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venerdì 28 febbraio 2014

Burocrazia buona e cattiva.

 


Giovanni Giolitti prima di assumere responsabilità di governo fu sostituto procuratore del Re  e poi resse la direzione delle Finanze, con lo stesso Depretis titolare del dicastero.
Ha scritto Giolitti nelle sue Memorie:

"Depretis aveva seco, quale Segretario generale, (che corrispondeva allora a quello che fu poi il Sottosegretario di Stato dei vari ministeri...), il deputato Sesmit Doda, che gli era stato imposto dagli elementi estremi del partito. Il Sesmit Doda era un brav'uomo, ma alquanto fantasioso, "furioso" come lo chiamava Depretis; non aveva pratica di amministrazione  e aveva chiamati al suo Gabinetto impiegati poco competenti; e mi mandava continuamente degli ordini cervellotici in contrasto con la legge, che io dovevo respingere, spiegando la ragione per cui non si potevano eseguire. Il Sesmit Doda se la prese e anzi s'insospettì, ed un giorno che eravamo assieme presso Depretis, egli accennò che nel dicastero "si congiurava". Io capii l'allusione, e gli risposi che se avessi voluto cospirare avrei avuto un mezzo semplicissimo, del quale egli mi sarebbe stato grato. Depretis, che era beffardo di temperamento, e se ne aspettava una divertente, m'incoraggiò: "Dica, dica." Allora io dissi: "Se io volessi congiurare contro il Ministero, mi basterebbe eseguire gli ordini che Ella mi dà... " Depretis scoppiò  in una risata, e Sesmit Doda, furioso, prese il cappello e se ne andò" (Giovanni GIOLITTI, Memorie della mia vita, 1922, p. 23 e seg.).

Il futuro grande statista liberale come alto dirigente della Pubblica amministrazione incarna così il burocrate competente e coraggioso, che richiama i politici alla realtà dei fatti e delle norme.

Gli italiani sono vittime di una burocrazia perversa e soffocante, ma della burocrazia una grande società non può fare a meno.  Ernesto Galli Della Loggia sul Corriere della Sera del 26 febbraio 2014 ha trattato con lucidità questo tema impopolare:

"Solo un micidiale semplificatore come Lenin o forse un addicted al blog di Beppe Grillo possono pensare che per amministrare uno Stato possa bastare l’esperienza di una cuoca (anche se alla cuoca il primo era pronto ad affiancare il plotone d’esecuzione, mentre il secondo forse è disposto, più mitemente, ad accontentarsi di Internet).
Il problema dunque non è burocrazia sì o no. Nel caso dell’Italia il problema è innanzitutto un problema di formazione e di reclutamento".

"Le burocrazie che danno buona prova di sé sono dappertutto quelle reclutate su base rigidamente meritocratica: cioè attraverso corsi di studi seri ed esami severi... Da noi, infatti, non solo a cominciare dal curriculum scolastico e universitario il criterio del merito è virtualmente scomparso, ma veri esami d’ingresso degni di questo nome si fanno ormai esclusivamente in pochissime amministrazioni..."

"In questo vuoto di meritocrazia il fattore decisivo da cui sempre più dipendono ingresso e carriera nell’alta burocrazia è diventato il mix formato da origine sociale, relazioni familiari e politica. Si tratta di un mix micidiale. Per due ragioni. Da un lato perché di fatto così si sancisce l’esclusione dall’élite del Paese di coloro che provengono dalle classi  meno abbienti e comunque meno favorite...La seconda ragione sta nel fatto che con una burocrazia la quale, essendo di scarsa qualità e potendo vantare pochi meriti propri, dipende dalla politica per il proprio reclutamento, per la sua ascesa ai vertici... va ovviamente a farsi benedire la necessaria distinzione tra politica e amministrazione. La seconda, che deve tutto alla prima, non avrà mai il coraggio di prenderla di petto e di opporsi con forza alle sue ragioni in nome dell’interesse generale - come invece sarebbe necessario".

Oggi molti politici accusano gli alti burocrati di impedire o rallentare l'attuazione delle riforme. Se ciò accade, come spesso accade, per  difendere interessi corporativi o per  avvantaggiare referenti politici, il biasimo deve essere severo. Ma se ciò avviene nel tentativo di frenare governanti e legislatori "fantasiosi",  "furiosi" e "poco competenti", allora  sembra opportuno riproporre la devastante risposta di Giolitti:

"Se io volessi congiurare contro il Ministero, mi basterebbe eseguire gli ordini che Ella mi dà... ".

venerdì 21 febbraio 2014

L'Ucraina che nessuno può volere.




L'Ucraina brucia. Lo scontro tra l'opposizione, in cui radicali e violenti acquistano un peso sempre maggiore, e il governo filorusso rischia di diventare aperta guerra civile. Questa situazione è evidentemente l'esito non solo di dinamiche interne, ma anche delle relazioni tra Russia e USA, segnate da una rilevante conflittualità.
Yanukovich è non soltanto odiato dai suoi oppositori, ma ormai criticato dai suoi referenti russi e condannato dalla Chiesa Ortodossa Ucraina (Patriarcato di Kyiv), una delle tre maggiori giurisdizioni ortodosse del paese. Su La Voce della Russia del 21 febbrao 2014 Andrey Fediašin scrive:

"Come riferisce il Servizio stampa del Presidente Yanukovich, a Kiev è stato raggiunto un accordo per la soluzione della crisi. Per l’Unione Europea ai negoziati hanno partecipato i titolari dei Ministeri degli Esteri della Germania e della Polonia Frank-Walter Steinmeier e Radosław Sikorski, il portavoce del Presidente russo, ombudsmen Vladimir Lukin, il Presidente Viktor Yanukovich e tre leader dell’opposizione – Arseny Jatsenuk, Oleg Tiagnibok e Vitaly Klichko
Ma ciò non significa affatto che l’Ucraina ha cominciato ad uscire a poco a poco dalla crisi.
La Russia per la prima volta dall’inizio della crisi ucraina nell’anno scorso ha espresso con toni assai rigorosi il suo atteggiamento verso ciò che sta avvenendo e verso l’incapacità funzionale difficilmente spiegabile di Kiev. Il primo ministro Dmitry Medvedev alla seduta del Consiglio dei Ministri del 20 febbraio ha detto, in particolare:
Noi, sicuramente, porteremo avanti il processo di cooperazione con i partner ucraini in tutte le direzioni concordate. Al tempo stesso a questo scopo è necessario che il potere in Ucraina sia legittimo ed efficace.
Fin qui Mosca non mai osato fare una critica così dura al governo di Yanukovich".

Mentre Marco Tosatti su La Stampa del 21 febbraio 2014 dà conto della condanna espressa dalla Chiesa Ortodossa Ucraina (Patriarcato di Kyiv):

"La Chiesa Ortodossa Ucraina ha deciso di non pregare più, nelle celebrazioni religiose, per i responsabili del governo di Kiev. “Prendendo atto del fatto che i ripetuti appelli della Chiesa a non usare le armi contro il popolo non sono stati ascoltati dalle autorità dello Stato; contro il popolo che le ha elette per servire il popolo e l’Ucraina, non per la violenza e l’omicidio, si è deciso di non pregare più per le autorità al potere durante le celebrazioni religiose”, afferma un comunicato firmato dal Patriarca Filarete. Inoltre il Patriarca e i vescovi chiedono alle autorità di smettere immediatamente di usare le armi contro la gente. E la Chiesa, a dispetto delle Scritture e della Costituzione dell’Ucraina, che parlano della necessità di pregare per i governanti, pregherà solo per l’Ucraina, il popolo ucraino, i morti e feriti negli episodi di violenza. 
Nel frattempo è partita un’iniziativa che chiede che Viktor Yanukovich sia scomunicato e colpito con anatema. La richiesta è rivolta al Sinodo della Chiesa Ortodossa Ucraina legata al Patriarcato di Mosca. L’iniziativa è partita da una nota scrittrice laica e religiosa, Tetyana Derkatch, che l’ha lanciata su Facebook e alti canali sociali, ed è ospitata dal RISU (Religious Information Service of Ukraine)".

Nessuna delle potenze coinvolte, Russia, USA e Unione Europea, trae realmente vantaggio da un'Ucraina in preda alla guerra civile. Devono migliorare le relazioni tra USA e Russia. Sono tanto importanti e numerosi i comuni interessi da rendere addirittura difficile da comprendere una contrapposizione così estesa e dura.
 Il muro ideologico è caduto ormai da tempo.  E' auspicabile che entrambi i governi collaborino per estendere il dominio dello stato di diritto, rafforzare la tutela della dignità umana, combattere la povertà, attenuare le pulsioni etniche e nazionaliste, sconfiggere il terrorismo fondamentalista e risolvere le crisi internazionali.

venerdì 14 febbraio 2014

Galileo Galilei. Cattolicesimo e scienza.




 Galileo Galilei, morto nel 1642, è da molti considerato il padre della scienza moderna. In realtà, fervente cattolico con due figlie suore e nonostante i contrasti sfociati nella condanna pronunciata dal Sant'Uffizio, diede ancor maggiore contributo alla definizione dei rapporti tra fede cristiana e studio della natura e alla affermazione di un corretto approccio interpretativo alla Bibbia.
Di  seguito le considerazioni di Stephen Jay Gould e  Imre Lakatos, che di Galilei sottolineano anche gli errori e il rudimentale, ingenuo empirismo.

"Galileo puntò il telescopio anche su Saturno, il più lontano dei pianeti noti a quel tempo, e vide i famosi anelli. Non riuscì però a visualizzare o interpretare in modo corretto ciò che aveva osservato, presumibilmente perchè nel suo mondo concettuale non c'era "spazio" per un oggetto così peculiare (e il telescopio era troppo rozzo per raffigurare gli anelli in modo abbastanza chiaro da costringere la sua mente, già confusa da tante sorprese, alla conclusione più peculiare e imprevista di tutte)".

"Galileo...interpretò Saturno come un corpo triplice, formato da una sfera centrale affiancata da due sfere minori a contatto con essa".

"Galileo non annuncia la sua soluzione per mezzo di espressioni come "congetturo", "ipotizzo", "inferisco" o "mi pare che sia l'interpretazione migliore...". Egli scrive invece audacemente "ho osservato" (Stephen Jay GOULD, Le pietre false di Marrakech, 2007, pag. 45 e segg.).

"Il falsificazionista sofisticato non si schiera nè con Galileo nè col cardinal Bellarmino. Non si schiera con Galileo, perchè sostiene che le nostre teorie di base possono essere tutte altrettanto assurde e inverisimili per la mente divina; e non si  schiera con Bellarmino, a meno che il cardinale non concordi sul fatto che le teorie scientifiche, a tempi lunghi, possano prima o poi portare a conseguenze vere sempre più numerose e a conseguenze false sempre meno numerose e che, in questo senso strettamente tecnico, possano aver "verisimilitudine" crescente" (Imre LAKATOS, La falsificazione e la metodologia dei programmi di ricerca scientifici, in Imre LAKATOS e Alan MUSGRAVE (a cura di), Critica e crescita della conoscenza, 1993, p. 266 e seg.).

Galilei fu costretto all'abiura dal Sant'Uffizio, posto agli arresti domiciliari in residenze  signorili e infine confinato nella sua villa di Arcetri.  Ma la condanna venne dopo un  processo preceduto da lunghe discussioni e dall'elaborazione di argomenti difensivi che si sono rivelati fondamentali per l'emersione della piena compatibilità tra scienza e fede cristiana.


Scrive Galilei in una lettera a Benedetto Castelli:

"Io crederei che l'autorità delle Sacre Lettere avesse avuto solamente la mira a persuader a gli uomini quegli articoli e proposizioni, che, sendo necessarie per la salute loro e superando ogni umano discorso, non potevano per altra scienza né per altro mezzo farcisi credibili, che per la bocca dell'istesso Spirito Santo. Ma che quel medesimo Dio che ci ha dotati di sensi, di discorso e d’intelletto, abbia voluto, posponendo l’uso di questi, darci con altro mezzo le notizie che per quelli possiamo conseguire, non penso che sia necessario il crederlo".

E in una lettera a Cristina di Lorena granduchessa di Toscana:

"...l’intenzione delle Spirito Santo essere d’insegnarci come si vadia al cielo, e non come vadia il cielo".

"Sopra questa ragione parmi primieramente da considerare, essere e santissimamente detto e prudentissimamente stabilito, non poter mai la Sacra Scrittura mentire, tutta volta che si sia penetrato il suo vero sentimento; il qual non credo che si possa negare essere molte volte recondito e molto diverso da quello che suona il puro significato delle parole. Dal che ne séguita, che qualunque volta alcuno, nell’esporla, volesse fermarsi sempre nel nudo suono literale, potrebbe, errando esso, far apparir nelle Scritture non solo contradizioni e proposizioni remote dal vero, ma gravi eresie e bestemmie ancora: poi che sarebbe necessario dare a Iddio e piedi e mani e occhi, non meno affetti corporali ed umani, come d’ira, di pentimento, d’odio, ed anco tal volta la dimenticanza delle cose passate e l’ignoranza delle future; le quali proposizioni, sì come, dettante lo Spirito Santo, furono in tal guisa profferite da gli scrittori sacri per accomodarsi alla capacità del vulgo assai rozzo e indisciplinato, così per quelli che meritano d’esser separati dalla plebe è necessario che i saggi espositori ne produchino i veri sensi, e n’additino le ragioni particolari per che e’ siano sotto cotali parole profferiti: ed è questa dottrina così trita e specificata appresso tutti i teologi, che superfluo sarebbe il produrne attestazione alcuna".

Tale compatibilità tra scienza e fede cristiana è oggi proclamata con lucida consapevolezza dai pastori della Chiesa. Esemplare in questo senso  il Messaggio di Giovanni Paolo II ai partecipanti alla plenaria della Pontificia Accademia delle Scienze:

"Da parte mia, nel ricevere il 31 ottobre 1992 i partecipanti all’Assemblea plenaria della vostra Accademia, ho avuto l’occasione, a proposito di Galileo, di richiamare l’attenzione sulla necessità, per l’interpretazione corretta della parola ispirata, di una ermeneutica rigorosa. Occorre definire bene il senso proprio della Scrittura, scartando le interpretazioni indotte che le fanno dire ciò che non è nelle sue intenzioni dire. Per delimitare bene il campo del loro oggetto di studio, l’esegeta e il teologo devono tenersi informati circa i risultati ai quali conducono le scienze della natura"

" Tenuto conto dello stato delle ricerche scientifiche a quell’epoca e anche delle esigenze proprie della teologia, l’Enciclica Humani generis considerava la dottrina dell’“evoluzionismo” un’ipotesi seria, degna di una ricerca e di una riflessione approfondite al pari dell’ipotesi opposta. Pio XII aggiungeva due condizioni di ordine metodologico: che non si adottasse questa opinione come se si trattasse di una dottrina certa e dimostrata e come se ci si potesse astrarre completamente dalla Rivelazione riguardo alle questioni da essa sollevate".

"Oggi, circa mezzo secolo dopo la pubblicazione dell’Enciclica, nuove conoscenze conducono a non considerare più la teoria dell’evoluzione una mera ipotesi. È degno di nota il fatto che questa teoria si sia progressivamente imposta all’attenzione dei ricercatori, a seguito di una serie di scoperte fatte nelle diverse discipline del sapere. La convergenza, non ricercata né provocata, dei risultati dei lavori condotti indipendentemente gli uni dagli altri, costituisce di per sé un argomento significativo a favore di questa teoria".




venerdì 7 febbraio 2014

Crisi. In difesa dell'euro.




Davide Colombo su Il Sole 24 ORE del 5 febbraio 2014 espone alcune delle principali ragioni che inducono a respingere il passaggio dall'euro a una moneta nazionale italiana destinata a svalutarsi.
Scrive Colombo:

"Qualche mese fa a mettere in fila almeno quattro fattori che hanno definitivamente affossato l'equazione uscita dall'euro = svalutazione = rilancio di export e Pil è stato il centro studi di Confindustria".

"Primo: la diffusione delle filiere globali riducono i vantaggi competitivi di una svalutazione. Non si vive più in un mondo in cui le imprese delle economie avanzate producono interamente in casa i loro beni e servizi importando solo materie prime. Ora si produce importando anche i semi-lavorati che servono a produrre i beni finali da esportare...la svalutazione del cambio renderebbe queste importazioni assai più costose annullando l'eventuale guadagno di competitività".

"Secondo: i sistemi bancari in crisi renderebbero difficile ottenere nuovo credito".

"Terzo: la più lenta risposta dell'export in un contesto concorrenziale nel quale i paesi più avanzati possono giocare sulla qualità dei loro beni e servizi piuttosto che sul prezzo. La spiegazione è semplice: serve tempo (e nuovi investimenti) per sostituire i semi-lavorati importati con produzioni proprie e mentre questa "sostituzione" si determina la concorrenza degli altri paesi avanza con la qualità (a parità di prezzo) dei loro prodotti".

"Quarto: se tutti svalutano nessuno ci guadagna...Nel caso dei paesi deboli dell'eurozona la svalutazione sarebbe contemporanea e a guadagnarci di più sarebbero quelli con le maggiori quote di export destinate all'area euro, quindi l'Italia vedrebbe diluiti di molto gli eventuali vantaggi".

"C'è un ultimo argomento proposto dagli analisti del Centro studi di Confindustria: per esportare di più (dopo aver svalutato) occorre poter contare su un'ampia base industriale capace di produrre beni commerciabili internazionalmente".

L'articolo di Colombo richiama l'attenzione su alcuni aspetti fondamentali della questione, che sorprendentemente sono spesso trascurati nel dibattito pubblico. A partire dall'ovvia considerazione che una valuta serve non solo per vendere, ma anche per comprare. L'Italia è un paese trasformatore, povero di materie prime e fonti energetiche. Una eventuale svalutazione determinerebbe un rilevante aumento dei costi di materie prime, energia e semilavorati.
E' poi perfino banalmente vero che prodotti e servizi sono competitivi non solo per il loro prezzo, ma anche e soprattutto per la loro qualità e che la svalutazione può non compensare la presenza di importanti fattori che diminuiscono la competitività.
Va inoltre sottolineato che difficilmente la risposta produttiva allo stimolo rappresentato dalla svalutazione sarebbe adeguata. Basti pensare, per quanto riguarda i semilavorati, agli ostacoli frapposti dalle istanze di tutela ambientale (chimica di base, siderurgia, monocolture intensive).
Le insufficienti prestazioni del sistema scolastico, la scarsa capitalizzazione e la modesta dimensione delle imprese, la disciplina del lavoro e l'assetto delle relazioni industriali sono altre ragioni che anche in presenza di una svalutazione impedirebbero una efficace reazione del sistema produttivo.
In questa corretta prospettiva la proposta di uscire dall'eurozona appare assolutamente da rigettare. A tal punto questa misura si rivela dannosa da essere segno distintivo fondamentale. Chi la prospetta non riceva il consenso di chi desidera per il paese un genuino sviluppo economico e civile.

venerdì 31 gennaio 2014

L'età dell'oro.



La nostalgia è utile quando ci spinge a cercare i fattori del passato benessere, le ragioni di un successo che vorremmo replicare. Nell'immaginario di molti italiani l'età dell'oro è rappresentata dagli anni Ottanta del secolo scorso. Ma il riferimento a parametri più oggettivi e universalmente apprezzabili, oltre al mito costruito nei media, consente di individuare nel ventennio successivo alla fine della Seconda guerra mondiale vissuto dagli Stati Uniti d'America il periodo per molti versi più favorevole. Il professor Luigi Zingales, nel suo recente Manifesto capitalista, ci fornisce importanti elementi di comprensione:

"...nel 1975, l'americano medio guadagnava il 74% in più di suo padre. Il sogno americano sembrava alla portata di tutti".

"Come ha insegnato Adam Smith, la ricchezza delle nazioni viene determinata fondamentalmente dalla loro produttività. E gli Stati Uniti vantavano un vantaggio di produttività enorme nei confronti del resto del mondo, che consentiva loro di distribuire la ricchezza creata fra la popolazione. Una ragione di questo vantaggio era la tradizione di rispetto della legge e dei diritti di proprietà che ha sempre caratterizzato la nazione e che allora era particolarmente rara nel mondo".

"Un altro fattore cruciale per la superiorità dell'America in termini di produttività era la sua forza lavoro. Grazie alla propria tradizione democratica (anzi, populista), gli Stati Uniti nel dopoguerra erano uno dei Paesi più istruiti del mondo. Nel 1950, quando il 44% della popolazione globale era analfabeta e soltanto l'8,2% aveva conseguito un diploma di scuola superiore, le percentuali corrispondenti negli Stati Uniti erano 2,2 e 37%".

"...lo sforzo bellico aveva imposto alle imprese americane di modernizzare e migliorare la loro produttività, rendendo il Paese la forza industriale di gran lunga preminente nel mondo. L'eccesso di offerta di materie prime nel dopoguerra abbassò il prezzo reale del petrolio, del minerale di ferro e di altre materie prime. I prezzi reali delle materie prime a uso industriale si dimezzarono tra il 1950 e il 1970, consentendo ai cittadini americani di migliorare rapidamente il proprio tenore di vita" (Luigi ZINGALES,  Manifesto capitalista - Una rivoluzione liberale contro un'economia corrotta, 2012, p. 173 e seg.).

Alle condivisibili considerazioni di Zingales si può aggiungere, seguendo la lezione di Tocqueville,  che in quegli anni ormai lontani negli USA ancora era comune e sentito un Cristianesimo capace di richiamare alla responsabilità e all'adempimento dei più elementari doveri, mentre un efficace addestramento alla democrazia si realizzava nelle assemblee e nei comitati. Ne risultava un paese libero e dal benessere sempre più diffuso, sia pure con l'irrisolta questione della effettiva emancipazione dei cittadini di colore. Così si espresse Karl Popper nella sua più importante opera autobiografica:

"L'America  mi piacque fin dal primo istante, forse perchè prima avevo qualche pregiudizio nei suoi confronti. Nel 1950 c'era un senso di libertà, di indipendenza personale, che non esisteva in Europa e che, pensavo, era ancor più forte che in Nuova Zelanda, il paese più libero che io conoscessi" (Karl POPPER, La ricerca non ha fine - Autobiografia intellettuale, 1978, p.132).

La storia non si ripete mai. Ma una attenta riflessione sul passato ci consente di individuare chiavi di lettura promettenti.

venerdì 24 gennaio 2014

Crisi. Così si alimenta l'illusione.





 Due grandi linee di approccio alla crisi si confrontano nel dibattito pubblico.  Alcuni prendono a modello le politiche economiche adottate negli USA e in Giappone. Altri sottolineano i problemi  posti dalla globalizzazione e l'esigenza di ripristinare nella cosiddetta economia reale i presupposti di una produzione competitiva, idonea a creare buona e vitale occupazione.
Questa sostanziale dicotomia si rileva giustapponendo una intervista all'economista Nouriel Roubini su Radio24 a un recente dibattito tra Andrea Montanino e Michele Boldrin.
 Emerge chiara da una parte la sopravvalutazione della crescita negli Stati Uniti. In questi l'incremento del PIL è in buona misura spiegabile con l'aumento delle rimanenze di invenduto, con la ripresa del credito al consumo e con la rivoluzione energetica dello shale gas/oil.  L'occupazione non migliora apprezzabilmente. Aumentano infatti gli occupati a tempo parziale non volontari e gli scoraggiati, mentre i nuovi posti di lavoro sono spesso di bassa qualità, creati prevalentemente nei settori della grande ristorazione, del commercio, dell'assistenza sanitaria e agli anziani, in attesa che il basso costo dell'energia dia maggior slancio alla manifattura. Non si dà inoltre ragguaglio dei rischi derivanti dalla politica monetaria accomodante destinata a venire meno in tempi non lunghi.
Montanino e Boldrin danno invece vita a un dibattito attento ai nodi dell'economia reale, dove scuola, innovazione produttiva, burocrazia, pressione fiscale, spesa pubblica e globalizzazione costituiscono i temi principali. La grande crisi in atto, che non presenta i tratti di quelle cicliche, affonda le proprie radici nei difetti strutturali del sistema paese gettato nella competizione economica globale, accompagnati e in larga misura causati dal fallimento delle principali agenzie educative.
In quest'ultima corretta prospettiva il cosiddetto rigore si rivela non solo causa ma soprattutto conseguenza della crescita insufficiente, tale per la debolezza dei suoi fattori. La natura strutturale della crisi va ben spiegata a chi ne è vittima. Solo da questa precisa consapevolezza si può ripartire. Attribuire all'euro, all'Europa e alla Germania in particolare colpe che sono soltanto nostre non ci aiuterà a risolvere i nostri problemi. Lasciamo questi facili alibi ad economisti inadeguati e a politici spacciatori di illusioni.




venerdì 17 gennaio 2014

Immigrazione. Tra cielo e terra.



Sul Corriere della Sera del 13 gennaio 2014 Angelo Panebianco esamina i nodi principali della politica dell'immigrazione in Italia. Scrive il professor Panebianco:

"...sembriamo incapaci, a causa di certe sovrastrutture ideologiche, di decidere una volta per tutte a quale criterio appendere la politica dell’immigrazione: la convenienza oppure l’accoglienza?".

" L’appello all’accoglienza ha una chiara origine ideologica, nasce dalla confusione, propria di certi cattolici (ma non tutti), e anche di un bel po’ di laici, fra la missione della Chiesa e i compiti degli Stati".

"L’accoglienza non può essere il criterio ispiratore di una seria politica statale. Perché si scontra con l’ineludibile problema della «scarsità »: quanti se ne possono accogliere? Qual è il tetto massimo?".

"L’unico criterio su cui è possibile fondare una politica razionale dell’immigrazione, per quanto arido o «meschino» possa apparire a coloro che non apprezzano l’etica della responsabilità, è dunque quello della convenienza...".

"È evidente che se usiamo il criterio dell’accoglienza non possiamo selezionare. Invece, possiamo, e dobbiamo, farlo alla luce delle convenienze. Di quali immigrati abbiamo bisogno? Con quali caratteristiche, con quali eventuali competenze?".

"... certi gruppi, provenienti da certi Paesi, dovrebbero essere privilegiati rispetto ad altri gruppi, provenienti da altri Paesi, se si constata che gli immigrati del primo tipo possono essere integrati più facilmente di quelli del secondo tipo. È possibile che convenga favorire l’immigrazione dal mondo cristiano-ortodosso a scapito, al di là di certe soglie, e tenuto conto del divario nei tassi di natalità, di quella proveniente dal mondo islamico".

Si tratta di considerazioni largamente condivisibili, purchè non si cada in un grave errore: pensare che tra Cristianesimo e decisione politica si possa e debba porre una barriera insuperabile, non possa e non debba operare una proficua influenza effetto della purificazione delle coscienze a cui questo tende.
Il grande pensiero liberale è da sempre consapevole del legame tra libertà, democrazia e Cristianesimo. Nella Democrazia in America Tocqueville delinea compiutamente la portata storico-civile, sociale  e culturale del Cristianesimo, mettendo in evidenza proprio il suo stretto rapporto con la libertà. Si legga, in particolare, nel Libro Terzo, Parte Prima, Capitolo Quinto:

"Non vi è quasi azione umana, per quanto particolare, che non nasca da un'idea generale che gli uomini hanno concepito di Dio, dei suoi rapporti con l'umanità, della natura dell'anima e dei doveri verso i loro simili".

"Gli uomini hanno, dunque, un immenso interesse a farsi idee ben salde su Dio, l'anima e i doveri generali verso il Creatore e verso i loro simili, poichè il dubbio su questi primi punti abbandonerebbe tutte le loro azioni al caso e li condannerebbe, in un certo senso, al disordine e all'impotenza.
Questa è, dunque, la materia su cui è necessario che ognuno abbia idee ferme, e disgraziatamente è anche quella in cui è più difficile fermare le proprie idee con il solo sforzo della ragione".

"Le idee generali relative a Dio e alla natura umana sono, quindi, fra tutte le idee quelle che è più conveniente sottrarre all'azione abituale della ragione individuale, la quale ha a questo riguardo più da guadagnare che da perdere nel riconoscere un' autorità".

"Per parte mia non credo che l'uomo possa mai sopportare insieme una completa indipendenza religiosa e un'intera libertà politica e sono portato a pensare che, se egli non ha fede, bisogna che serva e, se è libero, che creda".

"....nel Corano non solo dottrine religiose, ma anche massime politiche, leggi civili e criminali e teorie scientifiche. Il Vangelo, invece, parla solo dei rapporti generali degli uomini con Dio e fra loro. Al di fuori di questo non insegna nulla e non obbliga a credere nulla. Questo soltanto, fra mille altre ragioni, basta a mostrare che la prima di quelle due religioni non può dominare a lungo in tempi di civiltà e di democrazia, mentre la seconda è destinata a regnare anche in quei secoli come in tutti gli altri".

Già Montesquieu, che lo stesso Tocqueville riconosceva come maestro, scrisse nel libro ventiquattresimo, capitoli terzo e quarto dello Spirito delle leggi:

"Per quanto riguarda il carattere della religione cristiana e quello della religione musulmana, si deve senz'altro abbracciare l'una e respingere l'altra: perchè per noi è molto più evidente che una religione debba addolcire i costumi degli uomini, di quanto non sia evidente che una religione è la vera".

"E' una sciagura per la natura umana che la religione sia data da un conquistatore. La religione maomettana, la quale non parla che di spada, influisce ancora sugli uomini con quello spirito distruttore che l'ha fondata".

"La religione cristiana è lontana dal dispotismo puro: infatti, essendo la mitezza tanto raccomandata nel Vangelo, essa si oppone alla collera dispotica con cui il principe si farebbe giustizia e metterebbe in pratica le sue crudeltà".

"...dobbiamo al cristianesimo, nel governo un certo diritto politico, e nella guerra un certo diritto delle genti, di cui l'umanità non potrebbe mai essere abbastanza riconoscente."

Occorre invece  che tutti, cristiani compresi, valutino responsabilmente, per quanto possibile, le conseguenze delle proprie decisioni ed azioni. Tale esercizio di responsabilità preclude la confusione tra la missione della Chiesa e i compiti dello stato. L'imposizione a questo dei fini e dei principi che guidano quella rischia spesso di aggravare la povertà e la sofferenza che tutti vogliono ridurre. Lo stesso Tocqueville, vicino al Cattolicesimo ed ammiratore del Cristianesimo, adottò questo  atteggiamento. Nel suo Saggio sulla povertà scrisse infatti:

"Non c’è, a prima vista, un’idea che sembri più bella e più grande che quella della carità pubblica".

 " L’uomo, come tutti gli esseri organizzati, ha una passione naturale per l’ozio. Ci sono pertanto due motivi che lo portano al lavoro: il bisogno di vivere e il desiderio di migliorare le condizioni della sua esistenza".

"Ora, un’organizzazione caritatevole, aperta indistintamente a tutti coloro che sono nel bisogno, o una legge che dà a tutti i poveri, qualunque sia l’origine della loro povertà, un diritto al soccorso pubblico, indebolisce o distrugge il primo stimolo al lavoro e lascia intatto soltanto il secondo".

"Ma sono profondamente convinto che tutto il sistema legislativo, permanente, amministrativo, il cui scopo sarà di provvedere ai bisogni del povero, farà nascere più miserie di quelle che può guarire, depraverà la popolazione che vuole soccorrere e consolare...".

sabato 11 gennaio 2014

Crisi italiana. Produrre meglio per produrre di più.



Il 20 dicembre a Roma in una conferenza organizzata dall'Istituto Affari Internazionali  tra  gli altri è intervenuto Lorenzo Bini Smaghi, ex membro del comitato esecutivo della Banca centrale europea .
Bini Smaghi ha denunciato l'incertezza di politica economica che ostacola gli investimenti e sottolineato la portata della insufficiente produttività che segna l'economia italiana. Il nostro paese perde così quote di export. La mancata crescita è imputabile a vizi strutturali.





Su lavoce.info il professor Fabiano Schivardi ha scritto:

"...il nostro paese è in ritardo nella diffusione delle “best practices”. La sfida della competitività si vince innovando non solo i prodotti, ma anche il modo in cui sono organizzati gli stabilimenti. Opporsi ai cambiamenti significa condannare la manifattura italiana a un declino inarrestabile. È compito della politica fornire un quadro normativo adeguato alla gestione efficiente dei rapporti di fabbrica, a partire dalla riforma del sistema di rappresentanza".

Non basta però una riforma dei rapporti di fabbrica. Le imprese italiane spesso sono sottocapitalizzate, hanno dimensioni inadeguate, mantengono relazioni clientelari con il potere pubblico, non applicano criteri meritocratici, non ricevono dal sistema scolastico giovani preparati, devono fare i conti con infrastrutture scadenti.
Ma anche queste misure strutturali non garantiscono la ripresa dell'occupazione. Lavorare meglio può voler dire lavorare in meno.  Per questo occorre esplorare e valorizzare ogni nicchia, vocazione e potenzialità del panorama produttivo italiano. Lo sviluppo dei servizi non esclude quello della manifattura di qualità. Il successo della filiera agricolo-alimentare deve esaltare la vocazione turistica di territori e città d'arte.
Questa è la via da imboccare con coraggio, abbandonando ogni sterile illusione, non attribuendo ad altri colpe, vizi e ritardi che sono invece degli italiani.


venerdì 3 gennaio 2014

Mazzini e il fascismo italiano. Una contiguità da esplorare.



Bertrand Russell, nato nel 1872 e morto nel 1970, pur avendo esercitato una profonda influenza sulla filosofia del Ventesimo secolo, per educazione e formazione intellettuale è da considerare un uomo del secolo precedente. Conosceva a fondo le idee del Diciannovesimo secolo. Ne diede conto in una delle sue migliori opere divulgative: Freedom and Organization (1934), in italiano Storia delle idee del secolo XIXRussell, che soggiornò in Italia e sapeva l'italiano, qui delineò il pensiero di Giuseppe Mazzini, uno dei padri del Risorgimento italiano:

""La nazionalità" diceva "è per me santa, perchè io vedo in essa  lo strumento del lavoro per il bene di tutti, pel progresso di tutti".
"Dio ha scritto una linea del suo pensiero al di sopra d'ogni culla di Popolo...interessi speciali, attitudini speciali, e, soprattutto, speciali funzioni, una speciale missione da compiere, uno speciale lavoro da fare, per la causa del progresso dell'umanità, sembrano a me le vere caratteristiche della nazionalità".
Una nazione era per lui non un puro aggregato di individui, ma una entità mistica con un'anima sua.
"...il semplice voto di una maggioranza non costituisce sovranità, se avversi evidentemente le norme morali supreme... la volontà del popolo è santa, quando interpreta e applica la legge morale...". Queste dottrine sono state accolte e attuate da Mussolini." (op. cit., 1968, pp. 513, 514 e 517)
.
Russell intuì la contiguità tra la visione di Mazzini ed il fascismo italiano. Significativi in questo senso gli scritti autobiografici di due dei principali esponenti del movimento fascista e  del regime mussoliniano: Giuseppe Bottai, padre della dottrina corporativa, ministro delle corporazioni e dell'educazione nazionale, e Dino Grandi, ministro degli esteri e della giustizia, ambasciatore a Londra.

Giuseppe Bottai:

"In casa mia si parlava spesso di repubblica, di Mazzini..." (Diario 1935 -1944, 1994, p. 38).

Dino Grandi:

"Mio padre si proclamava monarchico, ma adorava Mazzini... Credo di essere... uno dei pochi italiani della mia generazione che abbia letto, o per lo meno sfogliato, per intero i moltissimi volumi delle opere di Mazzini" (Il mio paese. Ricordi autobiografici, 1985, p. 21).

"Da principio ho venerato Mazzini, ma poi, a 30 anni, mi sono innamorato di Cavour e ciò per tutta la vita" (25 luglio. Quarant'anni dopo, a cura di Renzo DE FELICE, 1984, p. 141).

I due più lucidi, colti e intelligenti gerarchi fascisti ricordano la loro formazione mazziniana. Per Grandi arriva presto il consapevole passaggio ad un sostanziale, a lungo clandestino, liberalismo. Esso è segnato appunto dall'innamoramento per Cavour e dalla fine della venerazione di Mazzini.
Con la caduta del regime mussoliniano Mazzini non solo resta tra i padri della patria ma viene collocato tra quelli della nuova democrazia. Una democrazia purtroppo senza influenti e genuini padri liberali.

venerdì 27 dicembre 2013

India. Amore, tradizione e modernità.




In un articolo su Foreign Affairs, L'amore ai tempi di Bollywood, Ira Trivedi dà conto della faticosa rivoluzione dei costumi che segna l'India. Sempre più giovani rifiutano i matrimoni combinati dalle famiglie e vivono, più o meno clandestinamente, relazioni guidate dai sentimenti e aperte alla sessualità. Ma la tradizione e le difficoltà economiche frappongono pesanti ostacoli. I suicidi tra i giovani sono numerosi e i delitti d'onore molto diffusi.
Trivedi individua analogie con l'evoluzione dei costumi negli Stati Uniti d'America degli ultimi due secoli: dal matrimonio d'amore alla libertà sessuale. Sembra con questo suggerire una spiegazione imperniata sulla successione di fasi della modernizzazione, applicabile non solo alle società occidentali. In realtà non tutte le religioni sono uguali, così come diverse sono le tradizioni in ambito familiare e sessuale. 
Sulle religioni cristiana e islamica disponiamo di fonti documentali significative. Il  professor Bernard Lewis, uno dei più autorevoli studiosi dell'Islam e del Medio Oriente del Novecento, nel suo I musulmani alla scoperta dell'Europa ha raccolto le testimonianze di musulmani che hanno visitato l'Europa cristiana dal nono al diciannovesimo secolo. Scrive il grande islamista britannico:

"Dall'esame dei libri di viaggio tramandatici, possiamo asserire che, fino al XIX secolo, i visitatori musulmani in Europa furono tutti, senza eccezione, uomini. Tuttavia, la maggior parte di essi esprime qualche osservazione sul tema della donna e del suo ruolo nella società...: l'istituzione cristiana del matrimonio monogamico, l'assenza di norme sociali che limitino in modo sostanziale la libertà della donna e la considerazione in cui sono tenute anche dalle persone di elevato rango destano immancabilmente meraviglia, sebbene mai ammirazione, nei visitatori provenienti dalle terre islamiche".

"Un fatto che non poteva lasciare indifferenti gli osservatori musulmani sia dell'età medievale che dell'età moderna era, per esprimerci con i loro termini, la licenziosa libertà delle donne e la straordinaria mancanza di virile gelosia negli uomini"

"C'era un connotato della società cristiana che puntualmente sconcertava gli stranieri musulmani: il rispetto con cui venivano trattate le donne in pubblico. Evliya osserva:
In quel paese vidi una cosa straordinaria. Se l'imperatore incontra una donna per strada ed è a cavallo, si ferma e cede il passo alla donna. Se, invece, egli è a piedi e incontra una donna, si ferma in atteggiamento cortese. Poi la donna saluta l'imperatore ed egli si leva il cappello e si rivolge alla donna con deferenza e riprende il cammino solo dopo che ella sia passata. E' uno spettacolo straordinario.
In questo paese, come pure in altre terre degli infedeli, l'ultima parola spetta alle donne, che vengono onorate e riverite per amore di Madre Maria" (op. cit., 2004, p. 351 e segg.).

Emergono chiare le differenti premesse che in Occidente consentiranno il passaggio tutto sommato agevole alla attuale libertà familiare e sessuale.


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