Translate

venerdì 27 giugno 2014

La progressività della spesa pubblica.




Su Libero del 20 giugno 2014 Nicola Rossi ha così commentato la proposta di "flat tax", cioè di imposizione diretta con aliquota unica:

"...Di per sé è attuabile, bisogna sapere se deve essere realizzata a parità di gettito o meno. Realizzarla a parità di gettito significherebbe aliquote piuttosto elevate, perché per garantire la progressività bisogna organizzare un sistema di detrazioni che accompagni l'aliquota unica e ciò implica che l'aliquota sia alta».

Senza detrazioni sarebbe anche incostituzionale perché non progressiva, giusto? 

«Presterebbe obiezioni di costituzionalità, ma il punto fondamentale è che l'incremento della tassazione su ceti meno abbiente sarebbe insostenibile».

Mentre la flat tax con le detrazioni non sarebbe in contrasto con la Costituzione? 

«Il punto di fondo è soprattutto uno, bisogna partire dal principio che la progressività deve essere una proprietà del bilancio pubblico e non del sistema tributario: la progressività non riguarda solo le aliquote, ma l'intero complesso delle entrate e delle uscite del bilancio statale. Ciò significa che si può avere un'imposta ad aliquota unica e detrazioni, ma si deve lavorare sul fronte delle spese che ora è fortemente regressivo, cioè a vantaggio dei più abbienti». 

Dice che a parità di gettito l'aliquota sarebbe alta. Per avere un'aliquota più bassa bisogna tagliare la spesa pubblica. Non verrebbero colpiti sempre i più poveri?

«No, il tutto potrebbe essere finanziato attraverso tagli di spese che vanno ai più ricchi».

Tipo quali?

«Ce ne sono tante, l'esempio standard di trasferimento di soldi dalle classi povere a quelle più abbienti del paese è l'università. Altri esempi possono essere trovarti nei trasporti, basti pensare ai soldi messi dentro Alitalia, è evidente che è stato un finanziamento ad un sistema di trasporto utilizzato dai più ricchi». 

Quindi è un errore guardare solo alla progressività delle entrate? 

«È stato un abbaglio dei nostri padri costituenti, probabilmente un errore dovuto anche a quella fase storica. Ma se c'è una delle cose che dovrebbe essere rivista nella Costituzione è proprio quell'articolo che guarda al sistema tributario e non all'intero bilancio pubblico. Negli ultimi 60 anni si è guardato al solo lato delle entrate e quello che si ottenuto sono imposte altamente progressive e aliquote marginali molto elevate».

E perché siamo vittime di quest'abbaglio? 

«Perché si ha la sensazione di redistribuzione»".

Il professor Rossi indica esattamente il principio la cui risoluta applicazione può contribuire ad evitare il declino economico e sociale del paese: la progressività non deve riguardare solo le imposte, ma l'intero complesso delle entrate e delle uscite del bilancio statale.
 La necessaria cospicua diminuzione della pressione fiscale deve essere accompagnata da un adeguato taglio della spesa pubblica. La riduzione dello sperpero del denaro pubblico non basta. Sono necessarie una profonda riforma delle autonomie locali e una incisiva ristrutturazione dello stato sociale. Bisogna che la spesa sociale non sia regressiva e non venga spalmata su tutti i ceti.
Due significativi  rilievi possono però essere  mossi alle brillanti considerazioni  di Nicola Rossi.  Per rendere sostenibile il nuovo modello di bilancio pubblico occorre tagliare non solo le spese che vanno ai più ricchi ma anche molte di quelle che vanno ai semplici benestanti. I "più ricchi" infatti sono pochi.
Inoltre  si deve sottolineare che la costituzione italiana vigente già implicitamente accoglie il principio della progressività della spesa pubblica:

Art. 32 Cost.: "La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti".

Art. 34 Cost.: "La scuola è aperta a tutti.
L'istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita.
I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.
La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso".

Le cure gratuite sono garantite agli indigenti. Soltanto l'istruzione inferiore è gratuita. I capaci e meritevoli hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi, ma le provvidenze pubbliche devono essere attribuite per concorso ai soli privi di mezzi. La costituzione, se correttamente interpretata e applicata, già delinea un welfare sostenibile. La disapplicazione del modello previsto dai padri costituenti si è rivelata devastante per la finanza pubblica.

venerdì 20 giugno 2014

La recente politica estera degli Stati Uniti.




Su Analisidifesa.it del 13 giugno 2014 Gianandrea Gaiani ha così  commentato la recente politica estera USA:

"Oggi è meglio non farsi illusioni circa la ventilata disponibilità di Washington a intervenire in armi per aiutare Baghdad poiché l’Amministrazione Obama dall’Iraq all’Afghanistan, dalla Libia all’Ucraina gioca ormai il ruolo di grande destabilizzatore. Molti analisti definiscono fallimentare la politica estera e di difesa di Barack Obama ma in realtà essa rappresenta un successo per una potenza globale che si avvia a diventare il principale produttore ed esportatore di energia.
Il caos in tutte le regioni petrolifere o attraversate da oleodotti e gasdotti sembra infatti rientrare negli interessi attuali degli USA che grazie a shale gas e shale oil non solo trarranno benefici dall’aumento dei prezzi energetici ma indurrà molti Paesi a comprare il loro prodotto, ora più caro del gas russo o del petrolio del Golfo ma che potrebbe presto diventare competitivo grazie a guerre e tensioni determinate dal conflitto allargato tra sciiti e sunniti. In questo contesto va visto il ritiro prematuro dall’Iraq e dall’Afghanistan, il tira e molla di Washington sulla crisi siriana e il nucleare iraniano, la “stupida” guerra di Libia e il supporto diretto americano alla “rivoluzione” in Ucraina".

La destabilizzazione sembra in effetti l'esito generale della politica estera di Obama, anche se non pare un obiettivo lucidamente perseguito. Si consideri la vicenda esemplare del "surge" a tempo determinato realizzato in Afghanistan tra il 2009 e il 2010, mentre avveniva il  disimpegno dall'Iraq. Alessandro Marrone su Affarinternazionali.it del 2 dicembre 2009 ne dette conto in questi termini:

"Obama ha evidentemente tentato di trovare una sintesi tra le opposte visioni presenti nell’amministrazione. Da un lato le richieste dei vertici militari, sostenute più o meno decisamente dal Segretario di Stato Hillary Clinton e dall’inviato speciale Richard Holbrooke, sono state accolte con l’invio di 30.000 rinforzi. Dall’altro l’opposizione all’escalation del vice presidente Joe Biden e del capo dello staff della Casa Bianca Rahm Emanuel, condivisa dall’ala sinistra dei democratici, ha ottenuto la fissazione di una data di inizio del ritiro. In altre parole ciò che sembrava acquisito a marzo, cioè un impegno di lungo termine contro la guerriglia, è cambiato alla luce del deludente processo elettorale afgano, della crescita del debito pubblico statunitense, e soprattutto dell’opposizione alla guerra nell’opinione pubblica americana, che è particolarmente forte nel campo democratico. Il risultato è una strategia che punta a fare counter-insurgency secondo le linee guida già sperimentate con successo in Iraq, ma in un tempo limitato di 18 mesi. Una contraddizione in termini, che rischia di vanificare lo stesso sforzo americano e alleato. Cosa già sottolineata dai repubblicani, che accusano Obama di aver deciso di correre questo rischio al fine di iniziare il ritiro in tempo per la campagna presidenziale del 2012".

Nel "surge" afghano sono già evidenti i diversi fattori che hanno prodotto il disastro generale: crisi della finanza pubblica USA, spasmodica ricerca del consenso dell'opinione pubblica statunitense, visione contraddittoria e velleitaria. Difficile dunque concordare con Gaiani quando afferma che:

"...la politica estera e di difesa di Barack Obama ... in realtà...rappresenta un successo per una potenza globale che si avvia a diventare il principale produttore ed esportatore di energia".

La cassa energetica USA non vale l'ampliamento di problemi  strategici destinati a diventare sempre più gravi ed assillanti. Basti pensare alla eventuale formazione nel cuore del Medio Oriente di un'entità statuale qaedista, tenacemente rivolta all'attuazione del califfato universale. In questo e in altri casi in cui il processo decisionale è viziato dall'ideologia o dal fanatismo la dissuasione mediante intimidazione risulta inaffidabile.
Già un'altra volta la fiducia nella dissuasione si sarebbe potuta rivelare mal riposta. Durante la Guerra fredda i dirigenti sovietici, soprattutto per motivi ideologici, furono a lungo convinti che la guerra nucleare fosse inevitabile e potesse essere vinta.  Ha scritto il compianto professor Victor Zaslavsky, uno dei più autorevoli studiosi del regime sovietico:

"...è indispensabile studiare il ruolo svolto dall'ideologia marxista-leninista nella formulazione della politica estera e nella formazione della mentalità della leadership staliniana e, soprattutto, dello stesso Stalin".

"L'idea che il mondo fosse diviso in due blocchi la cui coesistenza pacifica risultava impossibile e che le guerre, sia tra paesi capitalisti sia, soprattutto, tra il blocco socialista e quello capitalista, fossero inevitabili ha origine nella...formulazione di Lenin "kto kogo" (chi vince contro chi), in cui è sintetizzata l'essenza della concezione bolscevica delle relazioni internazionali" (Victor ZASLAVSKY, Storia del sistema sovietico, 2009, p. 133 e seg.).

Obama brillante allievo di Machiavelli o apprendista stregone? Oggi la propaganda riesce ancora a velare l'inadeguatezza della leadership statunitense. Ma la realtà sempre prevale.

venerdì 13 giugno 2014

Iraq. Un disastro annunciato.



Gli insorti islamisti dell'Isis conquistano rapidamente terreno in Iraq. Lo stato costituito dopo la Seconda guerra del Golfo è ormai prossimo al collasso. Scrive Guido Olimpio sul Corriere della Sera del 13 giugno 2014:

"Gli insorti dell’Isis continuano ad avanzare grazie anche alla scarsa opposizione. Gli islamisti sono entrati nella località di Jalula e Sadiya, a circa 120 chilometri a nord di Bagdad, dopo che i governativi hanno abbandonato le posizioni senza combattere. L’esercito sembra impegnato a riorganizzare la difesa della capitale e al suo fianco – secondo molte indiscrezioni – ci sono i consiglieri iraniani. Intanto l’Onu denuncia esecuzioni sommarie nella regione di Mosul: almeno 17 ufficiali sono stati fucilati dall’Isis. E altre uccisioni potrebbero seguire. I militanti hanno liste nere con i nomi dei civili che hanno collaborato con le autorità. L’Isis non ha solo una forza militare notevole ma dispone di un apparato di intelligence bene informato e diffuso".

Questi drammatici sviluppi potevano essere evitati? Il giudizio storico si presenta sempre come valutazione di alternative.
La Prima guerra del Golfo fu combattuta nel 1991 per liberare il Kuwait dopo l'invasione irachena e lasciò al potere Saddam Hussein. La Seconda guerra del Golfo iniziò nel 2003 con il reale obiettivo di fare cadere il regime di Saddam. Questo secondo conflitto che alternative aveva? La gabbia in cui era stato costretto il regime dopo la conclusione delle ostilità era  efficace e sostenibile? Se Saddam fosse riuscito a presentarsi alle masse islamiche sunnite come il leader capace di farsi beffe delle potenze occidentali cosa sarebbe successo?
Dopo la caduta di Saddam l'Iraq fu straziato da una guerra lunga e sanguinosa. All'inizio del 2007 il generale David Petraeus assunse il comando delle forze armate USA in Iraq. In un solo anno conseguì rilevanti successi, ridusse le violenze e ottenne una sostanziale stabilizzazione del paese.
Nel gennaio 2009 Obama divenne presidente degli Stati Uniti. Egli avviò un rapido disimpegno dall'Iraq a fronte di un maggior impegno statunitense in Afghanistan. E' verosimile che il troppo rapido disimpegno USA dal teatro iracheno abbia compromesso la stabilizzazione in atto e sia in larga misura all'origine della successiva involuzione.


venerdì 6 giugno 2014

Brasile e India. Le nuove classi medie.



La globalizzazione ha determinato rapidi e imponenti mutamenti sociali. Nella maggior parte dei paesi occidentali i ceti medi sono in difficoltà. Le vecchie fonti di reddito sono indebolite o scomparse. I patrimoni finanziari e relazionali non permettono ormai di fronteggiare i cambiamenti epocali. Lo stato sociale non può più dare tutto a tutti.
A fronte di questo declino le economie emergenti hanno consentito lo sviluppo di nuove ampie classi medie. Si tratta di individui e famiglie dalla posizione ancora fragile e precaria, spesso pesantemente indebitati.
 Proprio questi nuovi ceti hanno un ruolo decisivo, soprattutto nei paesi democratici. Possono premere sull'acceleratore delle rivendicazioni sociali, respingendo un assetto produttivistico del welfare, della scuola e delle istituzioni economiche. Oppure possono accettare responsabilità e compiti gravosi, scegliendo competitività e produttività come fattori dello sviluppo, coniugando modernità e tradizione.
Mentre ceti emergenti e gruppi dirigenti brasiliani non riescono a condividere un percorso virtuoso e sostenibile, la classe media indiana sembra più consapevole delle difficoltà e cerca soluzioni fuori dello statalismo che ha contraddistinto l'India dopo l'indipendenza.
Su Il Sole 24 ORE del 30 maggio 2014 Gabriele Meoni ha così dato ragguaglio della situazione brasiliana:

"L'economia brasiliana arriva ai Mondiali in una forma a dir poco precaria. I dati sul primo trimestre dell'anno diffusi ieri dall'Istituto di statistica fotografano un Paese in cui le aziende non investono e le famiglie stentano a consumare. Se non fosse per la spesa pubblica che sostiene artificialmente l'economia, il quadro sarebbe anche peggiore".

"A ben vedere, i dati sono davvero preoccupanti. Il Brasile soffre da almeno tre anni di un malessere difficile da curare. Gli investimenti aziendali, frenati da infrastrutture arretrate e servizi pubblici inefficienti, sono in calo costante. La quota di investimenti privati sul Pil non arriva al 18%, uno dei tassi più bassi tra i grandi Paesi emergenti. I consumi sono stagnanti, depressi da un'inflazione superiore al 6% che riduce il potere d'acquisto dei salari. Quello zero virgola di crescita allora è solo il frutto di una spesa governativa generosa che continua a finanziare il welfare e le costruzioni popolari".

Su La Stampa del 6 giugno 2014 Subhash Agrawal così presenta l'India uscita dalle recenti elezioni:

"Negli ultimi sei mesi, molti europei e americani hanno espresso grande disprezzo per la classe media indiana e la sua attrazione per Modi...Molte di queste reazioni contengono pietà esagerata, stereotipi insultanti, ipotesi sbagliate e un malcelato disprezzo per la classe media indiana. È probabilmente una delle letture più gravemente distorte dell’India da parte del mondo esterno, e per questo merita un’analisi attenta".

"... il regime precedente ha rappresentato la peggiore combinazione di populismo, corruzione e incompetenza. Milioni di indiani hanno sperimentato una dolorosa caduta del reddito, del risparmio e della sicurezza economica, a causa del forte rallentamento della crescita durante il periodo del Partito del Congresso al potere. Il populismo di vecchio tipo non funziona più neanche in India, e i poveri ora si rendono conto che le promesse populiste li hanno lasciati completamente alle dipendenze del governo, ma incapaci di fare qualsiasi cosa. Invece di promesse populiste, come “diritto all’istruzione”, che significa molto poco quando non ci sono tetti, bagni, o anche insegnanti di scuole pubbliche, questa volta gli indiani hanno votato per chi proponeva loro politiche economiche sensate in grado di fornire energia elettrica affidabile, acqua, sanità, strade, posti di lavoro e sicurezza. Tutti bisogni semplici e naturali che l’Occidente dovrebbe rispettare".

La recente svolta indiana è comprensibile e va seguita con attenzione. Può una grande democrazia come quella indiana adottare un assetto produttivistico e abbandonare davvero l'abituale statalismo, continuando ad attribuire alla famiglia compiti fondamentali?
E' un'evoluzione auspicabile, che si realizzerà quando la famiglia e il matrimonio diventeranno spazio di affetto e libertà, segnato dalla piena parità.

venerdì 30 maggio 2014

Crisi. Lo scenario immaginario.




Sui tratti e le prospettive della crisi economica europea si è ormai formato un vasto consenso di superficie.  I più spiegano la diffusa caduta di reddito e occupazione soprattutto con la forza della moneta unica  e il cosiddetto rigore applicato alle finanze pubbliche, entrambi imposti dalla prepotente Germania. Si invocano politiche monetarie accomodanti e approcci keynesiani alla spesa pubblica. Si indica come modello la politica economica statunitense.
Tale scenario sorprende per la lontananza dalla realtà. L'Europa non si spiega solo con l'Europa. Oggi più di ieri, con la globalizzazione, risultano decisive la produttività, la competitività, la capacità di attrarre investimenti esteri, l'attitudine all'innovazione produttiva e di processo, l'adozione di un assetto produttivistico, la sostenibilità del welfare, la qualità del capitale umano, valutate in ambito globale.
E' in atto una rivoluzione segnata da ondate successive. Apertura internazionale dell'economia, digitalizzazione della produzione, del commercio e dei consumi, creazione di ampie e fragili nuove classi medie determinano una crisi strutturale e non ciclica.

Il premio Nobel per l'economia  Michael Spence ha scritto su  Il Sole 24 Ore:

"In altre parole, a differenza della precedente ondata di tecnologia digitale che aveva spinto le imprese all'accesso e all'impiego di risorse sottoutilizzate di manodopera nel mondo, stavolta la forza trainante è l'abbattimento dei costi attraverso la sostituzione del lavoro".

"Stiamo entrando in un mondo in cui i flussi globali più importanti saranno le idee e il capitale digitale e non i beni, i servizi o il capitale tradizionale, adattarvisi richiederà un cambiamento di mentalità, di politica, di investimento (soprattutto in capitale umano) e anche nuovi modelli di occupazione e distribuzione. Nessuno sa con certezza come finirà, ma cercare di capire dove ci stanno portando queste forze e queste tendenze tecnologiche è già un buon punto di partenza".

Danilo Taino così ha aperto il suo articolo sul  Corriere della Sera del  28 maggio 2014:

"...austerità contro crescita. Questa era — forse — la guerra di ieri: oggi c’è altro per cui vale la pena battersi".

Al richiamo di Taino non può non seguire una domanda: chi sono questi immaginifici e perchè proliferano? Si tratta di politici spaventati o in cerca di facile successo, imprenditori poco avvezzi alla concorrenza e attratti da apparenti scorciatoie,  intellettuali che aprono vicoli ciechi per errore o cortigianeria. Basteranno retorica e propaganda a prevenire e contenere la disillusione e la delusione?


venerdì 23 maggio 2014

Prima guerra mondiale. L'inutile strage.




Il 28 luglio 1914 l'Impero austro-ungarico dichiarò guerra al Regno di Serbia. Così iniziò la Prima guerra mondiale, la Grande guerra. L'entrata in guerra dell'Italia avvenne quasi un anno dopo, il 24 maggio 1915.
Quella fatale estate del 1914 sorprese anche osservatori lucidi ed esperti. Significative le parole del grande filosofo britannico Bertrand Russell, allora quarantaduenne, nato in una delle più importanti famiglie aristocratiche, il cui nonno, lord John Russell, era stato primo ministro e ministro degli esteri:

"Mi trovavo a Cambridge nelle calde giornate della fine di luglio e non facevo che discutere con accanimento della situazione politica con chiunque mi capitasse a tiro. Mi sembrava impossibile che le nazioni europee commettessero la pazzia di scatenare una guerra, ma non dubitavo che, se la guerra fosse davvero scoppiata, l'Inghilterra sarebbe stata trascinata a parteciparvi. Sentivo invece, con tutta l'anima, che il nostro paese doveva rimanere neutrale..."

"Con mio vivo stupore...dovetti persuadermi che, in generale, uomini e donne si rallegravano all'idea di fare la guerra"

"Ma ancor più raccapricciante, a parer mio, era il fatto che la prospettiva di una carneficina fosse causa di piacevole eccitamento per, si può dire, il novanta per cento della popolazione. Dovetti ricredermi sulla natura umana... Fino a quel momento avevo creduto che i più amassero i propri figli; la guerra mi rivelò che coloro che li amano sono l'eccezione. Avevo creduto che la gente, in generale, amasse il denaro più di ogni altra cosa; mi resi conto che amavano ancor più la distruzione. Avevo immaginato che gli intellettuali amassero soprattutto la verità, ma qui ancora scoprii che quelli che preferivano la verità alla notorietà erano meno del dieci per cento" (Bertrand RUSSELL, L'Autobiografia, 1914 - 1944, Volume secondo, 1971, pp. 11, 12, 14 e  15).

La sorpresa e l'amarezza colsero in quei giorni anche Giovanni Giolitti, lo statista liberale che segnò con la sua opera e la sua personalità il decennio precedente. Giolitti assunse una posizione neutralista, cercando di impedire la guerra e la partecipazione ad essa dell'Italia:

"Ricordavo i due tentativi dell'Austria, che avevo concorso a sventare, per aggredire la Serbia nell'anno precedente, e sentivo e sapevo che il partito militare austriaco mirava ostinatamente a tale scopo; ma io confidavo che le ragioni della pace, che erano così grandi e universali, avrebbero prevalso contro quella criminale infatuazione. La guerra con la Serbia era voluta dai militaristi austriaci come mezzo per sanare le discordie interne, con l'illusione che essa potesse rimanere isolata; ma io pensavo che le altre potenze, che non avevano quelle ragioni e non potevano farsi illusioni sul contegno della Russia di fronte ad una tale provocazione, e che avrebbero dovuto comprendere l'enormità del disastro che la guerra europea sarebbe stata per tutti, avrebbero all'ultimo trovato un compromesso ed una transazione che evitasse l'immane rovina"

"...io osservavo che non si può portare il proprio Paese alla guerra per ragione di sentimento verso altri popoli, ma solo per la tutela del suo onore e dei suoi primari interessi. Tali sono le ragioni pratiche...per le quali io esprimevo parere contrario all'entrata dell'Italia in guerra; e le quali, per quanto riguarda le previsioni della durata della guerra, delle sue difficoltà e dei sacrifizi di uomini e di ricchezza che essa implicava, furono poi pienamente confermate dagli avvenimenti" (Giovanni GIOLITTI, Memorie della mia vita, 1982, pp. 316, 317, 323  e 324).

I cattolici italiani e la Santa Sede si opposero alla guerra. Papa Benedetto XV tentò ripetutamente di comporre il conflitto.  Sua è l'espressione "inutile strage" con cui nel 1917 denunciò l'orrore, supplicando le potenze di deporre le armi. 
La memoria generazionale indebolita e fuorviata, i sentimenti nazionalisti diffusi nel Diciannovesimo secolo e i difetti istituzionali delle potenze coinvolte condussero dunque l'Europa alla tragedia. La Grande guerra aprì la via al fascismo, al nazismo e al regime sovietico. Essa costituì il punto di avvio del "Secolo breve" chiuso dalla caduta del Muro di Berlino (1989).
L'effettiva portata di tale immane tragedia sfuggì anche ai suoi più influenti protagonisti. Il più brillante generale italiano del Ventesimo secolo, Enrico Caviglia, ha terminato il suo libro sulla battaglia di Vittorio Veneto, con queste parole:

"Ma ora la nazione ha acquistato maggior fiducia in sé, nella sua forza economica, nella sua capacità organizzatrice, nella possibilità di diventare una potenza industriale: nella sua resistenza alle lotte d'ogni genere. Infine l'Italia ha dato al mondo una sicura prova che non è una nazione effimera, ma un edificio di profonde e sicure basi,  di forze morali intellettuali e materiali solide e resistenti..." (Enrico CAVIGLIA, Vittorio Veneto, 1920, p. 121).

Non era vero. Il regime mussoliniano, l'8 settembre 1943, la difficile democratizzazione e l'inadeguata modernizzazione che hanno seguito la Seconda guerra mondiale affondano le loro radici in quell'"inutile strage".

venerdì 16 maggio 2014

Urge ristrutturazione. Del debito pubblico o della spesa pubblica?




Sul Corriere della Sera del 14 maggio 2014 Lucrezia Reichlin esamina la questione dell'imponente debito pubblico italiano, suggerendo una sua ristrutturazione "creativa", sotto l'egida dell'Unione Europea:

"In una unione monetaria un Paese non può unilateralmente creare inflazione e svalutare, inoltre la crisi del debito in una nazione contagia gli altri perché mette a repentaglio la sopravvivenza stessa della divisa comune. Va costruito quindi un meccanismo di risoluzione a livello federale che renda legittima la ristrutturazione".

Le risponde Giampaolo Galli su Il Sole 24 ORE del 15 maggio 2014:

"...ritengo di dover argomentare che la ristrutturazione del debito non sarebbe affatto una catarsi liberatoria e non è comunque un'alternativa all'austerity. Essa sarebbe invece una forma parossistica di austerity concentrata in un brevissimo periodo di tempo e produrrebbe una desertificazione del paese, delle sue imprese, del suo capitale umano e tecnologico".

"È infatti del tutto evidente che una ristrutturazione, di necessità forzosa, deve essere nell'ordine di varie decine di punti di Pil, diciamo fra i 30 e i 50 punti, in modo da abbattere in modo decisivo il rapporto debito su Pil. Se fosse più modesta, il debito continuerebbe a non essere credibile e il Tesoro non riuscirebbe più a rifinanziarlo sul mercato".

"Gli italiani - per lo più famiglie ma anche banche e imprese - si vedrebbero quindi più o meno dimezzato il valore dei loro titoli di Stato". 

" In sostanza si tratterebbe di una tassa straordinaria e straordinariamente elevata nell'ordine di svariate decine di punti di Pil. Per confronto la stretta fiscale operata dal governo Monti nel 2012 è stata di 2,5 punti di Pil. Appare evidente che crollerebbe, ben più di quanto non sia accaduto sino a oggi, la domanda interna con effetti devastanti sulle imprese e sull'occupazione. Un'altra conseguenza sarebbe il default delle banche, con connessa esigenza di operare massicci salvataggi che costringerebbero a emettere nuovo debito pubblico. È difficile immaginare come l'economia possa riprendersi dopo questo shock, anche perché non esistono precedenti in epoca moderna di ristrutturazioni di questa entità in un paese caratterizzato, come è l'Italia, da una diffusione di massa del risparmio e dei titoli di Stato. È però certo che ci vorrebbero molti anni segnati da sofferenze sociali mai sperimentate prima".

Alle condivisibili considerazioni di Galli si deve aggiungere un rilievo di fondamentale importanza: la ristrutturazione del debito non sanerebbe i gravi problemi che precludono la crescita economica.
Accanto a profondi fattori socio-culturali resterebbe infatti elevatissima la pressione fiscale, maggiore responsabile della stagnazione/recessione economica. Ormai supera il 50% del PIL, consentendo una intermediazione pubblica di più della metà della ricchezza prodotta nel paese. Tale insostenibile prelievo fiscale è necessario per fronteggiare l'enorme spesa pubblica, che ormai ammonta a più di ottocento miliardi. Dunque la spesa pubblica italiana, non il debito pubblico, deve essere ristrutturata. Nessun settore sia sottratto alla riforma, guidata dal principio di sussidiarietà. Meno tasse per ceti medi e imprenditori, chiamati in cambio ad assumersi maggiori responsabilità.

venerdì 9 maggio 2014

Costituzione cinese. Il welfare produttivistico.




  Ian Holliday insegna scienze politiche all'Università di Hong Kong. In un articolo di qualche anno fa ha delineato il concetto di welfare produttivistico, riferito allo stato sociale di alcuni paesi dell'Estremo Oriente:  Giappone, Hong Kong, Singapore, Corea del Sud e Taiwan (Ian HOLLIDAY, Productivist Welfare Capitalism: Social Policy in East Asia, in Political Studies, Volume 48, 2000, pagg. 706-723).
I paesi con un welfare produttivistico hanno una spesa pubblica sociale contenuta, una politica sociale finalizzata alla crescita economica, attribuiscono un ruolo fondamentale alla famiglia e compiti di regolazione allo stato. Il welfare è costruito pezzo per pezzo, pragmaticamente, senza un significativo riferimento alla cittadinanza e a diritti a questa connessi.  
Al modello produttivistico è riconducibile anche il welfare della Cina (Repubblica Popolare Cinese).
L' art. 14 della Costituzione cinese dispone che:

"The State properly apportions accumulation and consumption, concerns itself with the interests of the collective and the individual as well as of the State and, on the basis of expanded production, gradually improves the material and cultural life of the people.
The State establishes a sound social security system compatible with the level of economic development".

Lo stato fissa le quote di consumo e risparmio. Istituisce un sostenibile sistema di sicurezza sociale "compatibile con il livello dello sviluppo economico". L'estensione dei diritti sociali è espressamente fatta dipendere dall'aumento della produzione.
Finora la Cina ha mantenuto un welfare che copre poco e costa poco. Tale limitata copertura è determinata dal diverso trattamento riservato a campagna e città, a immigrati, residenti temporanei e residenti permanenti. Lo stato sociale produttivistico è evidentemente fattore di  competitività del sistema nella competizione economica globale. Con questa potenza le economie  occidentali sono chiamate a misurarsi.

venerdì 2 maggio 2014

Risparmio e moneta. I problemi dell'economia USA.


  Su Il Sole 24 ORE Stephen S. Roach, ex presidente di Morgan Stanley Asia, con un'analisi fuori del coro individua i principali problemi dell'economia USA: il risparmio e la competitività insufficienti.

Scrive Roach:

"Lo yuan, la moneta cinese, negli ultimi mesi si è indebolito riportando in auge le accuse contro la Cina di manipolazione della moneta e svalutazione competitiva ai danni degli altri Paesi. A metà aprile, il Tesoro Usa ha espresso «timori particolarmente seri», sottolineando che la questione rappresenta da tempo uno dei problemi di politica economica più spinosi nei rapporti tra Usa e Cina.
È un dibattito ispirato da ragioni politiche e basato su tesi sbagliate. Se portate all'estremo, le accuse americane rischiano di far scivolare le due maggiori economie mondiali lungo una china pericolosa di attriti commerciali, protezionismo o peggio".

"L'ossessione americana per il tasso di cambio con la Cina è un classico caso di negazione politica. I lavoratori americani rimangono sotto pressione, sia dal punto di vista dei salari reali che dal punto di vista del rischio disoccupazione, e i politici di conseguenza si trovano costretti a dare una risposta e lo fanno prendendo di mira la componente cinese di un disavanzo commerciale che è in crescita da tempo, e sostenendo che la colpa dei mali ormai incancreniti della classe media americana è la manipolazione del tasso di cambio da parte di Pechino. Il disavanzo commerciale degli Usa è uno squilibrio multilaterale con un gran numero di Paesi - 102 in totale - non un problema bilaterale con la Cina. E non nasce dalla manipolazione dello yuan, ma dal fatto che gli Usa non risparmiano abbastanza".

"Ci sono due visioni sul futuro delle relazioni tra Stati Uniti e Cina: una che vede solo rischi e un'altra che vede opportunità. L'ossessione per lo yuan ricade nella prima categoria: non tiene conto del riequilibrio e delle riforme già in corso in Cina e distoglie l'attenzione dell'America dalla necessità di affrontare il suo problema macroeconomico più serio sul lungo termine, la carenza di risparmi. Al contrario, vedere la Cina come un'opportunità mette in luce la necessità, per l'America, di occuparsi dei suoi squilibri, ricostruendo la competitività del Paese e dandosi da fare per accaparrarsi una quota significativa del boom prossimo venturo della domanda interna cinese".

Bisogna che gli USA smettano di consumare al di sopra delle loro possibilità. Occorre riprendere a risparmiare. Sono sbagliati e fuorvianti gli approcci monetaristi. 
Le misure devono mirare a ricostruire il capitale umano, l'etica del lavoro e della responsabilità, la competitività delle imprese. Questo è quello che non ha fatto l'Amministrazione Obama. All'incremento del PIL corrisponde un netto aumento del credito al consumo. Gli americani riprendono a indebitarsi.
Analoghe considerazioni sono opponibili alle proposte demagogiche che affollano il dibattito pubblico italiano. L'euro e la linea tedesca sono alibi a cui ricorrono politici ed intellettuali in cerca di facili consensi. In realtà  l'Italia può evitare il declino solo migliorando il capitale umano, rendendo più efficiente la pubblica amministrazione, conseguendo una ragionevole certezza del diritto, ampliando la concorrenza, abbassando la pressione fiscale e aumentando la competitività strutturale delle imprese.
Come negli Stati Uniti, ai ceti medi e agli impenditori occorre parlare con franchezza: in cambio di una minore pressione fiscale devono assumersi maggiori responsabilità.

venerdì 25 aprile 2014

Luca Ricolfi. L'enigma della crescita.


Il professor Luca Ricolfi insegna analisi dei dati all'Università di Torino. Nel suo recentissimo L'enigma della crescita espone un'analisi profonda e per molti aspetti originale dello stato delle economie avanzate.
Ricolfi  rileva che tali economie erano ormai stagnanti o tendevano alla stagnazione già prima della crisi in corso, mentre le economie dei paesi emergenti crescevano, con l'importante differenza che i paesi con buoni fondamentali si sarebbero arrestati su un reddito alto. Questo perchè:

"La crescita fa aumentare il benessere, ma l'aumento del benessere fa lievitare  i costi di produzione e riduce gli incentivi a migliorare la propria condizione. Così la crescita prima rallenta, poi diventa stagnazione, e infine si arresta. E'  questo il meccanismo per cui, a parità di altre condizioni, i paesi più poveri crescono di più dei paesi più ricchi" (op. cit., 2014, p. 9).

"...le società avanzate producono benessere, e il benessere contiene in sé le forze che rallentano la spinta al suo incremento" (op. cit, p. 8).

Ora però "Si può pensare che la crisi abbia abbassato il reddito di equilibrio di tutti i paesi, o di molti di essi. Ma si può anche pensare che, nel lungo periodo, il ruolo frenante del benessere si attenui" (op. cit., p. 164).
La crescita è un obiettivo ancora largamente desiderabile. Allora che fare? "Un paese può fare investimenti in istruzione, può ridurre le tasse, può migliorare le proprie istituzioni di mercato" (op. cit., p. 166).

L'enigma della crescita è una lettura davvero utile per capire il mondo contemporaneo. Ha il grande merito di individuare fattori e tendenze fondamentali della crescita economica senza accogliere acriticamente le fuorvianti spiegazioni/ricette macroeconomiche e monetariste oggi tanto diffuse.
La attuale frenata di alcuni dei principali paesi emergenti in realtà non smentisce ma conferma le tesi dell'autore, essendo in larga misura determinata dalle aspettative dei nuovi ceti prodotti dallo sviluppo economico. Si tratta di individui e famiglie dalla posizione economica e sociale migliorata ma ancora precaria, gravati da pesanti debiti personali. Le loro attese sono rivolte soprattutto allo stato ed hanno per oggetto l'allargamento del welfare, che minerebbe la competitività del sistema.
Qualche riserva si deve invece avanzare sulle misure proposte. Ricolfi si è detto convinto che un paese con una pressione fiscale complessivamente alta possa continuare a crescere purchè restino adeguatamente basse le imposte sulle imprese e che un ampio stato sociale non sia incompatibile con la crescita. Ma osservatori "esterni" hanno sottolineato che proprio il tradizionale welfare occidentale frena lo sviluppo.



 Lo stesso welfare, considerato insostenibile,  è ormai in via di demolizione o profonda ristrutturazione  proprio nelle democrazie del Nord Europa.



Occorre insomma più coraggio nel ridurre i confini dello stato e nel ridare maggiori responsabilità agli individui, alle famiglie e alle formazioni sociali, creando così le condizioni per una ripresa dell'etica del lavoro e della responsabilità.

Visite