissime conseguenze ad una sola causa. L'idea dell'unità lo assilla, l'assedia; l'uomo la cerca ovunque e quando crede di averla trovata si adagia volentieri in essa e vi riposa. Non solamente egli viene a scoprire nel mondo una creazione e un creatore; questa prima divisione delle cose lo urta; ed egli cerca volentieri di ingrandire e semplificare il suo pensiero riunendo Iddio e l'universo in un tutto unico. Se trovassi un sistema filosofico secondo il quale le cose materiali e immateriali, visibili e invisibili, racchiuse nel mondo non sono più considerate che come parti diverse di un essere immenso, che solo resta eterno nel mezzo del cambiamento continuo e della trasformazione incessante di tutto ciò che lo compone, non avrei difficoltà a concludere che un simile sistema, sebbene distrugga l'individualità umana o, piuttosto, perchè la distrugge, avrà delle attrattive segrete per gli uomini che vivono nelle democrazie; i quali sono preparati a concepirlo e ad adottarlo da tutte le loro abitudini intellettuali. Esso attira naturalmente la loro immaginazione e la fissa, alimenta l'orgoglio del loro spirito e accarezza la loro pigrizia.
Fra i differenti sistemi per mezzo dei quali la filosofia cerca di spiegare l'universo, il panteismo mi sembra uno dei più adatti a sedurre lo spirito umano nei secoli democratici; è contro di esso che tutti coloro i quali sono persuasi della vera grandezza dell'uomo debbono riunirsi e combattere".

Anche nel cinema la conferma di questa lucida previsione. Avatar di James Cameron rappresenta l'esempio più rilevante: la divinità è un tratto della Natura. La sete di senso dell'uomo contemporaneo è placata da una visione che dissolve nel Tutto ogni individualità.
Il recente splendido The Tree of Life di Terrence Malick non si presta invece a semplificazioni riduttive e a letture unilaterali. La Grazia evocata ed invocata nel film non sembra del tutto estranea all'esito dell'elaborazione delle teologie cristiane. Ne risulta la prospettiva di una comunione che non cancella l'individualità, bensì la esalta.

domenica 15 maggio 2011

Impiegati. Il lavoro che oggi sognano i giovani.

Due interessanti articoli, di Isidoro Trovato sul Corriere della Sera e del professor Luca Ricolfi su Panorama del 12 maggio 2011, mettono in evidenza alcuni aspetti inquietanti della condizione in cui versano i giovani italiani.

"...negli anni 10 del terzo millennio scopriamo che l'impiegato è il mestiere più agognato. Altro che sogni di gloria, di fama e di potere. Tutto quello che vogliamo è un posto sicuro che ci protegga dalle avversità del mondo. Un posto da impiegato, appunto. A dimostrarlo è un'indagine di Adecco, la più grande agenzia per il lavoro in Italia che ha condotto la ricerca su un campione di 6.500 persone di età compresa tra i 26 e i 50 anni (il 49% degli intervistati ha un'età compresa tra i 26 e i 35 anni) e chiedendo quale fosse il lavoro dei loro sogni. E l'impiegato è quello che ha raccolto più voti".

"A rendere ancora più incisivo l'esito della ricerca basta fare il raffronto con la stessa (condotta sempre da Adecco) dieci anni fa: allora il sogno era quello di mettersi in proprio e di tentare la fortuna e le sfide dell'imprenditorialità. E l'impiegato si trovava in fondo la classifica, appena sopra il netturbino e l'operaio".

Restano dunque penalizzati nelle aspirazioni dei giovani i lavori più umili, i posti da operaio specializzato, anche in presenza di retribuzioni interessanti, le professioni e le iniziative imprenditoriali.
Questa ridefinizione delle aspirazioni giovanili, accompagnata da un calo della percentuale di nuovi laureati e diplomati, appare il riflesso di una società ingessata, che cresce troppo poco, mentre la mobilità al suo interno si riduce a livelli preoccupanti.
Perchè? Da un lato, come scrive Trovato, "A rinunciare sono soprattutto i figli della classe media, dove la laurea non è una tradizione familiare da generazioni e dove il capitale sociale di relazioni (così utile per trovare un lavoro) è inesistente o scarso". Dall'altro vanno poste in evidenza le rigide modalità di accesso alle libere professioni, non sempre giustificate dall'interesse pubblico.
Da sottolineare anche il ruolo della crisi economica, che rende più difficile l'accesso all'impresa. Se ora è particolarmente arduo continuare un'impresa di dimensioni piccole o medie, le difficoltà per chi vuole iniziare sono spesso insuperabili. Ma importanti motivi attengono alla formazione dei giovani stessi. Scrive il professor Ricolfi:

" A me pare però che ci sia anche un'altra ragione, su cui per lo più si preferisce glissare: la qualità sempre più scadente di professori e studenti, a tutti i livelli dell'istruzione, dalla scuola elementare all'università.
Contrariamente a quanto comunemente si crede, l'abbassamento degli standard non favorisce affatto l'istruzione di massa. O meglio, la favorisce nella scuola dell'obbligo, dove vige la regola non scritta "è proibito bocciare", ma alla lunga la ostacola nell'istruzione superiore, perché i danni cognitivi che la scuola facile (fino a 13 anni) infligge alle menti dei ragazzi sono spesso irreversibili, e comunque troppo ampi per consentire di portare a termine studi che, per quanto dequalificati, richiedono conoscenze e capacità che la scuola ha rinunciato a trasmettere a tutti i suoi allievi".
Ovviamente tale abbassamento degli standard finisce per compromettere anche la preparazione di chi il sempre più svalutato "pezzo di carta" lo ottiene. L'impatto con la realtà del mercato del lavoro e delle attività professionali diventa così non raramente doloroso, con un netto vantaggio per i privilegiati provenienti da famiglie dove la professione è già una posizione acquisita.
Quali i possibili rimedi? Per la scuola l'abolizione del cosiddetto valore legale del titolo di studio, con conseguente selezione più severa di studenti ed insegnanti, accompagnate da un efficiente sistema di borse di studio per i meno abbienti capaci e meritevoli.
Opportuna pare anche una revisione delle modalità di accesso alle libere professioni che, senza diminuire la qualità degli operatori, si ispiri ai principi della libera concorrenza e persegua l'obiettivo di una adeguata mobilità sociale.
Auspicabile pure un riassetto del sistema delle imprese. La costituzione di imprese di maggiori dimensioni, o comunque di reti di imprese, più aperte alle opportunità del mercato globale e più soggette alle sue pressioni, può favorire il ricambio nei ruoli manageriali.
Ed infine due parole sull'educazione familiare dei giovani. L'assunzione di rischi ragionevoli e di responsabilità deve essere incentivata. L'abitudine alla fatica e ad una corretta competizione va favorita. Perché una grande società aperta ha bisogno di tutti e dell'impegno di tutti.




venerdì 6 maggio 2011

La morte di Osama bin Laden: un successo da non sopravvalutare.

L'eliminazione di bin Laden ha permesso a Barack Obama di riconquistare parte del consenso perduto. Ma la sua presidenza continua ad apparire fallimentare a molti suoi concittadini.
Al debito pubblico fuori controllo non corrispondono una valida ripresa economica e una apprezzabile riduzione della disoccupazione. Una ripresa vitale, non effimera, può arrivare solo da un aumento degli investimenti privati, da un incremento della produttività e della competitività diffuso, non limitato ad alcune grandi compagnie, da una minor adesione a stili di vita distruttivi e autodistruttivi, accompagnata dal concreto raggiungimento di migliori standards di etica del lavoro e della responsabilità.
Fuori dai confini statunitensi i problemi, vecchi e nuovi, sono lontani da una soluzione. In Medio Oriente e Nord Africa le recenti rivolte popolari aprono anche inquietanti prospettive. Dove i regimi autoritari sono caduti le richieste di più alti salari e maggiori spese pubbliche comportano rischi sotto il profilo della tenuta dei conti pubblici. Mentre le entrate derivanti dal turismo e gli investimenti stranieri potrebbero diminuire.
Altre preoccupazioni crea il più importante ruolo esercitato dai movimenti islamici. In Siria e soprattutto in Iran i regimi autoritari esistenti sembrano in grado di restare in sella incattivendosi ulteriormente. Il conflitto israeliano - palestinese non è componibile. I Palestinesi non accettano e non accetteranno l'esistenza di uno stato ebraico. Gli Israeliani non accettano e non accetteranno il ritorno in Israele dei profughi palestinesi. Gli ostacoli sembrano insuperabili. L'aumentata influenza delle masse islamiche, educate nell'odio verso Israele, non può che far diminuire le residue speranze di pace.
E poi Iraq e Afghanistan. Il disimpegno dall'Iraq, anche se non totale, compromette una vittoria ottenuta a carissimo prezzo, aprendo la porta a sempre maggiori ingerenze iraniane. L'Afghanistan, oggetto di tante promesse elettorali del presidente Obama, probabilmente verrà in larga misura riconsegnato ai Talebani. Una fuoriuscita politica in realtà corrispondente ad una resa, che la scomparsa di bin Laden non può coprire efficacemente agli occhi dell'opinione pubblica americana.
Infine il reset dei rapporti con la Russia. Assistiamo ad una battuta d'arresto, spiegabile più con la insufficiente autorevolezza che con una accresciuta fermezza di Barack Obama.
Questi sono soltanto alcuni dei problemi che potrebbero precludere a Obama la riconferma presidenziale. Oggi il presidente USA ottiene un consenso più ampio. Ma gli elettori statunitensi, formati in una vecchia e solida democrazia, difficilmente ripetono due volte lo stesso errore.

giovedì 28 aprile 2011

Saddam e Gheddafi. Due pesi, due misure.




Il recente intervento occidentale in Libia richiama inevitabilmente alla memoria la Seconda guerra del Golfo, cioè l'intervento anglo - americano in Iraq deciso per abbattere il regime di Saddam Hussein.
Saddam non è mai stato un "uomo degli Americani", nonostante le tante leggende in senso contrario. Qui si possono trovare dati precisi sulle forniture di armi all'Iraq nel decennio 1980 - 1990 (il Kuwait fu appunto occupato nel 1990). I grandi fornitori di armi di Saddam erano Unione Sovietica, Cina e Francia. Le importazioni in Iraq di armi americane risultano quantitativamente e qualitativamente trascurabili.
Risale al 1991 la Prima guerra del Golfo, cioè l'operazione militare internazionale, guidata dagli Stati Uniti, che si concluse con la liberazione del Kuwait e con l'imposizione all' Iraq di un rigido embargo economico da parte dell'ONU, poi temperato dall'attuazione del cosiddetto programma Oil for food, che consentiva l'esportazione controllata di greggio iracheno per l'acquisto di viveri e medicinali. Anche dopo questa sconfitta disastrosa Saddam rimase al potere, torturando e uccidendo in massa i suoi oppositori interni. Continuarono i finanziamenti iracheni ai gruppi estremisti e terroristi palestinesi.
Gli alleati occidentali dovettero mantenere nella regione, soprattutto in Arabia Saudita e Kuwait, ingenti forze militari, costosissime anche sotto il profilo della percezione da parte delle masse islamiche, ma necessarie per esercitare una costante pressione sul regime iracheno.
Ciononostante Saddam continuò a violare l'embargo e a tentare di riprendere l'iniziativa. La gabbia costruita intorno a lui con le decisioni delle Nazioni Unite si rivelò inefficace.
Nella primavera del 2003 iniziò la Seconda guerra del Golfo. Gli Stati Uniti e la Gran Bretagna invasero l'Iraq e posero fine al regime di Saddam. La guerra irachena, intrapresa con una incerta legittimazione ONU, trovò nell'opinione pubblica internazionale una forte opposizione. Ma soprattutto divise lo schieramento occidentale. Francia e Germania infatti non appoggiarono l'azione militare promossa dagli Stati Uniti.

Da sottolineare la forte mobilitazione contro la guerra dell'intelligencija dei paesi occidentali, tranne poche eccezioni, sia pure talvolta autorevoli. Questa stessa intelligencija ora appoggia l'intervento per abbattere il regime di Gheddafi. Può bastare la copertura ONU, oggi completa, a giustificare un giudizio tanto differente? O siamo piuttosto in presenza dell'uso di due pesi e due misure? Questi intellettuali, al consapevole servizio di una visione politica e non della verità, rappresentano un fenomeno esploso nel Novecento dei grandi totalitarismi. Un vero e proprio tradimento, che priva la società aperta di una delle sue migliori risorse.









mercoledì 20 aprile 2011

Il tema musicale della Follia dal Seicento a Stanley Kubrick.


Il tema musicale della Follia ha attraversato i secoli. Probabilmente di origine portoghese, dal Rinascimento ai nostri giorni ha continuato a segnare la musica occidentale. Con esso si sono cimentati i più grandi compositori. La sua versione di Handel è entrata a far parte della colonna sonora di uno dei film più noti di Stanley Kubrick: Barry Lyndon.
Di seguito i link alle versioni di:





















che entra a far parte della colonna sonora del Barry Lyndon di Kubrick (1975)


martedì 12 aprile 2011

Economicismo.

L'espressione economicismo (o economismo), pur essendo usata anche per contrassegnare preferenze e visioni morali, acquista particolare importanza nel dibattito sui fattori che determinano i processi storico-sociali, le vicende economiche e gli stessi sviluppi del pensiero umano.
Ha scritto Karl Popper in Congetture e confutazioni, 2000, pagg. 564 e 565:

"...sono convinto che l'economicismo di Marx - l'enfasi da lui posta sullo sfondo economico quale base ultima di ogni sorta di sviluppo - è sbagliato e di fatto insostenibile. Ritengo che l'esperienza della realtà sociale mostri chiaramente che in determinate circostanze l'influenza delle idee (rafforzate magari dalla propaganda) può superare in importanza e sostituirsi alle forze economiche. Inoltre, concesso che è impossibile comprendere compiutamente gli sviluppi mentali senza comprendere il loro sfondo economico, è almeno altrettanto impossibile comprendere gli sviluppi economici trascurando, per esempio, lo sviluppo delle idee scientifiche o religiose".

Ideologie, teorie scientifiche e religioni sono opere della mente umana, seppure non progettate da singoli individui. Anche se non incarnate in oggetti fisici producono effetti nella realtà e devono quindi essere considerate reali. Nella tripartizione istituita da Popper appartengono al "Mondo 3", quello, appunto, " dei contenuti di pensiero, o per meglio dire, dei prodotti della mente umana" (L'Io e il Suo Cervello, vol. I, 1982, pagg. 52 e segg.).

Uno straordinario esempio di influenza determinante di fattori non economici è stata autorevolmente considerata la rapida espansione araba del VII secolo. Henri Pirenne, tra i massimi esponenti della storiografia europea del Novecento, studioso incline alle indagini quantitative e attento ai fattori economici, nel suo Maometto e Carlomagno, parte seconda, capitolo primo, ha scritto:

"La conquista araba, che si scatena contemporaneamente sull'Europa e sull'Asia, non ha precedenti: la rapidità dei suoi successi può essere paragonata soltanto a quella con cui si costituirono gli imperi mongoli di un Attila, o, più tardi, di un Genghiz Khan o di un Tamerlano. Ma quelli furono tanto effimeri quanto la conquista dell'Islam fu duratura. Questa religione ha ancora oggi i suoi fedeli in quasi tutte le terre in cui si era imposta sotto i primi califfi. La sua diffusione fulminea è un vero miracolo paragonata alla lenta espansione del cristianesimo.
Di fronte a questa irruzione cosa sono le conquiste, tanto a lungo arginate e così poco violente dei Germani che dopo secoli riuscirono appena a rosicchiare i confini della Romania?"

"Tutto questo si spiega senza dubbio con l'imprevisto, con lo smarrimento degli eserciti bizantini disorganizzati e sconcertati di fronte a un nuovo modo di combattere; con il malcontento religioso e nazionale dei monofisiti e dei nestoriani di Siria, ai quali l'Impero non vuol fare alcuna concessione; col malcontento della Chiesa copta d'Egitto e con la debolezza dei Persiani.
Ma tutte queste ragioni non sono sufficienti a spiegare un trionfo così assoluto. L'immensità dei risultati conseguiti è sproporzionata rispetto all'importanza del conquistatore".

Evidentemente l'entusiasmo religioso ha svolto un ruolo decisivo. Va insomma sottolineata l'importanza di ideologie, teorie e visioni religiose nella spiegazione storica. La storia delle idee rappresenta una componente fondamentale della ricerca storica. Per il Novecento in particolare sono da citare Francois FURET, Il passato di un' illusione e Robert CONQUEST, Il secolo delle idee assassine.



martedì 5 aprile 2011

La loggia P 2 secondo Francesco Cossiga.



Il 3 febbraio 1871 Roma diventò capitale del Regno d'Italia. Nel 1877 nacque la loggia massonica Propaganda, destinata a raccogliere notabili del nuovo stato italiano giunti a Roma. Sciolta durante il regime fascista, fu ricostituita dopo la Liberazione con il nome Propaganda Due, P 2. Le sue vicende, in particolare durante gli anni Settanta, fino al 1981, sono state oggetto di indagini della Magistratura e di una commissione parlamentare guidata dalla democristiana Tina Anselmi.
Aveva almeno un migliaio di iscritti, soprattutto militari, membri dei servizi segreti, diplomatici, politici e giornalisti. Sulla natura di questa associazione e sulla sua attività si scatenarono battaglie politiche e polemiche giornalistiche che periodicamente riprendono vigore, alimentate dalla presenza nella vita pubblica italiana di alcuni ex membri di tale associazione segreta. Le indagini giudiziarie e parlamentari, pur non dissipando tutti i dubbi, portarono al suo scioglimento ed a una riforma della legislazione sulle associazioni segrete.
L'ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga, recentemente scomparso, ha delineato una personale lettura di quelle vicende, interpretate soprattutto con riferimento alla dura contrapposizione tra Unione Sovietica e Stati Uniti d'America, particolarmente intensa proprio alla fine degli anni Settanta ed all'inizio degli anni Ottanta.
La presenza in Italia del più grande partito comunista dell'Occidente, ancora in quegli anni, durante la segreteria Berlinguer, dipendente dai finanziamenti e dalle direttive sovietichecontribuisce a rendere verosimile la ricostruzione presentata da Cossiga nel suo La versione di K. Sessant'anni di controstoria, 2009, pagg. 129 e segg. Scrive il presidente emerito:

"Io alla storia di Licio Gelli e della loggia massonica P2, almeno come è stata raccontatata, non ci ho mai creduto".

"La P2 non è stata un'invenzione di Gelli. La P2, che vuol dire Propaganda 2..., è quella del Gran Maestro, nata con la presa di Porta Pia. Fu creata per trasferirvi tutte le autorità politiche e militari che venivano a Roma"

"La mia ipotesi è questa. Io mi sono letto tutti i nomi della lista P2, tutti. Alcuni non li conosco, altri li conosco, però erano quasi tutti filo americani e anticomunisti. Quasi tutti fermi, anzi, fermissimi filo americani e anticomunisti. La chiave del giallo, secondo me, è proprio qui.
Per capire, è però inevitabile che io apra un'altra delle mie parentesi. Durante il secondo conflitto mondiale, nel governo svizzero c'era una corrente filo germanica. E il comandante in capo dell'Esercito svizzero tentennava di fronte all'eventualità di una resistenza a oltranza. Ufficiali e sottufficiali di diverso orientamento formarono allora una società segreta, si chiamava "Lega di Nidvaldo" (conosciuta anche come Gotthardverein), in ricordo della ferma lotta dei nidvaldesi contro lo straniero Napoleone. Giurarono, formalmente predisponendosi al tradimento, che se il governo federale, il loro governo, avesse concesso il passaggio ai tedeschi attraverso la Svizzera, loro si sarebbero opposti. Poi, avendo gli alleati vinto la guerra, il governo elvetico e il procuratore generale della confederazione si guardarono bene dal procedere contro di loro. Anche se si erano mobilitati segretamente per opporsi agli ordini del governo legittimo.
Perchè dico questo? Perchè quando ho letto la lista della P2 ho subito pensato che quella era la nostra Lega di Nidvaldo: non contro i nazifascisti, ma contro i comunisti. Lo dissi anche in un'intervista al "Corriere della Sera", ma Gelli volle smentirmi, non so perchè".

"Allora, mettiamo che l'amministrazione americana cercasse di creare la Gotthardverein in Italia. Che fa? Cerca di mettere insieme un'organizzazione in cui ci sono i vertici della diplomazia, delle Forze Armate, della Polizia e così via. E prende a modello quello che è il modello comune degli Stati Uniti e cioè il modello della loggia massonica".

La narrazione di Cossiga ha almeno un grande merito: inserisce le vicende italiane nel più ampio contesto internazionale. Senza questo approccio globale la comprensione appare impossibile. L'Italia non basta per spiegare se stessa.

sabato 26 marzo 2011

Cultura di stato, stato della cultura.

Nel 1991 l'Unione Sovietica si dissolse. Victor Zaslavsky, esaminando il passaggio dall'URSS alla Russia post-sovietica, a proposito dell'intelligencija russa ha scritto:

"la cultura di massa occidentale penetra nella società russa e riceve il consenso popolare; la popolazione sempre di più focalizza la sua attenzione sui problemi della vita quotidiana e della sopravvivenza. In queste nuove condizioni, "l'intelligencija russa come strato sociale, con la sua missione di diffondere una cultura ideologica e una particolare visione del mondo, diventa obsoleta e inutile".

E, riferendosi ai suoi membri che non riescono ad adattarsi alla nuova situazione:

"E' l'intelligencija sovietica che produce una valanga di scritti catastrofisti sulla rovina imminente della Russia e della civiltà russa. Queste previsioni sono provocate da un fenomeno sociale ben noto che si manifesta quando un gruppo, destinato a scomparire dalla scena storica, confonde la propria sparizione con la fine generale della società e della cultura".
(Victor ZASLAVSKY, Storia del sistema sovietico, 2009, pagg. 272 e 273).

Leggendo queste parole è difficile non vedere qualche analogia con l'attuale situazione italiana. Nel Secondo dopoguerra i rapporti di forza tra le grandi potenze hanno costretto il Partito comunista italiano ad operare nella legalità costituzionale.
L'obiettivo di ottenere un'egemonia irreversibile, il cui raggiungimento era precluso in ambito politico istituzionale dalla vigenza delle regole democratiche, è stato perseguito in ambito culturale avvalendosi di un ceto intellettuale gravato della "missione di diffondere una cultura ideologica e una particolare visione del mondo".
I relitti di questo ceto, rafforzati da elementi formati negli ideali e nei metodi del nuovo radicalismo occidentale militante, rappresentano la componente forse prevalente, certamente più rumorosa, della "cultura" posta a rischio dal minacciato taglio dei finanziamenti ministeriali. Taglio ora ridimensionato grazie ad un aumento delle imposte sulla benzina.
Certi vizi della "cultura di stato" di stampo sovietico sono riscontrabili perfino nella lirica e nel cinema che assorbono gran parte del discusso Fondo unico per lo spettacolo: impostazione ideologica e scelte artistiche conseguenti, insufficiente produttività, spreco. Il Corriere della Sera ci offre dati significativi.
Molto discutibili sono spesso, come detto, anche le stesse scelte artistiche. Qui un video che presenta uno dei momenti più belli dell' Europa Riconosciuta di Antonio Salieri.




L'opera, eseguita al Teatro alla Scala di Milano nel 2004, è stata prodotta con interpreti di altissimo livello (Diana Damrau), con la regia di Ronconi e la direzione di Muti. E' probabile che pure i costi siano stati altissimi.
Ma, benchè interessante sotto il profilo storico, è uno spettacolo complessivamente noioso, poco attraente anche per un pubblico attento e preparato. Per questa via, tanto spesso percorsa, l'autofinanziamento pare davvero impossibile.
Quali rimedi? Buona gestione finanziaria, più produttività, scelte artistiche innovative ma sagge, grande qualità coniugata con una costante attenzione al pubblico, autofinanziamento, apertura all'impresa privata. Insomma meno cultura di stato per migliorare lo stato della cultura.


giovedì 17 marzo 2011

Le lampade di Quintino Sella.

Il 17 marzo 1861 Vittorio Emanuele II di Savoia fu proclamato Re d'Italia. Celebriamo il centocinquantesimo anniversario della unificazione italiana ricordando che il lavoro ed il risparmio, non la tronfia retorica, hanno costruito l'Italia unita che guarda al futuro con fondata speranza.
E allora dobbiamo citare il primo grande statista dell'Italia unita, Giovanni Giolitti, e il ministro delle finanze che dette al nuovo stato le risorse finanziarie indispensabili per consolidarsi, Quintino Sella. Sella, ingegnere e scienziato di formazione e professione, durante i primi dieci anni di vita del Regno d'Italia fu ripetutamente ministro delle finanze. Giolitti, nelle Memorie, mette in rilievo le sue grandi intelligenza, cultura e laboriosità. Racconta anche un curioso episodio, rivelatore di un clima morale prima che politico contrassegnato da rigore e senso dello stato.
Scrive Giolitti:
"Era allora in funzione la Commissione per la perequazione dell'imposta fondiaria...la quale...prolungava le sue sedute e i suoi lavori nella notte. Il lavoro si faceva ad un tavolo con lampade a petrolio, e i commissari si lagnavano del puzzo di quelle lampade e chiedevano si sostituissero con lampade ad olio. Ma Sella, che si era accorto che l'olio veniva sottratto, non ne voleva sapere. Allora si presentarono a lui, in forma fra allegra e solenne, due dei commissari, Depretis e Valerio, per commuoverlo, e Valerio esclamò: " Vedi, per non soffrire del puzzo del tuo petrolio, verrò a lavorare con due candele in tasca." "Bravo!" gli rispose il Sella, "così mi risparmi anche il petrolio!" E rifiutò la piccola concessione".

I campioni della retorica nazionalista, gli interventisti della Prima guerra mondiale, il Mussolini dell'alleanza con il regime nazista e delle leggi razziali, i capi di un partito comunista finanziato e diretto dall'Unione Sovietica, hanno posto a rischio l'unità, la libertà e la grandezza dell'Italia. I sostenitori del lavoro, dell'impresa e del risparmio, Giolitti, Sella, De Gasperi e Einaudi le hanno conservate e sviluppate.
Questa è la lezione della storia che i nostri giovani, particolarmente in questa giornata di festa, devono apprendere.

Visite