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martedì 5 marzo 2013

Einaudi e De Gasperi. L'Italia ricostruita con il rigore.








Luigi Einaudi, governatore della Banca d'Italia, ministro delle Finanze e del Tesoro e poi ministro del Bilancio nei Governi De Gasperi, difese strenuamente il valore della lira e limitò rigidamente la spesa pubblica. Questa condotta economica rese possibile la ricostruzione italiana dopo la Seconda guerra mondiale.






Randolfo Pacciardi fu dal 1948 al 1953 ministro della Difesa nei governi De Gasperi. Ha ricordato il secondo presidente della Repubblica italiana con queste  parole:

"Il prestigio di Einaudi in materia economica era indiscusso ed era a lui che spettava l'ultima parola sulle proposte di legge dei singoli ministri. Era rigidissimo. Le sedute del Consiglio dei Ministri con De Gasperi erano interminabili. Einaudi sembrava disinteressarsi delle lunghe discussioni che non riguardavano la sua specifica competenza. Si faceva portare regolarmente un brodo alle 11 del mattino e riteneva che quello fosse il tonico migliore per tener desta la sua attenzione. E' avvenuto anche a me di tentare di profittare a tarda ora della sonnecchiante distrazione di Einaudi per varare proposte di legge che comportavano spese per la Difesa, ma al punto culminante il Ministro del Bilancio si risvegliava regolarmente per dire di no. La difesa della lira faceva parte, egli diceva, del problema generale della difesa del paese".
"Pella, come Ministro del Tesoro aveva davvero le spalle al sicuro. Con questi cerberi alle finanze dello Stato non si facevano davvero spese inutili. Il raddrizzamento della situazione economica nei governi cosiddetti centristi lo si deve certamente a Einaudi" (Protagonisti grandi e piccoli, 1972, p. 186).

Oggi, quando il declino dell'Italia appare una prospettiva difficile da evitare, la lezione di Einaudi e De Gasperi è più che mai attuale. Mentre la demagogia contraddistingue i discorsi e la propaganda dei loro sedicenti eredi, si deve riaffermare con forza il valore della politica economica che consentì di ricostruire l'Italia devastata dalla guerra. 



martedì 26 febbraio 2013

Italia. La disperazione e il semplicismo.


Ormai più di trenta anni fa il compianto professor Piero Melograni scrisse nel suo brillante Saggio sui potenti:

"Ma in tutti i luoghi l'assetto politico-sociale è il risultato di tendenze e di forze numerose e complesse, materiali e spirituali, razionali e irrazionali, difficilmente controllabili. Nel continuo, intricato, ondeggiante accavallarsi di tutte queste forze e tendenze deve essere cercata la spiegazione delle diverse situazioni storiche nelle quali gli individui e le collettività si trovano concretamente ad operare. Gli stessi capi... sono profondamente condizionati e spesso addirittura travolti dalla circostante realtà" (ed.1977, pag. 123).

Anche e soprattutto la gente comune deve fonteggiare una realtà che travolge individui, famiglie, imprese. Ma più dei potenti ripone le proprie residue speranze in spiegazioni e misure semplicistiche, mentre riconoscendo ed accettando la complessità potrebbe trovare concrete soluzioni.
Fuori dei suoi confini oggi l'Italia è guardata con apprensione.




Preoccupano le scelte del suo elettorato, ma devono ancor più preoccupare la cultura politica diffusa, l'addestramento alla vita democratica, la capacità di competere con successo nel mercato globale. Queste sono le risorse più inadeguate.

martedì 19 febbraio 2013

Russia. L' agenda economica del governo.


Nella società sovietica matura "il potente Stato redistributivo garantiva alla popolazione un alto grado di stabilità e di salvaguardia sociale non giustificabili con il livello di produttività raggiunto dall'economia sovietica. Il "segreto" della politica economica di Breznev fu svelato soltanto dopo la morte del suo ideatore".
"Il regime brezneviano aveva rinunciato definitivamente a introdurre qualsiasi seria riforma strutturale e cominciato a sostituire le riforme con l'esportazione di materie prime ed energia. Gli sforzi principali si erano concentrati sullo sviluppo rapido e ipertrofico dell'industria estrattiva, in primo luogo, di petrolio e gas".
"Tale politica di sostituzione delle riforme con la svendita delle ricchezze naturali contribuì a mantenere lo sviluppo dell'industria e a creare un gran numero di posti di lavoro. Questa fu la ricetta brezneviana per l'organizzazione della stabilità e del consenso nella società sovietica" (Victor ZASLAVSKY, Storia del sistema sovietico, 2009, p. 194).

L'URSS si è dissolta nel 1991, ma questo assetto non ha subito mutamenti decisivi. La Russia è ancora in larga misura dipendente dall'esportazione di petrolio, gas e altre materie prime. Il governo russo tenta di realizzare riforme strutturali: diversificazione produttiva, riduzione del deficit, innovazione tecnologica, ristrutturazione del sistema assistenziale/previdenziale e rinnovamento istituzionale vengono riproposti come punti principali dell'agenda governativa.





Russia OGGI ne espone le linee guida, con un interessante riferimento all'evoluzione del mercato internazionale del gas:


"L’impennata nella produzione a basso costo del gas di scisto e la costruzione degli impianti per la sua liquefazione e il successivo trasporto in Europa costituiscono una reale minaccia per Gazprom, i cui ricavi vengono prodotti al 75 per cento dall’esportazione. Per parecchi anni Gazprom ha guardato con scetticismo alla realtà di una simile minaccia e quindi alla sua remota eventualità, ma a un tratto essa è apparsa come una prospettiva imminente".




Da sottolineare infine il ruolo tuttora centrale dell'industria degli armamenti russa. Nel 2011 la Russia ha mantenuto la posizione di secondo esportatore di armi al mondo dopo gli Stati Uniti. Nel Ventunesimo secolo non potrà più essere soprattutto un esportatore di armi e materie prime energetiche. Ma la strada delle riforme è in salita.

lunedì 11 febbraio 2013

La democrazia occidentale tra promessa e realtà.


Le idee sono potenti fattori della storia umana. Nel Settimo secolo la nuova religione islamica mutò rapidamente e imprevedibilmente non solo i tratti culturali ma lo stesso assetto politico del bacino del Mediterraneo. Il marxismo-leninismo e l'ideologia nazista produssero i grandi totalitarismi del Ventesimo secolo.
Riferendosi a tali totalitarismi Robert Conquest ha intitolato un suo brillante libro Il secolo delle idee assassine. Ma alcuni ideali hanno svolto un ruolo determinante anche nella formazione e nella evoluzione delle democrazie liberali. Sovranità popolare, uguaglianza di fronte alla legge, uguaglianza delle opportunità, diritto alla ricerca della felicità e libertà sono le idee che hanno fondato e legittimato le democrazie occidentali a partire almeno dalle rivoluzioni settecentesche, con le loro incisive dichiarazioni dei diritti dell'uomo e del cittadino.




Queste promesse fondanti e legittimanti rappresentano però l'origine di problemi e tensioni che possono rivelarsi fatali per gli stessi assetti sociali ed istituzionali che hanno potentemente contribuito a creare.
Francois Furet ha scritto:

"Libertà ed eguaglianza sono promesse illimitate". "Quelle promesse astratte in realtà creano un divario insormontabile tra le aspettative dei popoli e quello che la società può offrire". "Si spiega così quell'aspetto certamente singolare della democrazia moderna nella storia universale, che consiste nell'infinita capacità di produrre giovani e adulti che detestano  il regime sociale e politico nel quale sono nati e odiano l'aria che respirano, pur vivendone e non conoscendone altre". "Ho in mente... la passione politica costitutiva della democrazia, quella fedeltà esasperata ai principi che nella società moderna rende un po' tutti nemici del borghese, compreso lo stesso borghese" (Il passato di un' illusione, 1997, p. 23 e seg.).

Queste parole dell'insigne storico francese risalgono agli albori della globalizzazione contemporanea, quando il divario di produttività tra l'Occidente avanzato ed i paesi cosiddetti emergenti era ancora ampio a favore dei paesi occidentali più sviluppati. Proprio l'elevata produttività in termini assoluti e relativi ha consentito il notevole miglioramento delle condizioni di vita di larghi settori della popolazione e l'avvicinamento tra promessa e realtà che contiene il malcontento.
Oggi elevati livelli  di produttività si raggiungono anche nei paesi ormai ex emergenti, nei quali inoltre costo del lavoro, pressione fiscale, relazioni industriali, tutela dell'ambiente e situazione politica rendono vantaggiosa la produzione manifatturiera, lì spesso trasferita dai paesi di più antica industrializzazione. Così diventa sempre più difficile garantire buone opportunità nelle democrazie occidentali. La distanza tra promessa e realtà si allarga. Non si può escludere la rivolta di chi non ha accesso a uno standard considerato irrinunciabile.
Che fare? E' urgente eliminare privilegi, rendite di posizione, chiusure corporative. Occorre ripristinare sufficienti produttività e competitività, esercitando nel contempo pressioni sulle nuove potenze affinché aprano le loro economie, oggi ancora sottratte alla concorrenza leale con dazi, regole ed intervento pubblico. Bisogna favorire lo sviluppo di una cultura compatibile con le esigenze della democrazia liberale e della crescita economica. Si deve educare alla libertà responsabile, insegnando ai giovani a vedere ed accettare la complessità, ad imparare dagli errori. E' necessario diffondere la consapevolezza che non esistono pasti gratis, che per ogni pasto consumato qualcuno paga il conto. Troppo? Troppo difficile? L'alternativa è un doloroso declino. 

mercoledì 6 febbraio 2013

Cina e crisi. La durevole diversità.



Da un articolo di Stephen S. Roach, professore all'Università di Yale ed ex presidente della Morgan Stanley Asia, su Il Sole 24 Ore del 29 gennaio 2013:

" La Cina ha smentito gli scettici ancora una volta. Nell'ultimo trimestre del 2012, infatti, la crescita economica del Paese si è attestata al 7,9%, registrando un’accelerazione di mezzo punto percentuale rispetto alla crescita del Pil, pari al 7,4%, nel trimestre precedente. Dopo dieci trimestri consecutivi di decelerazione, si tratta di un incremento degno di nota che segna il secondo atterraggio morbido dell'economia cinese in poco meno di quattro anni".
"Malgrado i discorsi sull’imminente spostamento dell'asse verso la domanda interna, la Cina continua a dipendere fortemente dalle esportazioni e dalla domanda esterna, fattori determinanti per la sua crescita economica".
"La Cina è riuscita a resistere ai duri shock esterni degli ultimi quattro anni grazie al risparmio (53% del Pil) e alle riserve valutarie (3.300 miliardi dollari), che hanno funto da cuscinetto".
"L'economia cinese appare più instabile, avendo registrato importanti rallentamenti nella crescita del Pil reale sia nel 2009 che nel 2012. Anche i suoi squilibri interni si sono aggravati, con la percentuale di investimenti del Pil che sfiora il 50% e i consumi privati inferiori al 35%".

La Cina, grazie al suo welfare produttivistico che, utilizzando strumenti semiprivati, "copre" e costa meno di quelli dell'Europa occidentale, può attingere a imponenti riserve valutarie e a una elevata quota di risparmio per realizzare investimenti. Sembra improbabile che i governanti cinesi rinuncino ai vantaggi competitivi che tale modello offre nella economia globalizzata per aderire a quello europeo. I tecnocrati che oggi reggono la potenza asiatica sono ben consapevoli dei problemi che affliggono le democrazie europee. Significativa questa intervista a Al Jazeera di Jin Liqun, presidente del fondo sovrano cinese:




Sono i difetti del welfare, secondo Jin Liqun, le cause della crisi europea. Le leggi sul lavoro sono obsolete, spingono alla pigrizia e all'indolenza invece che al duro lavoro. Il "welfare system" è buono per ogni società per ridurre il divario, per aiutare gli svantaggiati, ma una società del benessere non deve indurre la gente a non lavorare duramente. Questa Europa non attrae più a sufficienza investimenti stranieri.

Luca Vinciguerra su Il Sole 24 Ore del 31 gennaio 2013 ha scritto:

"Ma nel caso della Cina il sostegno fornito ai colossi di Stato, e la totale schermatura contro qualsiasi forma di concorrenza esterna, ha raggiunto livelli parossistici. Che si sono materializzati in una serie di privilegi altrove impensabili: benefici fiscali, credito illimitato, sussidi a pioggia, concessioni di terreni a costo zero, accesso preferenziale alle commesse pubbliche".
"Risultato: la forbice tra i valori medi della produzione industriale delle aziende di Stato e del settore privato si è progressivamente allargata, passando da sei volte del 2004 a undici volte del 2010. "L'industria pubblica cinese ha raggiunto uno strapotere simile a quello detenuto dai kombinat in Unione Sovietica – avverte un bancario occidentale - Con la differenza, però, che a quei tempi Mosca non competeva e non voleva competere con nessuno sia sul mercato interno che su quello internazionale, mentre i national champion cinesi puntano a conquistare il mercato globale".

Proprio nel settore delle aziende di stato il regime cinese probabilmente concentrerà gli sforzi per incrementare la produttività e razionalizzare un assetto socioeconomico che non può e non vuole davvero stravolgere. I dirigenti cinesi non imboccheranno con decisione la via dell'aumento della domanda di beni di consumo e continueranno ad indurre un elevato risparmio privato con uno stato sociale "corto", che responsabilizza individui e famiglie. Chi in Occidente punta su una Cina che abbandoni le sue peculiarità per tentare di conseguire lo standard democratico-sociale europeo confonde i propri desideri con la realtà.

martedì 29 gennaio 2013

Nord Africa e Medio Oriente. La prospettiva propagandistica.




In una lucida analisi del rapporto tra sicurezza europea e destino dell'unione politica europea Angelo Panebianco, sul Corriere della Sera del 28 gennaio 2013, ha riassunto le preoccupazioni per la situazione delle aree di espansione dell'islamismo radicale:

"Dodici anni dopo l'attacco dell'11 Settembre, appare chiaro che il mondo occidentale sta perdendo la battaglia per contenere la diffusione dell'islamismo radicale. Né la strategia di Bush né quella di Obama, pur diversissime, hanno dato i frutti sperati. In Afghanistan e in Pakistan la minaccia non è stata affatto debellata. Per parte loro, le rivoluzioni arabe, che tante speranze avevano suscitato, hanno accresciuto il pericolo.
Nel più importante Paese arabo, l'Egitto, l'opposizione si scontra ormai quasi quotidianamente nelle piazze con il governo islamista, democraticamente eletto ma già nel mirino di Amnesty International per le continue violazione dei diritti umani. Nel frattempo, i salafiti dilagano nell'Africa subsahariana (aiutati anche dalla dabbenaggine esibita da noi occidentali nella vicenda libica). Cercano di creare nuovi Afghanistan in grado di minacciare chiunque, europei inclusi, ostacoli il loro disegno espansionista".

A tali preoccupazioni si accompagnano spesso critiche rivolte ai governi occidentali che quelle rivoluzioni hanno appoggiato e forse fomentato. Perchè togliere l'appoggio a regimi dispotici ma amici dell'Occidente per dare aiuto ai compositi movimenti rivoluzionari? Non erano forse già allora chiari i rischi?
Bisogna prendere in considerazione l'alternativa. Continuare a puntellare i regimi corrotti e autoritari del Nord Africa e del Vicino Oriente si sarebbe rivelato dannoso anche sul piano politico-propagandistico. La memoria storica dei musulmani e degli arabi in particolare raggiunge livelli di intensità e sensibilità ormai non ravvisabili in Occidente, come ha ben sottolineato Bernard Lewis:  "I popoli musulmani, come tutti i popoli del mondo, sono stati plasmati dalla loro storia, ma a differenza di altri ne sono fortemente consapevoli" (La crisi dell' Islam, 2004, pag. 5) .
Le vicende passate forniscono chiare indicazioni sui danni a lungo termine prodotti da atteggiamenti impresentabili in ambito politico-propagandistico. Basti pensare al colpo di stato contro Mossadeq in Iran. Nel 1951 "l'autorità dello scià subì un duro colpo...quando, cedendo alle pressioni dell'opinione pubblica, nominò alla carica di primo ministro un eccentrico nazionalista, il dottor Muhammad Mossadeq. Questi, per prima cosa, nazionalizzò l'industria petrolifera, sfidando il governo britannico che possedeva il 50 per cento della Iranian Oil Company".
"La Gran Bretagna e ancor più gli Stati Uniti esagerarono sulla vulnerabilità di Mossadeq all'influenza dei comunisti". Nel 1953 "la CIA e il SIS organizzarono congiuntamente un colpo di Stato che rovesciò Mossadeq e restaurò l'autorità dello scià". "Il breve successo del colpo di Stato, tuttavia, fu abbondantemente offuscato dal danno a lungo termine subito dalla politica americana e britannica in Iran. Fu semplicissimo, per il KGB, alimentare tra gli iraniani la convinzione già ampiamente diffusa secondo cui la CIA e il SIS continuavano a manovrare oscuramente dietro le quinte. Persino lo scià giunse a sospettare, in alcuni casi, che la CIA stesse cospirando contro di lui" (Christopher ANDREW e Vasilij MITROKHIN, Una storia globale della guerra fredda, 2005, p.183 e seg.).

Il sostegno offerto alle rivoluzioni arabe, pur criticabile sotto altri profili, pone innegabilmente l'Occidente in una posizione meno difficile sotto quello propagandistico, di fronte alla stretta illiberale operata dai movimenti islamici radicali. Chi ha già difeso libertà e democrazia può oggi con qualche coerenza opporsi a chi intende soffocare ogni genuina aspirazione ad esse.

mercoledì 23 gennaio 2013

Gli USA di Obama evitano il baratro ma non il declino.





Gianni Riotta su La Stampa del 22 gennaio 2013 ha così delineato le prospettive della seconda presidenza Obama:

"Il brusco passaggio dall’utopia alla realtà è la cifra del secondo mandato di Obama".
"Non si può più - Obama lo sa, ma non ha fatto nulla, perfino stracciando le proposte di una commissione bipartisan convocata sul tema - spendere come se le tasse Usa fossero altissime e tassare come se la spesa Usa fosse ridottissima. Alta spesa e basse tasse sono, da G. W. Bush soprattutto, somma rovinosa. Con un numero record di americani che vanno in pensione, figli del boom del dopoguerra, le tre voci di spesa, difesa, sanità e pensioni, vanno tagliate. Gli economisti più intelligenti, come Rogoff, propongono di «tagliare la spesa attraverso l’innovazione», riformando cioè esercito, ospedali, sussidi agli anziani e scuole con le tecnologie, per fornire servizi a spesa ridotta. Ma nessuno ha il coraggio di dirlo agli elettori".

"Nessuno ha il coraggio di dirlo agli elettori". Sono le aspettative degli elettori, da sempre e sempre più nelle democrazie occidentali, ciò che fa la differenza.

Sul Corriere della Sera del 23 gennaio 2013 Giovanni Sartori ha scritto:

" Un libro molto letto, oggi, nelle università americane, è Prozac Leadership di David Collinson: un titolo che dice tutto, e cioè che il crac è figlio di una cultura che "premiando l’ottimismo ha indebolito la capacità di pensare criticamente, ha anestetizzato la sensibilità al pericolo"".

In America come in Europa è difficile dire agli elettori verità che non sono preparati a sentire e a capire. I problemi di competitività posti dalla globalizzazione e l' insostenibilità del nostro welfare appaiono spesso argomenti tabù. Eppure questi sono i temi decisivi e pressanti. Non a caso sono stati pubblicamente discussi nei paesi che meglio hanno retto l' urto della crisi. I politici tedeschi ne parlano, compresi da un elettorato che meno di altri si lascia suggestionare dagli imbonitori.
Alcuni recenti dati mettono a nudo le difficoltà strutturali dell' economia americana. Le grandi compagnie dell' hi-tech mostrano un' insolita caduta dei profitti:

"E' il poker dell'hi-tech a stelle e strisce: Google, Ibm, Apple e Microsoft. Ma questa volta la "mano" giocata degli utili tecnologici questa settimana non basterà a vincere la partita dei profitti a Wall Street: le aziende dell'alta tecnologia, abituate a sbancare con marce inesorabili dei bilanci e trainare l'intera stagione dei conti, questa volta usciranno sconfitte. Le performance, ammoniscono gli analisti, dovrebbero mostrare nell'insieme - cioe' una volta sommate 70 grandi società - un insolito calo dei profitti trimestrali" ( Marco Valsania - Il Sole 24 Ore).

Fondamentale importanza ha la bilancia commerciale. L' ormai abituale deficit aumenta, ma soprattutto tale aumento non è determinato dalle importazioni di petrolio nè dalle vicende del settore alimentare, bensì dall' andamento dei beni di consumo:

 "Brutta sorpresa per i mercati dagli Stati Uniti. A novembre il deficit commerciale Usa è cresciuto del 15,8%, a 48,73 miliardi di dollari, dai 42,06 miliardi di dollari di ottobre (dato rivisto al ribasso dai precedenti 42,24 miliardi). Gli analisti avevano previsto invece un ribasso a 41,2 miliardi, sulla scia del calo dei prezzi del petrolio.
Il risultato è dovuto principalmente all'aumento delle importazioni di beni non petroliferi, che hanno toccato livelli record. Se dal conteggio si esclude l'oro nero, il dato ha raggiunto i massimi degli ultimi cinque anni. Lo ha reso noto il dipartimento del Commercio americano.
In generale le importazioni sono aumentate del 3,8%, a 231,28 miliardi, con rialzi soprattutto per i beni di consumo. In particolare, gli acquisti di cellulari sono saliti del 27% e i prodotti farmaceutici quasi del 20%. L'import di greggio è sceso a 23,68 miliardi di dollari, dai 25,9 miliardi di ottobre. Il prezzo medio del barile è calato di 2,3 dollari, a 97,45 dollari" (FIRSTonline).

Quando il consumatore può spendere continua ad acquistare beni di produzione straniera, più competitivi rispetto a quelli prodotti negli Stati Uniti. Senza una manifattura ad alto valore aggiunto davvero competitiva gli USA  come l' Europa non possono risolvere i propri problemi, non riescono a creare nuova occupazione di buona qualità e a ottenere redditi più alti per ampi settori della popolazione.
E' sempre più evidente che il lassismo monetario e di bilancio praticato dall' Amministrazione Obama non è in grado di fronteggiare adeguatamente questi problemi strutturali, risultando controproducente. Un severo monito per chi in Italia vorrebbe allentare la disciplina fiscale e monetaria senza un efficace taglio della spesa pubblica corrente.

mercoledì 16 gennaio 2013

La spesa pubblica italiana.


Massimo Fracaro e Nicola Saldutti sul Corriere della Sera del 16 gennaio 2013 sottolineano un principio che dovrebbe apparire a tutti ovvio: 

" Un malvezzo antico, quello dei politici, di parlare delle tasse come piovessero dal cielo. Quasi fossero una specie di epidemia tollerata, ma non voluta.
E così tutti si stanno dichiarando pronti a tagliarle. Meno Imu, meno Irpef, meno Irap, niente aumenti Iva. Facendo finta di dimenticare un piccolo dettaglio, le tasse rappresentano le entrate dello Stato. Quindi c'è una sola strada per ridurle: ridurre la spesa pubblica. Non esistono altre scorciatoie sicure".

Per ridurre le tasse dunque bisogna tagliare la spesa pubblica. Ma nel dibattito pubblico parlare di tagli non basta. Occorre anche rendere l'opinione pubblica consapevole degli elementi costitutivi della spesa pubblica italiana, dell'impossibilità di diminuire adeguatamente la pressione fiscale incidendo soltanto sui settori minori di essa, non toccando quelli più onerosi finanziariamente e delicati sotto il profilo del consenso elettorale.
I dati seguenti si riferiscono al 2010 ma corrispondono ancora alla struttura della spesa pubblica italiana. I comparti più ampi sono costituiti da welfare, sanità ed istruzione. Il servizio del debito pubblico non ha una portata decisiva mentre le spese per gli organi esecutivi e legislativi appaiono percentualmente di modesta importanza.

Spesa pubblica 2010, in percentuale del PIL, classificazione COFOG


Fonte: elaborazioni Dipartimento di Ingegneria Gestionale, Politecnico di Milano, per Civicum , su dati EUROSTAT; data di estrazione 07.01.2013

http://www.corriere.it/Primo_Piano/Economia/2013/01/12/pop_spesa-pubblica-2010.shtml



Spesa pubblica procapite - Italia (2010)

Fonte: elaborazioni Dipartimento di Ingegneria Gestionale, Politecnico di Milano, per Civicum , su dati EUROSTAT; data di estrazione 07.01.2013
http://www.corriere.it/Primo_Piano/Economia/2013/01/12/pop_spesa-pubblica-procapite-2010.shtml



Entrate pubbliche - Italia (2010)


Fonte: elaborazioni Dipartimento di Ingegneria Gestionale, Politecnico di Milano, per Civicum, su dati Conto Economico delle AP

http://www.corriere.it/Primo_Piano/Economia/2013/01/12/pop_entrate-pubbliche-2010.shtml


Roberto Perotti su Il Sole 24 Ore del 10 gennaio 2013 ha scritto:

"Tutti vogliono ridurre le tasse, almeno sui ceti medi e bassi. Ci sono parecchi modi per farlo".
"Il secondo metodo è aumentare le tasse sui ricchi. Purtroppo i conti non tornano: qualsiasi ragionevole definizione di "ricco" si adotti, e qualsiasi aumento ragionevole di aliquota si ipotizzi, il ricavato non sarà sufficiente per ridurre significativamente e in modo duraturo le tasse sui ceti medio e basso. Il terzo metodo è combattere l'evasione. Ma anche qui purtroppo i conti non tornano: la lotta all'evasione, se funziona, porta risultati tangibili solo dopo molto tempo, per via del contenzioso infinito che genera.
Il quarto metodo è ridurre la spesa pubblica. Per ridurre la pressione fiscale di cinque punti percentuali del Pil in cinque anni, e assumendo una crescita reale dell'1% annuo, bisogna ridurre la spesa di circa 70 miliardi ai prezzi attuali".

"Sgombriamo il campo da un equivoco. Vendere immobili e partecipazioni pubbliche va fatto, ma non è una soluzione al problema delle tasse. Se lo stato vende la propria partecipazione in Enel, e usa il ricavato per ridurre il debito lordo, la spesa pubblica primaria e le tasse sui cittadini non cambiano: a minori spese per interessi corrispondono minori introiti da dividendi e tasse sui profitti Enel. Se invece usa il ricavato della dismissione per ridurre una tantum le tasse sui cittadini, qualche altra tassa dovrà aumentare permanentemente per compensare la riduzione degli introiti da dividendi e da tasse sui profitti Enel".

Dal lato della spesa non si può non porre mano alla ristrutturazione di settori delicatissimi. Bisogna che welfare, sanità ed istruzione pesino meno e funzionino meglio. Disciplina pubblica e ricorso a strumenti privati devono caratterizzare uno stato sociale che fornisca servizi gratuiti soltanto agli indigenti. 
Mentre dal lato delle entrate occorre rivolgersi agli elettori con grande chiarezza: patrimoniali comunque modulate, alienazione dell'attivo pubblico, lotta all'evasione ed accentuazione della progressività del sistema fiscale non risolveranno il problema del suo peso insostenibile per una economia chiamata a fronteggiare i pressanti problemi posti dalla globalizzazione.
Solo uno stato più snello, leggero e circoscritto può pesare meno sulle imprese, sui lavoratori e sui consumatori, ritornando a  garantire i presupposti di uno sviluppo durevole ed equilibrato.

giovedì 10 gennaio 2013

Italia. La palude tra ricchezza privata e debito pubblico.


http://www.corriere.it/Primo_Piano/Economia/Corriereconomia/2012/10/16/pop_confronto-sorprendente.shtml


Secondo uno dei mantra più ripetuti nel dibattito pubblico italiano la situazione socio-economica del paese non deve destare grande preoccupazione perchè a fronte di un imponente debito pubblico esiste una notevolissima ricchezza privata.

"Il debito pubblico di tedeschi e americani è uguale al nostro. Impossibile? Eppure è vero. Basta metterlo in rapporto con la ricchezza delle famiglie al netto delle passività: Stati Uniti (23,3%), Italia (22,3%) e Germania (22,2%) sono praticamente allo stesso livello (vedi grafico). E questo accade perché, nonostante i guai, la stanchezza, la non crescita le famiglie italiane sono ancora tra le più ricche del mondo" (Giuditta Marvelli sul Corriere della Sera del 16 ottobre 2012).

Non si dimentichi però che la ricchezza privata diventa risorsa pubblica solo se acquisita all'erario con l'imposizione fiscale, in Italia già altissima. E che il risparmio contribuisce ad allargare la base imponibile, in una economia sana, attraverso l'investimento privato, reso conveniente da una cornice normativa e una struttura produttiva adeguate.

Ricchezza privata e debito pubblico sono nel contempo divisi e connessi dalla palude di norme, consuetudini, vizi, ritardi e inefficienza che contraddistingue la via italiana alla modernità. Il ricorso a narrazioni suggestive e consolatorie non giova al paese, che ha invece bisogno di coraggiose e lungimiranti riforme strutturali, dirette a consentire un efficace e determinante contributo del riparmio privato, espressamente tutelato dalla Costituzione  (art. 47), alla crescita economica e al progresso civile.





mercoledì 2 gennaio 2013

Capitalismo clientelare, crony capitalism.






Il capitalismo e il libero mercato piacciono meno, anche dove più erano visti favorevolmente dall'opinione pubblica. "Il sostegno popolare era fondato sul fatto che i benefici di questo sistema erano diffusi all'interno della società americana e sulla convinzione che il sistema fosse sostanzialmente equo. Purtroppo... questi due punti di forza hanno cominciato ad affievolirsi. La riduzione del tasso di crescita economica e della mobilità sociale hanno minato l'immagine del libero mercato come grande motore di benessere per tutti" (Luigi ZINGALES, Manifesto capitalista, 2012, pp. 24 e 25).
Una delle maggiori cause di questo crollo di consenso ed ancor prima di efficienza è la trasformazione dello stesso sistema, che sempre più ha assunto i tratti del cosiddetto capitalismo clientelare o crony capitalism. In questo il successo negli affari dipende dalle relazioni tra operatori economici e funzionari pubblici. La parte del PIL controllata dai governi è sempre maggiore. Sono ormai sussidi, incentivi, appalti, autorizzazioni e licenze, assegnati  spesso discrezionalmente dalle agenzie pubbliche, a determinare la fortuna e la semplice sopravvivenza di imprese e manager.
Le relazioni personali, le conoscenze, prevalgono sulla conoscenza, sul merito, sulle capacità personali. La mobilità sociale è frenata, l'allocazione delle risorse è distorta, la crescita economica risulta ridotta o bloccata e comunque incapace di distribuire i suoi benefici effetti in un modo considerato equo dai più.
Per uno dei tanti paradossi che segnano la storia l'insostenibilità e l'inefficienza di questa forma perversa di capitalismo sono state rese evidenti soprattutto dalla globalizzazione. Proprio dalle nuove potenze economiche, dove il capitalismo clientelare connota pesantemente uno sviluppo impetuoso caratterizzato da colossali esternalità negative, è praticata una concorrenza idonea a stressare in profondità le economie dei paesi dalla più antica e avanzata capacità produttiva.
Queste nuove potenze economiche conoscono una crescita imponente nonostante il capitalismo clientelare, non grazie ad esso. Sono finora prevalsi fattori politici, sociali e culturali capaci di compensare tali tratti del modello di sviluppo. Il ruolo delle nuove potenze è decisivo. Le economie delle democrazie occidentali sono schiacciate tra il martello da esse costituito e l'incudine rappresentata da uno stato sociale insostenibile e da un "welfare delle imprese" che anziché promuovere frena la crescita.
Occorre una nuova consapevolezza che conduca ad una graduale ma efficace riforma dei sistemi occidentali. Uno stato sociale più snello diretto a sostenere i più deboli e una cornice normativa che riduca l'intervento pubblico discrezionale in economia, valorizzando regole caratterizzate il più possibile da generalità e semplicità ed abbattendo sussidi ed incentivi, possono consentire di ridurre la pressione fiscale e ritrovare il dinamismo perduto.


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