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giovedì 29 novembre 2012

Le Forze Armate italiane tra velleità e tagli.




Non si placano le polemiche sull'acquisto dei caccia F-35. Le tormentate vicende dell'acquisizione contribuiscono a rinfocolarle. La cronaca offre spunti per una riflessione di largo respiro sulle prospettive dello strumento militare italiano. Gary J. Schmitt ha esaminato gli obiettivi e le risorse delle  Forze Armate italiane per l'American Enterprise Institute.  L'Italia, rileva Schmitt, ancora nel 2011 era l'ottava economia del mondo, con una popolazione e un PIL paragonabili a quelli di Regno Unito e Francia. Ma, ormai tradizionalmente, la spesa pro-capite italiana per la difesa è sensibilmente inferiore a quella dei due alleati europei. Dal 2007 le risorse per la formazione e la modernizzazione sono diminuite di oltre il 40% e 30%, rispettivamente.
I tagli imposti dalla preoccupante condizione della finanza pubblica comportano non solo la riduzione degli organici ma anche il ridimensionamento dei principali investimenti già pianificati. Così l'Esercito avrà meno carri armati e artiglieria, la Marina meno fregate FREMM e sommergibili di ultima generazione, l'Aviazione, appunto, meno caccia. Mentre i compiti del nostro apparato militare restano gravosi, le risorse sono ridotte all'osso.
Ciononostante molti si scandalizzano per l'ammontare delle spese per nuovi armamenti. Si propongono altre destinazioni, certo più attraenti ad uno sguardo superficiale. Si grida allo spreco. Ma se continuiamo a ritenere necessario che il paese disponga di Forze Armate, allora dobbiamo destinare una parte adeguata delle risorse pubbliche al mantenimento della loro efficienza. Come ha efficacemente rilevato il ministro della Difesa Giampaolo Di Paola "La sicurezza è un bene condiviso la cui responsabilità è di tutti. Un Paese come l'Italia non può sottrarsi a questo dovere. Le Forze armate possono essere più piccole ma non meno efficienti. Altrimenti si fa prima a chiuderle".
E' evidente che, in quest'ambito, il massimo sperpero del denaro pubblico si ha conservando uno strumento militare comunque assai costoso eppure privato delle risorse indispensabili per il conseguimento dei suoi scopi istituzionali. Senza dimenticare che "La credibilità della forza militare dipende... oltre che dai mezzi di cui essa dispone, dagli uomini che la costituiscono, dalla chiarezza e fermezza politica di chi la governa e dalla solidità del consenso del quale potere politico e Forze Armate possono godere all'interno del Paese" (Piero OSTELLINO, Luigi CALIGARIS, I nuovi militari - Una radiografia delle Forze Armate Italiane, 1983, p. 33).
Purtroppo pare che trovare "chiarezza e fermezza politica" e ottenere "solidità del consenso" sia ancora più difficile che reperire soldi per le Forze Armate.

giovedì 22 novembre 2012

L' esplosione.



In un editoriale sul Corriere della Sera del 20 novembre 2012 il professor Giovanni Sartori, con la franchezza che la fama, l'autorevolezza e l'età gli consentono, denuncia la situazione potenzialmente esplosiva in cui versa la società italiana.

"Se manca il lavoro, chi deve rimediare? Sembra ovvio: lo Stato. Ma lo Stato è già, di per sé, un colossale datore di lavoro. È anche, purtroppo, un cattivo datore di lavoro che spende male, che spende troppo e che, almeno da noi, è intriso di corruzione mafiosa e privata. Anche così è bene che l'opinione pubblica si renda conto della mole di spese che lo Stato deve oggi affrontare".

"Come si vede, lo Stato di costi e di incombenze ne ha. E quando ha pagato gli interessi sui suoi sprovveduti debiti si ritrova senza un copeco in cassa".

"Come si vede, lo Stato ha già di per sé moltissimo da fare e da spendere. Ed è bene che si fermi nell'ambito che ho appena ricordato e che lasci libera la massa di persone che sono o che dovrebbero essere addette alla produzione di beni, nonché dei servizi non serviti dallo Stato".

"...tutte le insurrezioni, tutte le rivolte, presuppongono uno stato di privazione relativa nel quale chi teme una ricaduta nella miseria si ribella. Che poi le ribellioni risolvano i problemi non è detto. Ma intanto avvengono, e non possono essere ignorate".

"In questa situazione una società libera rischia di esplodere e di sfasciarsi".

Questo stato grosso, non grande, è incapace di fronteggiare i gravi problemi che assillano i suoi cittadini, soprattutto più giovani. Tale grosso apparato pubblico spende oggi in Italia 800 miliardi, più della metà del PIL, svolge male i suoi compiti essenziali e soffoca con il suo peso l'impresa ed il lavoro. Da molti decenni è violato il principio fondamentale il cui rispetto rende sostenibile ed efficiente la pubblica amministrazione, quello di sussidiarietà: il potere pubblico deve svolgere soltanto le attività che i privati in forma individuale o associata non riescono a compiere, deve assistere solo chi non può soddisfare da sé i propri bisogni fondamentali.
Questo principio si trova già abbozzato ne La ricchezza delle nazioni di Adam Smith, uno dei grandi precursori del liberalismo:

 " Al primo dovere del sovrano, quello di proteggere la società dalla violenza e dall'aggressione di altre società indipendenti, si può adempiere solo per mezzo di una forza militare."

"Il secondo dovere del sovrano, quello di proteggere, per quanto possibile, ogni membro della società dall'ingiustizia e dall'oppressione di ogni altro membro della società stessa, cioè il dovere di instaurare un'esatta amministrazione della giustizia".

"Il terzo e ultimo dovere del sovrano o della repubblica è quello di erigere e conservare quelle pubbliche istituzioni e quelle opere pubbliche che, per quanto estremamente utili a una grande società, sono però di natura tale che il profitto non potrebbe mai rimborsarne la spesa a un individuo o a un piccolo numero di individui, sicché non ci si può aspettare che un individuo o un piccolo numero di individui possa erigerle o conservarle...opere e istituzioni di questo genere sono principalmente quelle per facilitare il commercio della società e quelle per promuovere l'istruzione della popolazione" (op. cit., Libro quinto).

Mafia, corruzione e sperpero del denaro pubblico hanno moltiplicato le conseguenze di vizi  strutturali comuni a molte altre società occidentali. Mentre la globalizzazione e la competizione con le turbo economie delle nuove potenze precludono il ricorso a misure graduali. Come ha rilevato Sartori, lo sfascio e la deflagrazione diventano prospettive concrete. Sono indispensabili incisive riforme strutturali che restituiscano al sistema sostenibilità e competitività. Ma se gli individui non riescono a recuperare pazienza, buon senso, autocontrollo e responsabilità tutto può essere perduto. 

giovedì 15 novembre 2012

Egemonia culturale e mutamento politico.


Il tentativo di influire sul corso della storia conseguendo l'egemonia culturale non rappresenta certo una novità. Nella Francia del Diciottesimo secolo la battaglia culturale e l'offensiva filosofica condotte dai philosophes e dai club prepararono la Rivoluzione:

"...se l'inizio e le modalità della Rivoluzione molto devono alle circostanze, ossia all'accidentale, mai peraltro un movimento di idee di tale ampiezza e così perfettamente convergenti ha voluto e preparato trasformazioni politiche e sociali come quelle del 1789" (Francois FURET e Denis RICHET, La Rivoluzione francese, 1998, tomo primo, p. 63).




Due secoli dopo il movimento comunista internazionale, guidato dai Sovietici, organizzò un'imponente macchina propagandistica diretta ad influenzare l'opinione pubblica occidentale. Il principale artefice di questa operazione fu Willi Munzenberg:

"Willi era l'eminenza grigia e l'organizzatore invisibile della crociata mondiale antifascista. Era fuggito dalla Germania la notte dell'incendio, aveva stabilito il suo quartier generale a Parigi e iniziato la sua campagna, un evento unico nella storia della propaganda.
Per prima cosa, fondò il "comitato mondiale di soccorso per le vittime del fascismo tedesco", con sezioni in tutta l'Europa e l'America. Veniva presentato come un'organizzazione umanitaria, e aveva in ogni paese una commissione di persone altamente rispettabili, da duchesse inglesi a opinionisti americani e eruditi francesi, che non avevano mai sentito il nome di Munzenberg e pensavano che il Comintern fosse uno spauracchio inventato dal dottor Goebbels.
Questo comitato mondiale, con la sua galassia di celebrità internazionali, divenne il fulcro della crociata. Ci si prendeva grande cura che nessun comunista - a parte pochi nomi di fama internazionale...- fosse pubblicamente collegato con il comitato. Ma il segretariato parigino che gestiva il comitato era un gruppo puramente comunista, capeggiato da Munzenberg, e controllato dal Comintern" (Arthur KOESTLER, La scrittura invisibile, 1991, pp. 227 e 228).
Durante la Guerra fredda i governi delle grandi democrazie occidentali cercarono di ottenere un maggior consenso tra gli intellettuali e favorirono la diffusione delle idee di libertà. Un tentativo in questa direzione, ad altissimo livello, può essere considerata la Mont Pelerin Society, fondata da Hayek, di cui furono membri intellettuali eminenti come Karl Popper e il secondo presidente della Repubblica italiana Luigi Einaudi.
In questa gigantesca competizione per la supremazia culturale ed ideologica prevalse largamente la sinistra. Prese atto della sconfitta lo stesso Popper che il 31 maggio 1970 in una lettera "confidenziale" a Lord Coleraine scrisse:

"Per motivi a me del tutto ignoti, la propaganda di sinistra ha ottenuto una vittoria in quasi tutti i Paesi occidentali che può essere definita solo come completa. Sembra che essi si siano accaparrato il monopolio nel controllo di tutti i "mass-media" (la loro orribile terminologia). Come ciò possa essere accaduto non so... Il vero problema è che nessuno sembra essersi reso conto di ciò che è accaduto: quale tipo di vittoria sia stata conseguita dalla sinistra; neppure gli stessi vincitori ritengono, o si rendono conto, che, per quanto riguarda i mezzi di propaganda, essi sono già diventati la "Classe dirigente"" (Karl POPPER, Dopo La società aperta, 2009, p. 386).

Uscito di scena l'imponente movimento diretto dai Sovietici, certi metodi e inclinazioni rivivono in una vasta e disomogenea area liberal, radicale e antagonista, che oggi trova nella rete spazi e strumenti fino a pochi decenni fa inimmaginabili. Anche nelle migliori componenti di tale area si coglie qualcosa della vecchia e inossidabile aspirazione all'egemonia, perseguita con metodo.

Paolo Mastrolilli su La Stampa del 13 novembre 2012 ha scritto:

"Il giornalismo ha un futuro? Sempre di più, secondo il principale consigliere del presidente Obama, David Axelrod. Lui, infatti, da ora in poi si dedicherà alla formazione di candidati, manager delle campagne elettorali, e giovani giornalisti, determinati a dare il loro contributo alla società occupandosi di politica".

"La dichiarazione di Axelrod, però, ha già acceso una polemica politica. Se è vero che il giornalismo di qualità resta essenziale, cosa ci fa un partigiano come lui ad insegnarlo? Per essere buona, l’informazione non dovrebbe essere oggettiva, obiettiva e neutrale per definizione? O forse l’ex cervello di Obama ha in mente la creazione di una scuola per il giornalismo di parte, finalizzato a fare propaganda per una certa categoria di idee? E’ un problema che preoccupa soprattutto i conservatori, che da decenni denunciano il “bias” favorevole alla sinistra dei media americani".

E' impossibile separare l'informazione dall'educazione, i fatti dalle opinioni, ma si deve considerare la verità come corrispondenza ai fatti un obiettivo da perseguire e da trasmettere alle nuove generazioni. Così Karl Popper, anche in una nota intervista televisiva.  Bisogna inoltre sottolineare l'asimmetricità dell'efficacia di questi  tentativi coordinati di sedurre i cuori e le menti. Essi possono validamente preparare la fine delle tradizioni e degli assetti osteggiati, ma quasi mai l'esito corrisponde alle speranze. A Voltaire e Rousseau seguì Napoleone, l'Unione Sovietica si sciolse, dopo il Sessantotto vennero Ronald Reagan e Margaret Thatcher.
Restano idee alla deriva nella storia, pronte per una nuova utilizzazione, slegate dall'intenzione di chi li ha prodotte. Le austere cattedrali romaniche della Valle Padana sono state costruite anche con i marmi tratti dalle città romane cadute in rovina. Una colonna trovata tra i ruderi di un anfiteatro può ora sostenere la copertura di una chiesa cristiana. Analogamente in molti nostri sogni e aspettative troviamo oggi elementi diffusi con metodica passione parecchi anni fa.


giovedì 8 novembre 2012

Obama o Merkel?


Gli elettori americani hanno scelto la continuità, conferendo a Obama un secondo mandato. Una decisione importante non solo per gli Stati Uniti. Gianni Riotta su La Stampa del 7 novembre 2012 ha scritto:
"La divisione profonda che il nuovo Presidente dovrà affrontare non è colpa dei media, vecchi o nuovi che siano. Scaturisce da interessi diversi, culture opposte, desideri inconciliabili. I repubblicani che mandano i figli a scuola privata, si curano con assicurazioni sanitarie private, vivono in «gated community» dove si entra solo mostrando i documenti e pagano la propria pensione autonoma, trovano ingiusto pagare le tasse,  perché non hanno più dallo Stato servizi sociali comuni. I democratici che vivono di questi servizi, dalla scuola alla sanità alla pensione, temono ogni taglio alla spesa. L’esercito professionale è raro ponte tra le due comunità, i repubblicani presenti con le famiglie tradizionali del Sud, i democratici con i figli delle minoranze povere e urbane. 
Le due coalizioni che si sono scontrate ieri non potrebbero essere più diverse, con Romney maschi bianchi sia ricchi che lavoratori, il ceto medio, Wall Street, l’America rurale, le piccole e medie imprese; con Obama le metropoli delle due coste, i tecnocrati del digitale, le minoranze dagli afroamericani agli ispanici, gli intellettuali e Hollywood, gli operai salvati dal piano auto, i sindacati di scuola e fabbrica. In mezzo le comunità incerte, cattolici, asiatici, anziani e pensionati, professionisti".

Come ben sottolinea Riotta determinanti si sono rivelati non solo gli "interessi diversi" ma anche le "culture opposte" e i "desideri inconciliabili".

Alberto Alesina, sul Corriere della Sera  dell'8 novembre 2012, ha scritto:
"Ed ecco, appunto, la terza strada di Obama: combinare i suoi legittimi desideri di uno Stato sociale relativamente generoso con la stabilità dei conti. Come farlo? Non facile, ma la ricetta è nota.
Concentrare la spesa sociale sui veri deboli e non con aiuti a pioggia; riformare la bomba a orologeria di Medicare; aggredire e non posporre il problema dei sistemi pensionistici pubblici disastrati; semplificare infine un sistema fiscale bizantino eliminando detrazioni e sgravi a questo o quel settore solo perché particolarmente ben rappresentato da qualche lobby.

Lo spazio c'è, come sostenevano gli economisti di Romney. Come europei, ciò di cui abbiamo bisogno non è di un'America che segua politiche che, nel tentativo di far salire di qualche frazione di punto la crescita per un paio d'anni, compromettano ancor di più la sua solidità fiscale. E per di più inondando il mondo di titoli di Stato Usa, per il momento ancora appetibili, ma non si sa per quanto. Abbiamo bisogno invece di un'America prudente, che guidi il mondo occidentale verso un'uscita dai postumi della crisi con politiche lungimiranti, che non spostino sulle generazioni future un costo fiscale esorbitante. Non vogliamo più un'America spendacciona che si fa finanziare dall'estero".




Romney ha perso non solo perchè sono ormai tanti i cittadini USA che hanno bisogno del sostegno pubblico, ma soprattutto perchè molti non dipendenti da tale sostegno, mossi da cultura e desideri, rifiutano di lasciare agli individui la responsabilità del proprio futuro personale

Dirigenti, intellettuali, insegnanti capaci, artisti, giovani non indigenti con una buona formazione scolastica, professionisti urbani, nuovi imprenditori della I. T., cittadini di origine latino-americana dotati di spirito di iniziativa, potevano scegliere tra un progetto di rilancio del paese imperniato su un welfare produttivistico e sostenibile, una pubblica amministrazione meno ampia e invadente, una ridotta pressione fiscale, un assetto giuridico che favorisca gli investimenti privati, e i velleitari, controproducenti e costosi programmi riproposti da Obama.
Questa volta lo hanno sostenuto. Ma non si tratta di un orientamento irreversibile.
Proprio questo settore della società americana fa la differenza. Ad esso deve essere indirizzato lo sforzo di chi vuole evitare il declino. Ancora una volta si rivelano decisive la battaglia culturale e l'attenzione per i giovani. Chi si rivolge ad essi nel modo sbagliato resta deluso.


Un'alternativa in sostanza analoga si presenta in Europa, anche se populismo e demagogia caratterizzano ormai pure importanti settori della destra. Qui l'alternativa alle costose illusioni di chi spera in una crescita finanziata con il prelievo fiscale e l'indebitamento pubblico è rappresentata dalla visione più volte delineata dalla cancelliera tedesca Merkel:

" L’Europa ha bisogno di più crescita e più occupazione: anche in futuro deve potersi affermare nella concorrenza mondiale. Io voglio che l’Europa, anche fra venti anni, sia apprezzata per il suo potenziale innovativo e per i suoi prodotti. Si tratta di come noi riusciremo ad affermarci in futuro nell’era della globalizzazione, e quindi a garantire anche in futuro il nostro benessere".

"Gli investitori di lungo periodo, che investono il denaro di tanta gente, vogliono sapere quale sarà la condizione dell’Europa fra venti anni. La Germania, con le sue trasformazioni demografiche, sarà ancora competitiva? Saremo aperti alle innovazioni?"

Quello auspicato da Merkel è uno sviluppo fondato sugli incrementi di produttività, su qualità e innovazione di prodotto, welfare sostenibile,  pressione fiscale contenuta, spesa pubblica sotto controllo,  pubblica amministrazione efficiente, scuola attenta alle esigenze del mercato del lavoro. La scelta è tra questo programma e le illusioni spacciate da quanti si rifiutano di richiamare alle proprie responsabilità chi non ha davvero bisogno del sostegno pubblico. Si tratta di politici, intellettuali e sindacalisti in cerca di un facile successo, a spese del paese, dei giovani, delle future generazioni.

giovedì 1 novembre 2012

Liberali e cattolici contro il nazionalismo.



Negli ultimi due secoli l'esaltazione dell'idea di nazione e della nazione, la miope difesa dei suoi pretesi interessi e l'applicazione del principio di autodeterminazione hanno prodotto conseguenze perverse. I liberali e i cattolici intendono tutelare la libertà degli individui, della famiglia e delle altre formazioni sociali. Attribuiscono pari dignità a tutti gli uomini e devono avversare ogni forma di nazionalismo.

Nel Tradimento dei chierici, libro più citato che letto, Julien Benda osservò che:

"Questa esaltazione del particolarismo nazionale, così imprevista in tutti i chierici, lo è ancor di più in quelli che ho chiamato i chierici per eccellenza: gli uomini di Chiesa. Colpisce in modo particolare vedere come, coloro che per secoli hanno esortato gli uomini, almeno teoricamente, a mortificare il senso delle loro differenze per cogliersi nella divina essenza che li riunisce tutti, si mettono a lodarli, a seconda del luogo del sermone, per la loro "fedeltà all'anima francese", per l'"inalterabilità della loro coscienza tedesca", per il "fervore del loro cuore italiano""(ed. 2012., pp. 129 e 130).

E Karl Popper, ne La società aperta e i sui nemici, sostenne

"Il completo ripudio del principio dello stato nazionale (un principio che deve la sua popolarità esclusivamente al fatto che si rivolge agli istinti tribali e che è il meno costoso e più sicuro metodo con cui può affermarsi un politico che non abbia niente di meglio da offrire) e il riconoscimento della demarcazione necessariamente convenzionale di tutti gli stati, insieme con la convinzione che gli individui umani e non gli stati o le nazioni devono costituire la preoccupazione ultima anche delle organizzazioni internazionali..." (nota 7/1 al Capitolo nono).

Lo stesso Popper in Congetture e confutazioni scrisse:

"L'assoluta assurdità del principio dell'autodeterminazione nazionale dev'essere palese a chiunque si sforzi anche solo per un momento di criticarlo. Tale principio equivale all' esigenza che ogni stato sia uno stato nazionale; che sia limitato da un confine naturale, e che questo coincida con la naturale dimora di un gruppo etnico; sicchè dovrebbe essere il gruppo etnico, la "nazione", a determinare e a proteggere i confini naturali dello stato. Ma degli stati nazionali di questa specie non esistono".

"Gli stati nazionali non esistono, semplicemente, perchè non esistono le cosiddette "nazioni" o "popoli", sognati dai nazionalisti. Non si trovano se non assai raramente dei gruppi etnici omogenei che siano vissuti a lungo in paesi dai confini naturali. I gruppi etnici e linguistici (i dialetti corrispondono spesso a barriere linguistiche) sono strettamente mescolati ovunque".

"Ovunque esistono delle minoranze etniche. Il giusto proposito non dev'essere quello di "liberarle" tutte, ma piuttosto di proteggerle tutte". ( ed. 2000, pp. 623 e 624).

Assistiamo a un tentativo di ristrutturazione degli schieramenti politici italiani, di rinnovamento della proposta politica. Pare utile fissare, anche ruvidamente, alcuni principi. E' infatti vivissimo il rischio che prevalgano la demagogia, le concessioni agli istinti tribali e i particolarismi. Occorre comprendere che la tutela della libertà individuale, del mercato e della concorrenza, dei più svantaggiati può essere conseguita solo superando il feticcio della sovranità nazionale. Il confronto è oggi globale. L'Unione europea e la comunità euro-atlantica offrono il quadro e gli strumenti necessari per difendere tradizioni, regole fondamentali e istituzioni che hanno a lungo consentito una larga diffusione del benessere nella libertà.
E' buona cosa amare il proprio paese, rispettando negli altri il medesimo sentimento. Ma le ossessioni identitarie rappresentano ostacoli che precludono il ricorso a misure efficaci. Politici ed intellettuali devono evitare di incrementarle e vellicarle. Il facile consenso che può seguire non dà mai buoni frutti.






giovedì 25 ottobre 2012

Giuseppe Bottai. Dal Regime alla Legione.





Giuseppe Bottai nacque a Roma nel 1895 in una famiglia di commercianti. Ricevette un'educazione di stampo risorgimentale mazziniano. Dopo il liceo si laureò in giurisprudenza.
Nel 1915 si arruolò vontario. Combattè sul Carso e sul Grappa, entrando poi nel corpo degli arditi. Come molti altri giovani della sua generazione l'esperienza della Grande Guerra lo segnò profondamente, esaltando alcuni tratti della sua personalità. "La guerra è per lui desiderio di misurarsi, combattere e vincere, una volontà di fare che trovi attuazione immediata, tangibile" (Giordano Bruno GUERRI, Introduzione a Giuseppe BOTTAI, Diario 1935 - 1944, 1994, pag. 8).
Dopo la guerra Bottai aderì al Fascismo. "Il combattimento e il comando gli hanno confermato il gusto per l'azione e la capacità del comando, la sua voglia di "fare"... nessuno, fra i grandi gerarchi - tranne, al polo opposto, Starace - subì così fortemente il fascino di Mussolini" (G. B. GUERRI, op. cit., pag. 9). Nel 1921 fu eletto deputato per il Partito Nazionale Fascista. L'anno successivo partecipò alla Marcia su Roma. Fautore della "socializzazione della libertà", della nazionalizzazione delle masse, del partito unico e di una dittatura oligarchica, per le sue doti intellettuali, la sua capacità di lavoro e l'integrità morale rappresentò a lungo un fiore all'occhiello del regime mussoliniano, assumendo l'incarico di ministro delle Corporazioni e poi dell'Educazione nazionale. Le sue riviste Critica Fascista e Primato ospitarono molti giovani intellettuali ed artisti, consentendo l'esercizio di una prudente critica al regime.
Avversò l'alleanza con la Germania e l'entrata dell'Italia nella Seconda guerra mondiale, pur non opponendosi alle "Leggi razziali", da lui applicate come ministro dell'Educazione. Con Grandi e Ciano redasse l'ordine del giorno votato dal Gran Consiglio del Fascismo a seguito del quale Mussolini cadde il 25 luglio 1943.
Scrive Bottai nel suo Diario:

"24 LUGLIO 1943 - Giornata attesa con drammatica commozione. A un bivio. Il nostro dovere ci ha messo a un bivio, tra Paese e Partito, tra Italia e Regime, tra Re e Capo. Tanto duro lavoro per unire, cementare, fondere, fare di due uno nella coscienza una; e, oggi, questo essere a un bivio, e un decidere che separa, dentro, che torce, che dilania. Ma è il dovere" (G. BOTTAI, op. cit., pag. 404).

Dopo la caduta di Mussolini si nascose in un convento fino all'ingresso a Roma degli Alleati. Nel 1944 si arruolò nella Legione straniera francese. Combattè contro i tedeschi in Francia e Germania. Dopo la guerra fu trasferito in Nord Africa. Rientrò in Italia nel 1948. Non riprese la politica attiva ma vagheggiò "un incontro tra sinistra, forze cattoliche e "buoni" conservatori" (G. B. GUERRI, op. cit, pag. 18).
Giuseppe Bottai morì a Roma, colpito dal morbo di Parkinson, nel 1959.

In Italia, dalla sua unificazione, nessun importante movimento politico si è definito conservative, conservatore. E con ragione. Cosa si doveva e si deve conservare? Il paese ha raggiunto tardi e male l'unità, è stato retto per un ventennio dal regime mussoliniano, ha ospitato il più grande e astuto partito comunista occidentale, ha conosciuto una democrazia parlamentare bloccata ed inefficiente fino allo scioglimento dell'Unione Sovietica, è oggi afflitto da una profonda crisi non solo economica ma anche politico-istituzionale e morale. Di cosa dunque possiamo vantarci?
Giuseppe Bottai fu onesto, colto e  coraggioso, ben più di molti altri italiani. Ma con i suoi errori e i suoi difetti rappresenta bene un paese che anche  con la sua parte migliore non riesce a risolvere i propri problemi e le proprie contraddizioni. Quello che rimane irrisolto è prima di tutto il nostro rapporto con la modernità, mai davvero accolta in profondità, nel modo giusto, con strumenti culturali ed istituzionali adeguati.
L'Italia di oggi, coi suoi vizi strutturali, è chiamata a reggere la globalizzazione, a fronteggiare una competizione globale. Solo riflettendo coraggiosamente sulla propria diversità può migliorare prospettive che paiono inquietanti.

giovedì 18 ottobre 2012

Italia: il merito e il bisogno.


Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, due tra i più lucidi intellettuali liberali italiani, hanno più volte denunciato i gravi difetti dello Stato sociale italiano che "si è trasformato in una macchina che tassa le classi medio-alte e fornisce servizi non solo ai meno abbienti (com'è giusto che sia) ma anche alle stesse classi a reddito medio-alto. Questo giro di conto, con aliquote alte, scoraggia il lavoro e la produzione".
"Che senso ha tassare metà del reddito delle fasce più alte per poi restituire loro servizi gratuiti? Meglio che li paghino e contemporaneamente che le loro aliquote vengano ridotte. Aliquote alte scoraggiano il lavoro e l'investimento" (Corriere della Sera, 23 settembre 2012).
La pressione fiscale italiana resta altissima, ostacolando una adeguata crescita economica,  per finanziare un welfare che manca il suo obiettivo essenziale: sostenere chi non ce la fa da solo, dare agli indigenti un aiuto adeguato. La gravità della situazione è rappresentata con chiarezza nel Rapporto 2012 su povertà ed esclusione sociale in Italia della Caritas Italiana ed è stata ben delineata dallo stesso Corriere della Sera:

"C'è una «evidente incapacità» dell'attuale sistema di welfare a farsi carico delle nuove forme di povertà, delle nuove emergenze sociali derivanti dalla crisi economico-finanziaria".

"Negli ultimi 3 anni, dall'esplosione della crisi economica, si legge nel Rapporto, c'è stata un'impennata degli italiani che si sono rivolti ai centri Caritas: aumentano casalinghe (+177,8%), anziani (+51,3%) e pensionati (+65,6%)".

I liberali aspirano a una società libera, grande, buona. Non possono rimanere indifferenti davanti alla sofferenza umana. Tale indifferenza non appartiene al miglior pensiero liberale. Ha scritto Karl Popper ne La Società aperta e i suoi nemici (vol. II, capitolo ventiquattresimo, 3):

"La richiesta politica di metodi gradualistici (in opposizione ai metodi utopistici) corrisponde alla decisione che la lotta contro la sofferenza dev'essere considerata un dovere, mentre il diritto di preoccuparsi della felicità degli altri dev'essere considerato un privilegio limitato al ristretto cerchio dei propri amici".

"La pena, la sofferenza, l'ingiustizia e la loro prevenzione, questi sono gli eterni problemi di morale pubblica, gli "agenda" della politica pubblica... I valori "superiori" dovrebbero essere in larghissima misura considerati come "non agenda" e dovrebbero rientrare nell'ambito del laissez-faire".

In Italia il merito non è premiato. La difesa di corporazioni e privilegi blocca la crescita e preclude una sufficiente mobilità sociale. La concorrenza regolata da norme chiare, semplici e ragionevoli spesso non è neppure auspicata. Mentre il bisogno non trova adeguato sollievo. Occorre che merito e bisogno si incontrino e si comprendano, riportando sulla via dello sviluppo un paese oggi in declino.

giovedì 11 ottobre 2012

Cina e Giappone. Una contesa con esclusione di colpi.



Sono tuttora aperte controversie tra Giappone, Russia, Corea del Sud e Cina sulla sovranità di alcune isole. Il Giappone contende le Curili/Kiril alla Russia, le Dokdo/Takeshima alla Corea del Sud, le Senkaku/Diaoyu alla Cina. Quest'ultima disputa desta oggi le maggiori preoccupazioni.
Sulla questione è disponibile un interessante articolo de La Voce della Russia, che ha sostituito la Radio Mosca dell'Unione Sovietica.
Scrive Vasilij Kašin della redazione online:

"La crisi attorno alle isole Senkaku, conosciute in Cina come isole Diaoyutai, ha scatenato nei media cinesi e giapponesi pubblicazioni che inneggiano alla forza.
In realtà, però, siamo molto lontani da un conflitto armato. Le parti stanno facendo il possibile per escludere uno sviluppo della situazione in questo senso".

"In Cina si ritiene che il Giappone sia legato da un accordo di sicurezza agli Usa, i quali hanno confermato di essere pronti a sostenere il Giappone in caso di conflitto. Accanto alle condizioni politiche, la Cina non ha al momento le possibilità militari per stabilire un controllo sulle isole Senkaku".

"Se la disputa intorno alle isole passerà alla fase calda, per la flotta e l’aeronautica cinese sarà una umiliante sconfitta. Secondo la maggior parte degli esperti, al momento, i giapponesi godono di una grande superiorità materiale e una enorme superiorità per quanto riguarda la preparazione del personale. I cinesi non hanno ancora approvato i nuovi sistemi, il grado di preparazione dell’equipaggio lascia aperte molte questioni.
Non bisogna nemmeno esagerare il ruolo di ricostruzione della portaerei Varjag. La nave non avrà nel breve periodo un ruolo militare. L’esperienza di costruzione della flotta oceanica sovietica negli anni 1960-70 dimostra che si tratta di un lavoro che bisogna portare avanti senza interruzione per alcuni anni, prima di ottenere dei risultati. La Cina ha bisogno di una Flotta importante per la difesa delle comunicazioni marine e delle proprie acque territoriali, ma non bisogna aspettarsi risultati immediati".

Si tratta di valutazioni tutto sommato condivisibili. Probabilmente i dirigenti cinesi perseguono prima di tutto obiettivi di politica interna. Il regime ha oggi bisogno di ravvivare i già forti sentimenti nazionalisti. Ma è presente anche l'intenzione di mettere alla prova l'alleanza USA - Giappone, alla cui solidità e vitalità guardano con attenzione gli altri alleati asiatici degli Stati Uniti.
Sullo sfondo il tema della tecnologia militare e della esportazione di armi. In questo settore la Cina è ormai diventata il più abile e spregiudicato competitore della Russia. La consultazione del fondamentale database di SIPRI.org consente di individuare consolidate tendenze nella esportazione mondiale di armi. Perfino in Iran e Zimbabwe l'industria degli armamenti cinese  ha trovato sbocchi. Un punto di frizione tra le due potenze destinato a diventare sempre più importante.                                                                            

giovedì 4 ottobre 2012

Piero Melograni. Totalitarismi reazionari e potenti impotenti.




 Il 27 settembre 2012 è morto a Roma, dove era nato, il professor Piero Melograni. Eminente storico dell'età contemporanea, ha insegnato a lungo all'Università di Perugia. Uscito dal Partito comunista italiano dopo la sanguinosa repressione della Rivoluzione ungherese compiuta dai Sovietici nel 1956, è diventato uno dei più brillanti intellettuali liberali italiani. Nel 1996 è stato eletto in Parlamento come indipendente nelle liste di Forza Italia.
I suoi studi sulla Prima guerra mondiale e sul Ventennio mussoliniano hanno contribuito incisivamente al progresso della storiografia italiana. Ma sono da ricordare anche i suoi saggi che costituiscono il frutto di una riflessione di largo respiro sulla storia, in particolare sul passaggio dalla civiltà agricola a quella industriale, dalla società chiusa alla società aperta. 
In Fascismo, comunismo e rivoluzione industriale (1984)  Melograni pone in evidenza i tratti reazionari di fascismo e comunismo:

"...il fascismo, il comunismo e la rivoluzione industriale. Fra questi tre fenomeni esiste un nesso molto stretto. La rivoluzione industriale è la rivoluzione più sconvolgente del nostro tempo: comunismo e fascismo costituiscono due forme di reazione contro di essa" (pag. 1).

"Le società capitalistico-industriali hanno offerto un grado superiore  di libertà. Ma lo hanno offerto grazie agli elementi di instabilità e disordine in esse presenti. Occorre riconoscere che proprio da questa interdipendenza fra disordine e libertà sono scaturiti i problemi più drammatici per il mondo nuovo" (pag. 6).

"Le masse apprezzano i vantaggi materiali offerti dal mondo nuovo, ma temono di pagare un prezzo troppo alto in termini esistenziali. In realtà le masse, e anche le élites, non possiedono ancora una cultura che le aiuti a vivere nel mondo nuovo".

"Il mondo nuovo vorrebbe il paradiso in terra, e non lo trova" (pag. 7).

Sono considerazioni in larga misura riconducibili alla più ampia teorizzazione esposta da Karl Popper nella Società aperta e i suoi nemici già durante la Seconda guerra mondiale:

nella Grecia del sesto secolo avanti Cristo "troviamo i primi sintomi di un nuovo disagio. Si cominciò a sentire l'effetto stressante  della civiltà. Questo effetto stressante, questo disagio, è una conseguenza del collasso della società chiusa. Esso è avvertito anche ai nostri giorni, specialmente in periodi di mutamenti sociali. E' l'effetto stressante prodotto dallo sforzo che la vita in una società aperta e parzialmente astratta richiede continuamente da noi - con l'esigenza di essere razionali, di rinunziare ad alcuni almeno dei nostri bisogni sociali emozionali, di badare a noi stessi  e di accettare le responsabilità"  (ed. 1973, rist. 1981, vol. I, cap. decimo, pp. 248 e 249).

Con Popper Melograni rileva il carattere reazionario dei totalitarismi del Novecento, che rappresentano una reazione alla società aperta incipiente. 
Un'altra opera dello storico romano mostra l'ampiezza e la profondità della sua riflessione storica. Nel Saggio sui potenti Melograni offre una visione realistica della storia:

"Ma in tutti i luoghi l'assetto politico-sociale è il risultato di tendenze e di forze numerose e complesse, materiali e spirituali, razionali e irrazionali, difficilmente controllabili. Nel continuo, intricato, ondeggiante accavallarsi di tutte queste forze e tendenze deve essere cercata la spiegazione delle diverse situazioni storiche nelle quali gli individui e le collettività si trovano concretamente ad operare. Gli stessi capi... sono profondamente condizionati e spesso addirittura travolti dalla circostante realtà" (ed.1977, pag. 123).

Come spesso accade durante i periodi di crisi, anche oggi le teorie del complotto e della cospirazione fuorviano l'attenzione, distogliendola da problemi ed errori sotto gli occhi di tutti. La lezione del Saggio sui potenti rappresenta un antidoto contro questa tendenza irrazionale che affligge l'opinione pubblica proprio quando la lucidità appare più necessaria.

giovedì 27 settembre 2012

Un nuovo welfare per tornare a crescere.



"Ci sono voluti decenni prima che ci accorgessimo che occorreva adeguare l'età di pensionamento all'allungarsi della vita media: nel frattempo la spesa per pensioni è cresciuta dall'8 per cento del Prodotto interno lordo (Pil) nel 1970 a quasi il 17 per cento oggi.
L'allungamento della vita ha anche prodotto un aumento delle spese per la salute. Un anziano oltre i 75 anni costa al sistema sanitario ordini di grandezza superiori rispetto a persone di mezza età. Risultato, la nostra spesa sanitaria oggi sfiora il 10 per cento del Pil. Insieme, sanità e pensioni costano il 27 per cento, 10 punti più di quanto costavano quando il nostro Stato sociale italiano fu concepito".

"A questo aumento straordinario non abbiamo fatto fronte riducendo altre spese (ad esempio quella per dipendenti pubblici, che era il 10 per cento del Pil 30 anni fa ed è rimasta il 10 oggi), bensì solo con un aumento della pressione fiscale: dal 33 per cento quarant'anni fa al 48 oggi.
È questo uno dei motivi per cui abbiamo smesso di crescere. Avevamo uno Stato calibrato per una popolazione relativamente giovane; poi la vita si è allungata, le spese sono salite, ma lo Stato è rimasto sostanzialmente lo stesso, richiedendo una pressione fiscale di 15 punti più elevata".

"Dobbiamo ripensare più profondamente alla struttura del nostro Stato sociale. Per esempio, non è possibile fornire servizi sanitari gratuiti a tutti senza distinzione di reddito. Che senso ha tassare metà del reddito delle fasce più alte per poi restituire loro servizi gratuiti? Meglio che li paghino e contemporaneamente che le loro aliquote vengano ridotte".

"Insomma, il nostro Stato sociale si è trasformato in una macchina che tassa le classi medio-alte e fornisce servizi non solo ai meno abbienti (com'è giusto che sia) ma anche alle stesse classi a reddito medio-alto. Questo giro di conto, con aliquote alte, scoraggia il lavoro e la produzione".

Alesina e Giavazzi sul Corriere della Sera del 23 settembre 2012 affrontano così una questione decisiva: lo Stato sociale italiano è sostenibile e compatibile con una crescita economica non irrilevante? I numeri davvero spaventano. La spesa pubblica italiana ammonta  a circa 800 miliardi di euro, oltre la metà di un PIL che ormai non supera 1.500 miliardi di euro. Se non viene abbattuta, dovendosi raggiungere il pareggio del bilancio la pressione fiscale reale non potrà scendere molto sotto il 50% del PIL.
E' del tutto evidente che la cessione di parte del patrimonio pubblico, con la destinazione del corrispettivo alla riduzione dello stock del debito pubblico, non appare risolutiva. Tale misura non solo è irrealizzabile in breve tempo, ma soprattutto incide sulla spesa corrente diminuendo, forse, il peso del servizio del debito pubblico. Un risparmio certamente insufficiente. Per abbattere la spesa pubblica e quindi abbassare adeguatamente la pressione fiscale bisogna ristrutturare i suoi settori più ampi, che corrispondono appunto al welfare e alla spesa per dipendenti pubblici.
Ridisegnare il welfare italiano nel senso indicato dai professori Alesina e Giavazzi consentirebbe assai probabilmente di ridurre e redistribuire il carico fiscale, in modo da ripristinare una delle necessarie premesse della crescita. Ma si rivelerebbe vantaggioso anche in un' altra fondamentale prospettiva. La scelta diretta dei fornitori di servizi da parte dei fruitori, con un' ampia e variegata offerta pubblica e privata, premiando il merito e la qualità, contribuirebbe significativamente a incrementare l' efficienza degli operatori e la competitività dell' intero sistema paese.
Ci sono ostacoli che si frappongono all' attuazione di questa riforma epocale. Essa collide con la consolidata mentalità statalista, conservatrice e illiberale di una parte rilevante del ceto medio italiano. Bisogna poi menzionare la tradizionale incapacità di far emergere ed accertare i redditi reali. Se  non si pone rimedio a questa inadeguatezza il progetto è destinato a provocare resistenze in larga misura condivisibili e a determinare conseguenze inaccettabili.
E' inoltre necessaria un' attenta disciplina pubblica dell' offerta previdenziale ed assicurativa  privata. Basti pensare all' assicurazione sanitaria di chi già è affetto da gravi malattie o è portatore di importanti fattori di rischio. In questi casi bisogna rendere sempre possibile l' accesso allo strumento assicurativo privato, con la previsione di un premio sostenibile.
Si deve infine accennare a un' altra questione fondamentale. Occorre fare in modo che la tutela pubblica di chi per reddito ottiene servizi gratuiti si estenda alla dignità che accomuna tutti i cittadini secondo la Costituzione. Si deve costruire uno Stato sociale capace di garantire i diritti costituzionali dei più svantaggiati.

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