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venerdì 26 settembre 2014

L'India di Modi. Make in India.




AsiaNews.it del 25 settembre 2014 dà conto della nuova campagna "Make in India" promossa da Modi:

"Alla vigilia del suo viaggio negli Stati Uniti, questa mattina il Primo ministro indiano Narendra Modi ha lanciato la campagna Make in India. Obiettivo dell'iniziativa è trasformare l'India in un centro industriale a livello mondiale".

"Dopo gli accordi miliardari che è riuscito a concludere con il premier nipponico Shinzo Abe e con il presidente cinese Xi Jinping, Narendra Modi prosegue la sua marcia per attrarre quanti più capitali possibili in India".

"La campagna ha lo scopo di trasformare l'economia indiana da un modello di crescita orientata al servizio a uno orientato alla produzione ad alta intensità. Questo contribuirà a creare posti di lavoro per oltre 10 milioni di persone. L'obiettivo è anche quello di attrarre le imprese straniere perché costruiscano le loro fabbriche in India e investano nelle infrastrutture del Paese".

L'India è già un gigante non solo per territorio e popolazione, ma anche sotto il profilo economico. Il settore dei servizi ICT, la siderurgia e l'industria automobilistica sono protagonisti nella nuova economia globale. Resta da sviluppare una manifattura ad alta intensità di manodopera, capace di soddisfare il bisogno di lavoro e di reddito. Modi ha presentato con efficacia agli investitori le opportunità che il suo paese offre. Per rispondere alle loro richieste è stato creato anche un portale web, ma non sarà facile passare dalle parole ai fatti.
L'Economist ha riassunto le difficoltà che gli imprenditori incontrano oggi in India. I diversi livelli di governo, la burocrazia, il capitale umano inidoneo, le infrastrutture inadeguate, le norme che costringono impresa e mercato ostacolano lo sviluppo auspicato. Ma il cambio di passo sembra reale. L'India lancia ormai una sfida produttiva anche all'Europa manifatturiera. Un motivo in più per concentrare il dibattito pubblico sul tema della competizione economica globale.

venerdì 19 settembre 2014

L' Occidente e Putin. Non ammirarlo, non temerlo.



Su La nuova Bussola Quotidiana del 19 settembre 2014 Stefano Magni ha intervistato Luigi Geninazzi, inviato de Il Sabato e di Avvenire nell’Europa dell’Est, sul consenso che ormai Putin ha conseguito anche tra i cattolici italiani. Ormai molti moderati e conservatori, non solo cattolici, approvano l'operato del presidente russo e sono attratti dall'immagine forte che di sè ha saputo diffondere. Così Geninazzi:

"Per quanto riguarda la destra occidentale e mi riferisco soprattutto alla destra italiana, anche moderata, si è diffusa un’ampia simpatia per Putin. Per due motivi. Primo: non si conoscono i fatti e si dà ascolto solo alla propaganda russa, crede alla tesi che Usa e Ue abbiano voluto “strappare” l’Ucraina al suo ambito naturale. Ma perché si vuole credere a questa assurdità? E qui entra in gioco il secondo fattore: l’Occidente odia se stesso. E purtroppo ce ne sono di motivi: Obama è un presidente riluttante che non sa che pesci pigliare, l’Ue sta annegando in una crisi economica da cui sembra non uscire più, a Bruxelles ci sono 28 Paesi che girano a vuoto. Non è un bello spettacolo. Abbiamo sviluppato un tale rigetto per le nostre classi dirigenti che, quando appare un uomo forte, che esprime l’idea chiara “qui comanda lo Stato!”, quando quest’uomo con metodi duri difende i valori tradizionali, difende la famiglia naturale, dice di voler difendere i cristiani in Medio Oriente, a molti appare come l’ideale dello statista. E non si accorgono che, questa retorica, fa parte del cinico gioco di Putin. Al presidente russo interessa solo l’affermazione dell’identità russa".

"... l’essenza del messaggio di Putin è l’opposto di quello di San Giovanni Paolo II. Il suo messaggio, lanciato ai russi, agli ucraini, ai georgiani, a tutti gli europei, è uno solo: “abbiate paura”. E io sono sconcertato che i cattolici non lo capiscano. Putin è l’essenza dell’anti-cristianesimo. La sua è una logica identitaria, nazionalista, autoritaria, che non ha nulla a che vedere con la tradizione evangelica: abbiate paura".

Alla propaganda russa corrisponde una speculare propaganda promossa da ambienti occidentali che per varie ragioni considerano vantaggiosi l'indebolimento e la destabilizzazione della Russia di Putin. Nelle parole di Geninazzi si percepisce appunto l'eco di tale propaganda, che giunge da un Occidente idealista o più spesso cinico e irresponsabile.
In realtà Putin, ex ufficiale del KGB di stanza nella Germania Orientale, conosce bene l'Occidente e il proprio paese.  E' un politico duro e pragmatico. Sa che il solo collante efficace della Russia sorta dalle ceneri della vecchia Unione Sovietica è il nazionalismo e non può fare a meno dell'appoggio della Chiesa Ortodossa.
In questo contesto il leader russo ha cercato in ogni modo di creare e conservare di sé l'immagine di statista forte, decisionista, determinato a difendere gli interessi della Russia e dei russi anche fuori dei suoi confini, pur nella consapevolezza che il suo paese non può e non deve porre in discussione l'entrata nella NATO e nell'Unione Europea che molti paesi ex componenti o satelliti dell'Unione Sovietica hanno già portata a compimento.
Con questa Russia l'Occidente deve coltivare buone relazioni economiche e trovare un'intesa strategica fondata sui comuni interessi vitali. La sfida cinese e la minaccia islamica fondamentalista spingono alla composizione degli attuali contrasti. Bisogna che i governanti europei e la leadership USA comprendano che far "perdere la faccia" a Putin significa destabilizzare una compagine russa pervasa da sentimenti nazionalisti oggi insostituibili come fattore adesivo. La potenza regionale russa non può venir meno senza aprire un vuoto strategico devastante, gravemente lesivo degli stessi interessi occidentali. Dunque a Mosca come nelle capitali occidentali moderazione, responsabilità e lungimiranza devono prevalere.

venerdì 12 settembre 2014

Crisi. Una risposta liberale.




Su Il Foglio dell'11 settembre 2014 Alberto Mingardi e Natale D'Amico hanno scritto:

"Per fare spesa in deficit, uno stato deve trovare chi compri i suoi bond. E gli investitori, prima o poi, si pongono la domanda drammatica: lo stato che sto finanziando sarà in grado di onorare i suoi debiti? Nel 2011 non è stato il fantasma di Hayek a imporre all'Italia l'aggiustamento di finanza pubblica. Sono stati piuttosto i nostri creditori, che hanno preteso un tasso d'interesse velocemente crescente (l'estate dello spread) per continuare a finanziare la nostra spesa pubblica. Neanche i pasti keynesiani sono gratis". 

"...all'interno di un'area monetaria unica il funzionamento dei meccanismi di aggiustamento è simile a quello presente in un sistema di gold standard. Se un paese "perde competitività", perde moneta; o riporta la crescita della propria produttività verso quella dei paesi concorrenti, ovvero è costretto ad abbassare i propri costi, a partire dai salari".

"Non stupisce che anche personalità lontanissime dal "liberismo austriaco", e fra loro il pragmatico Mario Draghi, auspichino "riforme strutturali": riforme microeconomiche, dal lato dell'offerta, volte a perseguire una migliore allocazione dei fattori produttivi, pena una dolorosa compressione dei salari reali".

"Ma non serve che un po' di realismo per convincersi che non ne verremo fuori se non cambiando il nostro welfare, facendo funzionare la giustizia, la scuola, etc. Nostra opinione è che questi cambiamenti non ci saranno, o comunque non saranno efficaci, se non ridurremo il ruolo dello stato. Ma questa è per l'appunto la nostra visione ideologica, temiamo nient'affatto maggioritaria".

Seppure minoritaria, si delinea in Italia una risposta liberale alla crisi. E' ispirata dalla consapevolezza della globalizzazione, dei suoi effetti, della necessità di riforme microeconomiche dal lato dell'offerta, dell'urgenza di dare al welfare e agli enti territoriali un assetto produttivistico imperniato sulla disciplina pubblica di strumenti privati.
Non deve sorprendere la refrattarietà di larghi settori dell'imprenditoria confindustriale a questa visione. Una parte significativa di tale imprenditoria è cresciuta grazie a relazioni clientelari, chiedendo allo stato di compensare con svalutazioni e spesa pubblica le insufficienti capitalizzazione e produttività. Questo è il contesto che spiega il mancato sostegno alla cultura liberale, l'inclinazione al compromesso con movimenti e partiti illiberali, l'accettazione di relazioni industriali inidonee a sciogliere i nodi della produttività e della competitività.
Il sistema non ha bisogno delle ormai mitiche iniezioni di liquidità, ma di più verità, di più coraggio nel fronteggiare una crisi innescata dalla globalizzazione e dalla rivoluzione tecnologico-digitale. Dalla tradizione liberale le risorse per spiegare e cambiare.

venerdì 5 settembre 2014

Propaganda e realtà. Un approccio critico.



Consiglio NATO - Russia 28 maggio 2002


Da sempre la propaganda è utilizzata per convincere e vincere. L'informazione non è mai neutrale, non può essere tale. E' inevitabile scegliere immagini, parole, concetti, numeri, guidati da visioni e aspettative. Ma la propaganda è qualcosa di molto diverso. E' uno strumento che può contribuire a cambiare il corso della storia, soprattutto dopo che in questa hanno fatto irruzione le masse con un ruolo da protagoniste.
Tre esempi, due dal secolo da poco terminato, uno molto recente, mostrando la sorprendente distanza che può esistere tra narrazione e realtà, fanno davvero riflettere. Un approccio critico non deve mai mancare.

Il maccartismo

Il termine, dal nome del senatore del Wisconsin Joseph McCarthy, viene usato per indicare la crociata anticomunista che segnò gli USA dagli ultimi anni Quaranta alla metà degli anni Cinquanta. Accompagnata da inchieste spettacolarizzate e capillari indagini nella pubblica amministrazione, tra gli intellettuali e nell'ambiente del cinema, fu presentata come una vana caccia alle streghe, spesso nell'intento di screditare le istituzioni statunitensi. 
Il professor Christopher Andrew, ex preside della facoltà di storia presso l'Università di Cambridge, è da molti considerato il massimo studioso del ruolo dei servizi segreti nel Novecento. In L'Archivio Mitrokhin (1999, pp. 152 e 153), scritto con l'ex agente del KGB Vasilij Mitrokhin, ha sottolineato il successo dell'intelligence sovietica negli  USA con queste parole:

"La maggior parte degli altri agenti di prima della guerra, in ogni caso, fu con successo rimessa in attività; tra questi Lawrence Duggan (FRANK) e Harry Dexter White (JURIST). Henry Wallace, vicepresidente durante il terzo mandato di Roosevelt (dal 1941 al 1945), affermò in seguito che, se Roosevelt fosse morto in quel periodo ed egli fosse diventato presidente, sarebbe stata sua intenzione nominare Duggan suo segretario di Stato e White suo segretario del Tesoro. Il fatto che Roosevelt sopravvisse tre mesi in un quarto mandato senza precedenti alla Casa Bianca, e che sostituì Wallace con Harry Truman come vicepresidente nel 1945, privò il sistema informativo sovietico di quello che sarebbe stato il suo successo più spettacolare: l'infiltrazione in un grande governo occidentale. L'NKVD riuscì in ogni caso a infiltrarsi in tutte le sezioni importanti dell'amministrazione Roosevelt".

"Vi era un abisso enorme tra le informazioni sugli Stati Uniti fornite a Stalin e quelle a disposizione di Roosevelt sull'Unione Sovietica. Laddove il Centro si era infiltrato in ogni ramo importante dell'amministrazione di Roosevelt, l'OSS, così come il SIS, non aveva un solo agente a Mosca. Alla conferenza di Teheran dei Tre Grandi, nel novembre del 1943, la prima volta che Stalin e Roosevelt si incontrarono, una informazione di gran lunga superiore diede a Stalin un considerevole vantaggio nella negoziazione".

Andrew descrive un quadro di straordinaria gravità: soltanto per poco gli agenti di Stalin non arrivarono a ricoprire gli incarichi chiave di ministri degli Esteri e del Tesoro degli Stati Uniti. Dunque il maccartismo?


La Chiesa cattolica, il nazismo e gli ebrei.

Dopo la Seconda guerra mondiale si sviluppò una accesa polemica sul ruolo svolto dalla  Chiesa cattolica e dalla Santa Sede durante l'ascesa del nazismo in Germania e la persecuzione degli ebrei. Prevalsero lungamente le tesi della inazione, della tolleranza, della connivenza. 
Ma la posizione della Chiesa era ben chiara ai contemporanei. Enrico Caviglia, uno dei più brillanti generali del Ventesimo secolo, senatore del Regno, ex ministro della Guerra, insignito del Collare dell'Annunziata, cavaliere dell'Impero britannico, maresciallo d'Italia, colto e lucido osservatore, scrisse nel suo diario (I dittatori, le guerre e il piccolo re - Diario 1925-1945, 2009, pp. 226 e 227):

10 febbraio 1939

"E' morto il Santo Padre Pio XI...In generale la morte del Pontefice è sentita. Il suo atteggiamento in favore degli ebrei ha fatto un'ottima impressione in tutto il mondo, e l'autorità morale della Santa Sede ha acquistato influenza anche presso le altre religioni.
Oggi il Re è andato verso le 19 a visitare la salma. Mussolini non è andato: forse non ha voluto dare un dispiacere a Hitler".

2 marzo 1939

"In questi ultimi tempi l'autorità della Chiesa è accresciuta in tutto il mondo per aver difeso a viso aperto gli ebrei e la religione. Impressione enorme ha fatto il vecchio Papa, quasi morente, che dà per radio un messaggio a tutto il mondo in difesa degli ebrei. Pacelli fu il suo segretario e consigliere".

Testimonianza data in tempi e modi non sospetti. Quale peso darle?


La Russia di Putin e l' Occidente.





1999: Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca entrano nella NATO.

2000: "via libera" politico all' entrata nella NATO di Bulgaria, Romania, Estonia, Lettonia e Lituania (entreranno nel 2004).

2002 (14 maggio): i 19 ministri degli Esteri della NATO decidono di creare un "Consiglio a 20" con la Russia (nascerà a Pratica di Mare il 28 maggio) .

 2002 (23 maggio):  il Consiglio di sicurezza nazionale dell'Ucraina incarica il  governo di avviare negoziati con la NATO per intensificare la cooperazione e giungere in una prospettiva di lungo termine all' entrata nell' organizzazione.

A Pratica di Mare il 28 maggio 2002 Putin accetta che i paesi baltici ex sovietici e gli stati europei ex satelliti dell' URSS siano diventati o diventino membri della NATO.

Come si è arrivati alla crisi ucraina? E' davvero plausibile una aggressione russa ai paesi NATO?

venerdì 29 agosto 2014

Debito pubblico, prezzi e competitività.




Su Il Sole 24 ORE del 22 agosto 2014 l'economista tedesco  Hans-Werner Sinn richiama alla realtà l'Italia dell'illusione:

"L'Italia vive una terza ricaduta recessiva ma non ci è arrivata da sola. È il fallimento dei politici italiani sul fronte della competitività ma è un fallimento generalizzato in Europa".

"Negli ultimi sette anni la contrazione complessiva del Pil è stata del 9 per cento. Inoltre, la produzione industriale è precipitata di un inquietante 24 per cento".

"Il nuovo premier Matteo Renzi dice di voler stimolare la crescita, ma in realtà intende solo accumulare altro debito. È vero, il debito stimola la domanda, ma è un tipo di domanda artificiale ed effimero. La crescita sostenibile potrà essere raggiunta solo se l'economia italiana ritrova la sua competitività e all'interno dell'eurozona c'è solo un modo per farlo: riducendo i prezzi rispetto ai concorrenti dell'eurozona. Ciò che l'Italia è riuscita a fare svalutando la lira deve essere ora emulato attraverso un vero e proprio deprezzamento".

"Ma se Renzi dedica molta energia verbale all'economia, finora non ha fatto capire di aver compreso la vera natura del problema italiano. E non è l'unico. Anzi, praticamente l'intera classe politica europea, da Bruxelles a Parigi e Berlino, pensa ancora che l'Europa soffra di una semplice crisi finanziaria e di fiducia. Non parla della perdita di competitività che sta alla base del problema perché parlarne solamente non basterebbe a risolverla".

E' assolutamente corretto sottolineare il ruolo della perdita di competitività. Questa è la vera causa della crisi dell'Eurozona e dell'Italia in particolare. Ma Sinn sbaglia a restringere la prospettiva alla sola Eurozona e pone in termini rozzi il problema dei prezzi.
Occorre infatti rilevare che la competizione avviene nell'economia globale, oltre i confini dell'Eurozona, che la svalutazione della moneta sarebbe insieme insufficiente e controproducente, che prezzi competitivi si raggiungono per vie diverse, più o meno virtuose.
L'adeguamento dei prezzi non può e non deve emulare la svalutazione. Questa infatti non solo non muta la qualità di beni e servizi, che contribuisce a determinarne la competitività, ma rende più costosi semilavorati, materie prime ed energia. La svalutazione inoltre colpisce il risparmio, necessario agli investimenti e alla previdenza privata, la cui importanza è destinata ad aumentare.
Diverse vie poi conducono a prezzi adeguati. Una di queste è la moderazione salariale. Ma la più raccomandabile è la diminuzione della pressione fiscale sui produttori, imprenditori e lavoratori. Questa influisce favorevolmente non solo sui prezzi, ma direttamente anche sugli investimenti stessi, indispensabili per tornare a crescere.

venerdì 22 agosto 2014

Crisi. Il foglietto di Angela Merkel.




Danilo Taino sul Corriere della Sera del 16 agosto 2014 pone in evidenza l'insostenibilità del welfare europeo e il ruolo frenante che esercita sull'economia dell'Eurozona:

"Da anni, Angela Merkel tiene in tasca un foglietto con tre statistiche che cita in continuazione. Le permettono di inquadrare la posizione dell’Europa nel mondo: il continente ha il 7% della popolazione, il 25% del Prodotto lordo, il 50% delle spese per Welfare State".

"Il dato di fatto è che quella del Vecchio Continente è oggi l’unica importante economia del pianeta (forse assieme a quella giapponese) a non crescere: immagine di un’area in perdita continua di peso di fronte alla potente e dinamica economia americana e a quelle emergenti".

"La situazione si può riassumere così: la popolazione europea tende ad avere un peso sempre minore rispetto a quella mondiale perché gli europei fanno decisamente pochi figli (Germania e Italia sono i casi più acuti); la stagnazione farà diminuire, dal 25% di oggi, anche la quota di Pil prodotto; e, chiaramente, la generosità inefficiente del Welfare State europeo (il 50% delle spese mondiali per il 7% della popolazione) non può essere sostenuta ed è un elemento che pesa sulla competitività (i Paesi emergenti tendono ad aumentare la spesa per la sicurezza sociale, ma non illudiamoci che lo facciano a scapito della loro capacità concorrenziale)".

Capitale umano (conoscenze matematiche e tecnico-scientifiche), pressione fiscale, investimenti diretti esteri, istituzioni economiche e spinta al miglioramento delle condizioni sono i principali fattori di crescita. L'ampio  welfare europeo  contribuisce in modo determinante a renderli inadeguati.  Si pensi agli effetti sulla spesa pubblica e sulla pressione fiscale, talmente alta da scoraggiare i possibili investitori. Si considerino inoltre le conseguenze sull'impegno individuale. Il generoso sostegno pubblico può indebolire lo stimolo al lavoro e al risparmio.
Così appesantita dallo stato sociale l'economia dell'Eurozona non può efficacemente competere con quelle emergenti. Occorre dunque rivoluzionare il welfare europeo, dando largo spazio a strumenti privati con una lungimirante disciplina pubblica.  Si tratta di una rivoluzione necessaria ma attualmente avversata dagli elettori. Solo una lucida  consapevolezza dei politici e degli intellettuali più influenti e un incisivo dibattito pubblico possono rendere possibile ciò che oggi pare improponibile.
Il foglietto di Merkel rivela la qualità dei governanti e della politica tedeschi. Purtroppo in Italia e Francia la situazione è molto diversa.

venerdì 15 agosto 2014

Competitività e riforme strutturali.




Su linkiesta.it Francesco Cancellato esamina gli ultimi sviluppi della crisi economica nell' Eurozona. Con efficace sintesi e lucidità conclude così:

"Sono cali di export e Pil, quelli della Germania e dell’Italia, ma anche quello della Francia, che si spiegano attraverso un calo diffuso della competitività dell’Eurozona verso l’esterno, che si riverberano su un mercato interno intra-europeo già di per sé asfittico, per motivi congiunturali e strutturali, struttura demografica in primis.
E quindi?
Quindi non sarà la frenata tedesca, insomma, a liberarci del problema del nostro debito pubblico. Al contrario, potrebbe ulteriormente acuirlo".

La lunga crisi economica affonda le proprie radici nella globalizzazione. La competizione globale ha ridotto la povertà ed accelerato lo sviluppo dei paesi cosiddetti emergenti, determinando nel contempo una profonda crisi delle società più avanzate, dove i fattori della crescita - capitale umano, pressione fiscale, istituzioni economiche, investimenti diretti esteri e spinta al miglioramento delle condizioni - si rivelano inadeguati.
Per tentare di ripristinare idonei fattori di crescita bisogna realizzare le ormai mitiche riforme strutturali, riconducibili ad un riassetto produttivistico della società e delle istituzioni. 
Non è facile accettare che ai disoccupati si dia un sostegno soggetto a dure condizioni, che si incrementi largamente la concorrenza nel settore delle professioni, che dai giovani si pretenda un impegno scolastico assai più intenso del presente, che per diminuire la pressione fiscale non solo si riducano gli sperperi, ma si ponga fine al welfare ampio e insostenibile ormai tradizionale. Eppure per tornare a crescere bisogna comprendere e cambiare davvero. Nessun coniglio bianco uscito dal cappello di un illusionista ci salverà.

venerdì 8 agosto 2014

La persecuzione dei cristiani.




In un editoriale sul Corriere della Sera del 28 luglio 2014  Ernesto Galli della Loggia denuncia l'indifferenza dell'Occidente alla tragica persecuzione  dei cristiani che dilaga ormai in vaste regioni, così delineandone le ragioni:

"Da tempo essere e dirsi cristiani non solo non è più intellettualmente apprezzato, ma in molti ambienti è quasi giudicato non più accettabile. Il Cristianesimo non è per nulla «elegante», e spesso comporta a danno di chi lo pratica una sorta di tacita ma sostanziale messa al bando. L’atmosfera culturale dominante nelle società occidentali giudica come qualcosa di primitivo, al massimo un «placebo» per spiriti deboli, come qualcosa intimamente predisposto all’intolleranza e alla violenza, la religione in genere. In special modo le religioni monoteistiche. In teoria tutte, ma poi, in pratica, nel discorso pubblico diffuso, quasi soltanto il Cristianesimo e massimamente il Cattolicesimo, ad esclusione cioè del Giudaismo e dell’Islam: il primo per ovvie ragioni storico-morali legate (ma ancora per quanto tempo?) alla Shoah, il secondo semplicemente per paura. Sì, bisogna dirlo: per paura".

Resta da esaminare la reazione prevalente tra gli esponenti della Chiesa cattolica, lodevole in quanto dettata dal desiderio di non fornire ulteriori pretesti ai persecutori, ma criticabile sotto il profilo concettuale.

Non condivisibile è la convinzione che esista una sorta di essenza della religione verso la quale tutte le religioni esistenti devono convergere. Questa idea di religione sarebbe logicamente necessaria e segnata dal rigetto della violenza in nome di Dio e dai principi della fratellanza universale e della dignità umana. Si tratta di una convinzione teologicamente sbagliata e non corrispondente allo sviluppo storico del fenomeno religioso.
Il Dio cristiano é onnipotente. Non può essere pensato prigioniero di una astratta idea di divinità e di religione. Egli decide ciò che è bene e ciò che è male. Il cristiano conosce la divinità e la volontà di Dio grazie alla Rivelazione che si compie nel Cristo risorto. E la volontà di questo Dio padre amorevole è che l'adultera non sia lapidata dai suoi fratelli sempre peccatori. In altre religioni l'adultera deve essere lapidata.

Le profonde differenze tra le principali religioni monoteiste sono  state efficacemente sottolineate da due dei massimi precursori del liberalismo contemporaneo.

 Nella Democrazia in America Tocqueville individuò la portata storico-civile, sociale  e culturale del Cristianesimo, mettendo in evidenza proprio il suo stretto rapporto con la libertà:

"....nel Corano non solo dottrine religiose, ma anche massime politiche, leggi civili e criminali e teorie scientifiche. Il Vangelo, invece, parla solo dei rapporti generali degli uomini con Dio e fra loro. Al di fuori di questo non insegna nulla e non obbliga a credere nulla. Questo soltanto, fra mille altre ragioni, basta a mostrare che la prima di quelle due religioni non può dominare a lungo in tempi di civiltà e di democrazia, mentre la seconda è destinata a regnare anche in quei secoli come in tutti gli altri"(op. cit., Libro Terzo, Parte Prima, Capitolo Quinto).

Già Montesquieu, che lo stesso Tocqueville riconosceva come maestro, scrisse nel libro ventiquattresimo, capitoli terzo e quarto dello Spirito delle leggi:

"Per quanto riguarda il carattere della religione cristiana e quello della religione musulmana, si deve senz'altro abbracciare l'una e respingere l'altra: perchè per noi è molto più evidente che una religione debba addolcire i costumi degli uomini, di quanto non sia evidente che una religione è la vera".

"E' una sciagura per la natura umana che la religione sia data da un conquistatore. La religione maomettana, la quale non parla che di spada, influisce ancora sugli uomini con quello spirito distruttore che l'ha fondata".

"La religione cristiana è lontana dal dispotismo puro: infatti, essendo la mitezza tanto raccomandata nel Vangelo, essa si oppone alla collera dispotica con cui il principe si farebbe giustizia e metterebbe in pratica le sue crudeltà".

"...dobbiamo al cristianesimo, nel governo un certo diritto politico, e nella guerra un certo diritto delle genti, di cui l'umanità non potrebbe mai essere abbastanza riconoscente."

Infondata è poi la convinzione che un cattolico debba in ogni circostanza  condannare e rifiutare la guerra. Il tradizionale magistero della Chiesa cattolica ammette la "guerra giusta". Tale magistero è stato così riassunto da Benedetto XVI:

"Certamente la difesa del diritto può e deve, in alcune circostanze, far ricorso a una forza commisurata. Un pacifismo assoluto, che neghi al diritto l’uso di qualunque mezzo coercitivo, si risolverebbe in una capitolazione davanti all’iniquità, ne sanzionerebbe la presa del potere e abbandonerebbe il mondo al diktat della violenza. Ma per evitare che la forza del diritto si trasformi essa stessa in iniquità, è necessario sottometterla a criteri rigorosi e riconoscibili come tali da parte di tutti" (Discorso del 4 giugno 2004, in occasione delle celebrazioni per il 60° anniversario dello sbarco alleato in Normandia).

Si veda anche una lettera di sant'Agostino al generale Bonifacio (417 circa):

"Non credere che non possa piacere a Dio nessuno il quale faccia il soldato tra le armi destinate alla guerra". 

"La pace deve essere nella volontà e la guerra solo una necessità, affinché Dio ci liberi dalla necessità e ci conservi nella pace! Infatti non si cerca la pace per provocare la guerra, ma si fa la guerra per ottenere la pace! Anche facendo la guerra sii dunque ispirato dalla pace in modo che, vincendo, tu possa condurre al bene della pace coloro che tu sconfiggi. Beati i pacificatori - dice il Signore - perché saranno chiamati figli di Dio." 

"Sia pertanto la necessità e non la volontà il motivo per togliere di mezzo il nemico che combatte. Allo stesso modo che si usa la violenza con chi si ribella e resiste, così deve usarsi misericordia con chi è ormai vinto o prigioniero, soprattutto se non c'è da temere, nei suoi riguardi, che turbi la pace".

Così ancora il Concilio Vaticano II:

"La guerra non è purtroppo estirpata dalla umana condizione. E fintantoché esisterà il pericolo della guerra e non ci sarà un'autorità internazionale competente, munita di forze efficaci, una volta esaurite tutte le possibilità di un pacifico accomodamento, non si potrà negare ai governi il diritto di una legittima difesa. I capi di Stato e coloro che condividono la responsabilità della cosa pubblica hanno dunque il dovere di tutelare la salvezza dei popoli che sono stati loro affidati, trattando con grave senso di responsabilità cose di così grande importanza. Ma una cosa è servirsi delle armi per difendere i giusti diritti dei popoli, ed altra cosa voler imporre il proprio dominio su altre nazioni. La potenza delle armi non rende legittimo ogni suo uso militare o politico. Né per il fatto che una guerra è ormai disgraziatamente scoppiata, diventa per questo lecita ogni cosa tra le parti in conflitto.
Coloro poi che al servizio della patria esercitano la loro professione nelle file dell'esercito, si considerino anch'essi come servitori della sicurezza e della libertà dei loro popoli; se rettamente adempiono il loro dovere, concorrono anch'essi veramente alla stabilità della pace" (Gaudium et Spes, 79).

venerdì 1 agosto 2014

Crisi. L'offerta e la domanda.




Su Il Sole 24 ORE del 31 luglio 2014 il professor Donato Masciandaro pone in evidenza la continuità di linea della Banca centrale USA. La politica monetaria espansiva continua. Ma la sua efficacia resta incerta e dipende dalla reale natura della crisi:

"...nella visione Yellen il beneficio atteso di mantenere un atteggiamento espansivo è quello di poter dare con la politica monetaria un contributo ad una stabile ripresa del mercato del lavoro. È una aspettativa robusta? Dipende da come si crede funzioni l'economia statunitense. Le colombe - a cui la Yellen appartiene - sono convinte che un ritorno alla piena occupazione dipenda da un sostegno continuo alla domanda aggregata, che può essere assicurato dal mantenimento di una politica monetaria espansiva. I falchi osservano al contrario che il ristagno del mercato del lavoro debba essere imputato a ragioni legate alla conformazione dell'offerta aggregata: i deficit di flessibilità, di competitività e di produttività non si sono mai curati attraverso espansioni monetarie".

Alcuni significativi parametri spingono ad attribuire ai deficit di flessibilità, di competitività e di produttività un ruolo determinante. Il permanente deficit della bilancia commerciale, il costante basso tasso di occupazione, la modesta qualità dei nuovi posti  di lavoro, creati prevalentemente nei settori del commercio al dettaglio, della ristorazione, della sanità e assistenza alle persone, indicano che i problemi più radicati e dolorosi sono nell'ambito dell'offerta.
L'Amministrazione USA con l'allentamento monetario e fiscale non ha risolto i problemi dell'economia reale. Questa linea di politica economica non cura i vizi profondi della società e dell'economia statunitensi, costituiti dall'indebolimento del capitale umano, dal fallimento delle principali agenzie educative, dal deterioramento delle istituzioni economiche, dalla prevalenza del capitalismo clientelare.
Non va inoltre sottovalutata la portata diseducativa di tale politica. I cittadini, soprattutto i giovani, sono indotti a pensare che lo sviluppo economico di un paese non dipenda dallo studio, dal lavoro e dal risparmio, dall'impegno e dalla lungimiranza degli imprenditori. Ma l'impegno strenuo di individui e famiglie e la dedizione degli imprenditori restano la sola vera risorsa per evitare il declino. Non siano i governanti, mossi dalla brama di facile consenso, a precluderne l'incremento e la piena operatività.

venerdì 25 luglio 2014

Italia. Cosa manca per farla ripartire?




Su Il Sole 24 ORE del 24 luglio 2014 Fabrizio Galimberti ha delineato le prospettive dell' economia italiana:

"... il livello più recente del cambio reale dell'euro si situa esattamente sulla media 1999-2014, cioè sul quindicennio di vita della moneta unica (lo stesso vale per il cambio reale dell'euro/Italia).
Il linguaggio crudo delle cifre non porta quindi molta acqua al mulino di quanti vedono nel cambio dell'euro un ostacolo alla competitività. E c'è da fare un'altra importante considerazione. Gli alti e bassi delle valute sono meno importanti di un tempo nel determinare la competitività dei prodotti di una nazione.
Le catene di offerta che si dipanano ormai lungo i continenti (un prodotto finito del Paese X ha dentro lavorazioni e semilavorati fatte e ricevuti dai Paesi W, Y, Z...) fanno ballare i vantaggi e gli svantaggi di deprezzamenti e apprezzamenti. Il vantaggio di un euro più debole viene pesantemente annacquato dallo svantaggio di maggiori costi per componenti e lavorazioni che vengono dall'estero".

"Perché, allora, il cambio dell'euro viene così spesso messo sotto accusa? Perché alcuni (e non sono pochi) auspicano addirittura un'uscita dell'Italia dall'unione monetaria? Si tratta di un tipico caso di deviazione delle frustrazioni. L'esasperazione (giustificata) di un'Italia stagnante viene dirottata verso facili bersagli".

Bene Galimberti sull' euro, ma si tratta di considerazioni riconducibili ad una importantissima ovvietà: una valuta viene utilizzata non solo per vendere ma anche per comprare. Sono invece tutto sommato fuorvianti le seguenti indicazioni:

"L'economia italiana non ha bisogno di un euro più debole, o, per meglio dire, un euro più debole non risolve i problemi della nostra economia. L'economia italiana ha bisogno di maggior domanda, ma questa affermazione, perché non sia lapalissiana, si dipana in due direzioni di marcia: riforme e flessibilità. Abbiamo bisogno di flessibilità negli obiettivi di bilancio, ma si tratta di una flessibilità che dobbiamo meritare con le riforme. Anche le riforme cosiddette istituzionali hanno molto più potere di stimolo all'economia di quanto si creda. La crescita è un fenomeno complesso, che ha alla base la voglia di crescere, la convinzione che un futuro migliore è possibile e a portata di mano. Portare la durata media di un processo civile dai 2900 giorni italiani ai 900 francesi o ai 750 spagnoli o ai 350 del Giappone stimolerebbe la nostra economia molto più di un deprezzamento del 20% dell'euro".

Qui Galimberti tocca solo marginalmente i grandi fattori della crescita economica, recentemente posti in luce dal professor Luca Ricolfi nel suo brillante L' enigma della crescita:

"...la qualità del capitale umano  - in particolare sotto forma di padronanza delle conoscenze di base in matematica e scienze - è la forza fondamentale che può sostenere la crescita dei paesi OCSE".

"La seconda forza fondamentale è il saldo degli "investimenti diretti esteri"".

"La terza forza è la qualità delle "istituzioni economiche"..., ossia il fatto di avere buone regole di funzionamento dell' economia".

"La quarta forza fondamentale sono le "tasse",... il cui ruolo è però negativo, di rallentamento della crescita" (Op. cit., 2014, p. 46 e seg.).

Per migliorare il capitale umano occorre tempo.  Risultati rapidi e cospicui si raggiungono in un solo modo: riducendo le tasse e, corrispondentemente, la spesa pubblica. Il taglio deve essere adeguato e strutturale: almeno il 10% PIL (centocinquanta miliardi di euro su ottocento di spesa pubblica). Eliminare lo sperpero di denaro pubblico non basta. Bisogna ristrutturare dalle fondamenta welfare e autonomie locali, applicando rigorosamente i principi di progressività della spesa pubblica e di sussidiarietà.
Non deve sorprendere che proprio sul quotidiano della Confindustria, nonostante i retorici proclami, si taccia larga parte della verità sulle necessità del paese. Troppi imprenditori italiani hanno fondato il proprio successo più sui vizi che sulle virtù di questo paese in drammatico declino.


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