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venerdì 31 agosto 2012

I liberali e l'Europa.


Non pochi liberali italiani giudicano negativamente l'Unione Europea e la sua moneta unica, l'euro. Criticano la burocrazia europea, le istituzioni e le regole farraginose, la carenza di legittimazione democratica, l'inefficiente allocazione delle risorse direttamente o indirettamente realizzata, il ruolo della Germania, il peso costituito da una valuta che considerano commisurata ai bisogni dei paesi più influenti e meno fragili sotto il profilo economico. Carlo Stagnaro, dell'Istituto Bruno Leoni, su L'Occidentale (intervista di Edoardo Ferrazzani)  indica invece buone ragioni che dovrebbero indurre i liberali a difendere la moneta unica e a sostenere l'integrazione europea:

"Non credo che la crisi sia necessariamente fatale per l'euro. Anzi, per certi versi la crisi è segno del fatto che l'euro funziona e costringe i paesi che vi aderiscono a rispettare una disciplina finanziaria che precedentemente era sconosciuta a molti di loro. Il malumore anti-euro è spesso figlio di una sorta di "blame game" dei politici europei, che scaricano sulla moneta unica la colpa di un fallimento che invece è tutto delle nostre classe dirigenti: l'incapacità di garantire nei rispettivi paesi un pareggio strutturale di bilancio e la tendenza ad alimentare una spesa pubblica incontrollata, finanziata in buona parte a debito".

"L'Europa per uscire dalla crisi ha un'unica strada, cioè ridurre la spesa pubblica. In questa fase non è tanto una questione di cultura quanto una questione di necessità. Le conseguenze dell'operazione dipendono molto da quanto e come si taglia, ma che si debba farlo almeno un po' è, credo, indiscutibile e chiaro a tutti (inclusi quelli che opportunisticamente vi si oppongono). Sarebbe utile che questo intervento necessario fosse metabolizzato culturalmente, ma non è affatto detto e se accadrà dipende molto dalla maturità del dibattito politico nei vari paesi".

"...se il modello di business di molte imprese è basato anche sull'evasione, difficilmente esse possono crescere, perché crescendo diventano visibili e devono strutturarsi e ciò rende complicato mantenere una parte dei loro ricavi sommersa. Ma l'evasione è a sua volta conseguenza di un fisco troppo oneroso e troppo complicato. Lo stesso vale per lo scarso rispetto di molte norme e regolamenti: per essere davvero rispettati, dovrebbero anzitutto essere rispettabili..."

"Le infrastrutture non servono in assoluto: servono quando sono utili. Generalmente, lo Stato finanzia cattedrali nel deserto. L'Italia dovrebbe lasciare ai privati il compito di investire in infrastrutture, scegliendo quali siano prioritarie, e concentrarsi sull'infrastruttura più importante: creare un quadro giuridico stabile e favorevole agli investimenti".

Nelle parole di Stagnaro si ravvisa il nucleo di un'alternativa liberale per uscire dalla crisi. Tale alternativa dovrebbe comprendere una riforma in senso produttivistico del welfare. "Tre sono gli ingredienti principali di questo modello: priorità all'istruzione e alla formazione; regolazione pubblica (ad esempio, obbligo di assicurazione medica o previdenziale), ma fornitura di prestazioni da parte di soggetti privati, tramite i canali del mercato; copertura gratuita solo per i più poveri (Maurizio Ferrera, Corriere della Sera, 10 maggio 2004)".

E i diritti costituzionali? Leggiamo davvero la Costituzione italiana:

"La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti" (art. 32).

L'Europa e l'Italia in particolare sono di fronte a un bivio. La via sbagliata conduce al declino. Tempi e modi devono essere scelti con attenzione, ma la direzione deve essere quella giusta. 

venerdì 24 agosto 2012

La Chiesa cattolica e gli Ebrei alla vigilia della Seconda guerra mondiale. Enrico Caviglia.

Periodicamente si riaccende la polemica sull'atteggiamento della Chiesa cattolica nei confronti degli Ebrei  e del regime nazista. Nei convulsi anni che precedettero la Seconda guerra mondiale la Chiesa cattolica si oppose fermamente all'ideologia e ai crimini del regime nazista tedesco. Sono da ricordare in particolare l'enciclica Mit brennender Sorge di papa Pio XI e l'eroico comportamento del vescovo Clemens August von Galen, poi cardinale.









La posizione della Chiesa era ben chiara ai contemporanei. Enrico Caviglia, uno dei più brillanti generali del Ventesimo secolo, colto e lucido osservatore, scrisse nel suo diario (I dittatori, le guerre e il piccolo re - Diario 1925 - 1945, 2009, pp. 226 e 227):


10 febbraio 1939

"E' morto il Santo Padre Pio XI...In generale la morte del Pontefice è sentita. Il suo atteggiamento in favore degli ebrei ha fatto un'ottima impressione in tutto il mondo, e l'autorità morale della Santa Sede ha acquistato influenza anche presso le altre religioni.
Oggi il Re è andato verso le 19 a visitare la salma. Mussolini non è andato: forse non ha voluto dare un dispiacere a Hitler".

2 marzo 1939

"In questi ultimi tempi l'autorità della Chiesa è accresciuta in tutto il mondo per aver difeso a viso aperto gli ebrei e la religione. Impressione enorme ha fatto il vecchio Papa, quasi morente, che dà per radio un messaggio a tutto il mondo in difesa degli ebrei. Pacelli fu il suo segretario e consigliere".


L' autorevole giudizio di Caviglia era allora largamente condiviso. Solo dopo la Seconda guerra mondiale, nell'ambito della durissima battaglia politico ideologica, si pose in dubbio ciò che non era dubbio.

mercoledì 15 agosto 2012

La cattiva proposta politica.


In un editoriale sul Corriere della Sera Sergio Romano ha scritto:

" In tempi di crisi economiche e forte conflittualità politica la zona intermedia si è ristretta e le soluzioni più radicali, di destra o di sinistra, esercitano una maggiore attrazione.

Potremmo consolarci pensando che i vincitori saranno costretti a tenere conto della realtà e ad annacquare i loro programmi. Nessuno oggi, nemmeno il presidente degli Stati Uniti, può fare una politica economica che prescinda da una pluralità di incontrollabili fattori esterni, dal futuro dell’euro a quello del sistema politico cinese. Ma un governo che non mantiene le promesse elettorali avrà l’effetto, soprattutto in questo momento, di esasperare le delusioni degli elettori che a quelle promesse avevano creduto e di alimentare i movimenti dell’anti-politica, oggi presenti in tutti i Paesi occidentali. Abbiamo già una grave crisi dell’economia e corriamo il rischio di avere domani, di questo passo, una crisi peggiore: quella della democrazia".

Romano qui pone in evidenza un tema importante. La proposta e la propaganda politiche possono danneggiare durevolmente il processo democratico, possono contribuire a determinare la crisi della democrazia liberale rappresentativa.
Ma il danno si verifica non, come sembra sostenere l'editorialista del Corriere, per la radicalità delle soluzioni proposte o semplicemente quando le promesse elettorali non vengono mantenute. Bisogna essere ben consapevoli del ruolo e delle possibilità della democrazia rappresentativa. Il suo fondamento resta il principio enunciato da Pericle nell'Atene democratica, poi ripreso e teorizzato da Karl Popper nella Società aperta e i suoi nemici : "Benchè soltanto pochi siano in grado di dar vita a una politica, noi siamo tutti in grado di giudicarla". Non tutti possiamo governare, ma tutti possiamo giudicare chi governa.
In una democrazia liberale efficiente l'elettorato non può e non deve contribuire a formulare la politica futura. E' invece giudice della politica realizzata, contribuisce a manutenere tale democrazia mandando a casa i cattivi governi senza spargimento di sangue. "Dar vita a una buona politica" vuol dire fronteggiare rischi ed eventi imprevisti, prendere misure impopolari, compiere scelte che presuppongono conoscenze non diffuse, tener conto della complessità dei problemi e delle normali conseguenze impreviste degli atti di governo. Un governo democratico non può e non deve essere vincolato dalle promesse elettorali. La sua democraticità si esprime nella soggezione al giudizio popolare successivo.
Neppure la radicalità della proposta politica di per sè pone a rischio la libera democrazia. Semmai si rivelano pericolosi i piani troppo estesi, per questo insuscettibili di ripensamenti e correzioni di rotta efficaci. Basti pensare a uno dei principali problemi che affliggono le democrazie occidentali contemporanee: quello di un welfare costoso, insostenibile e deresponsabilizzante.
Il professor Maurizio Ferrera, uno dei migliori esperti italiani di comparazione dei welfare, nel 2011 sul Corriere della Sera ha scritto:

"I diritti sono una cosa seria, ma proprio per questo bisogna riconoscere che non sono tutti uguali. Alcuni (quelli civili e politici) tutelano libertà e facoltà dei cittadini e sulla loro certezza non si può transigere. I diritti sociali sono diversi: conferiscono spettanze, ossia titoli a partecipare alla spartizione del bilancio pubblico, che a sua volta dipende dal gettito fiscale e dal funzionamento dell'economia. Dato che al mondo non esistono pasti gratis, i diritti sociali non possono essere considerati come delle garanzie immodificabili nel tempo. Il loro contenuto deve essere programmaticamente commisurato alle dimensioni della torta di cui si dispone e all'andamento dell'economia e della demografia.
Purtroppo il welfare italiano è stato costruito ignorando questa elementare verità".

Lo stesso Ferrera, sempre sul Corriere, già nel 2004, con lungimiranza ed  esaminando il welfare cinese ha osservato che:

"Se è vero che il fiume dello sviluppo economico porterà il welfare state anche in Asia, non è detto però che si tratti di un welfare all' europea. Non è detto, in altre parole, che le economie asiatiche vedano in futuro esaurirsi il proprio vantaggio comparativo sotto questo profilo. Ciò che sta emergendo in Corea, Taiwan e Singapore è un sistema diverso dal nostro, molto più strettamente integrato con il mercato, tanto che la letteratura specialistica ha coniato il nuovo termine di «welfare state produttivistico». Tre sono gli ingredienti principali di questo modello: priorità all' istruzione e alla formazione; regolazione pubblica (ad esempio, obbligo di assicurazione medica o previdenziale), ma fornitura di prestazioni da parte di soggetti privati, tramite i canali del mercato; copertura gratuita solo per i più poveri. Anche la Cina sembra avviata in queste direzioni: in molti settori è stato ad esempio recentemente introdotto l' obbligo di copertura sanitaria, ma attraverso forme assicurative semi-private. La scelta di una via «produttivistica» al welfare ha in parte motivazioni ideologico-culturali: l' influenza dell' etica confuciana, la tradizione del paternalismo autoritario, oggi gli entusiasmi iperliberisti. In parte si tratta però di motivazioni prettamente economiche: a differenza dei Paesi europei, che hanno storicamente costruito il welfare all' interno di economie protette verso l' esterno, i Paesi asiatici devono incamminarsi verso la protezione sociale in un mondo di scambi e competizione globali".

Esiste una stretta correlazione tra struttura del welfare e attitudine alla crescita di un sistema paese. Un buon governo di fronte a una profonda crisi strutturale del welfare deve intraprendere riforme radicali. Se si sottraesse a questo dovere compromettendo le possibilità di crescita del sistema porrebbe a rischio la democrazia stessa.
Dunque quando la proposta politica diventa cattiva, quando danneggia il processo democratico? Quando rende durevolmente cattiva la domanda politica, quando diseduca l'elettore, lo spinge a non accettare la complessità e la globalità dei problemi, ingenera la convinzione che possano esistere pasti gratis, fuorvia il giudizio sui problemi della finanza pubblica nascondendo i suoi aspetti strutturali insieme più semplici ed importanti, induce ad aspettative insostenibili e tra loro inconciliabili, quando insomma contribuisce a ridurre la capacità dell'elettore di manutenere la democrazia valutando la condotta dei governi che si sottopongono al suo giudizio. Una proposta politica moderatamente demagogica può fare più danni di una proposta saggiamente e responsabilmente radicale. 



domenica 5 agosto 2012

La Russia di Putin e l'Occidente.


Russia OGGI, tramite la Rossiyskaya Gazeta, è uno strumento di informazione e analisi controllato dal governo russo. Il 4 marzo 2012 Vladimir Putin è stato eletto per la terza volta presidente della Federazione Russa. Su Russia Oggi Dmitri Babich ha pochi giorni dopo proposto una lettura della politica estera russa diversa da quella che prevale sui media occidentali. Babich cita il leader comunista Sergej Udalcov, secondo il quale:

"Putin è il politico russo più filo-occidentale...Ha fatto chiudere le basi miliari sovietiche a Cuba e in Vietnam, ha permesso alla Nato di estendersi sui territori dell’ex blocco sovietico con l’adesione delle Repubbliche baltiche nei primi anni del 2000, e infine ha investito i soldi del bilancio del Paese in buoni del tesoro americani”.

L'analisi di Babich continua così:

"Con grande dispiacere dei nazionalisti russi, le parole di Udalcov corrispondono alla realtà. Le altre mosse “amichevoli” di Putin nei confronti dell’Occidente comprendono l’autorizzazione allo schieramento di basi americane in Asia Centrale nel 2001 e la cooperazione con i Paesi Occidentali nella lotta contro i talebani in Afghanistan".

"Ma allora perché la politica di Putin è definita anti-occidentale? “I media stanno alimentando un mito che hanno creato loro stessi”, scrive il giornalista russo Stanislav Belkovskij, che critica Putin per ciò che egli chiama la sua “posizione nazional-democratica”. “Putin è tutto fuorché un nazionalista. Sotto la sua direzione, la Russia è passata dall’essere una potenza mondiale a un Paese tranquillo che ha solo ambizioni politiche a livello regionale, e persino queste non sono aggressive. È stata l’insistenza dei mezzi di comunicazione occidentali che, con il passare degli anni, ha fatto sì che la gente pensasse inconsciamente a Putin come a una figura bellicosa".

"La “nuova Russia di Putin” non cercherà di entrare in conflitto con l’Occidente. La “nuova Russia di Putin” vuole solo diventare un Paese normale e noioso con un’opposizione non radicale, senza “un’alternativa rivoluzionaria” e intrattenere relazioni di buon vicinato con i Paesi circostanti. I rapporti con l’Occidente si guasteranno solo qualora l’Occidente cerchi di imporre sulla Russia “un’alternativa rivoluzionaria”".

Recenti sviluppi sembrano, nella sostanza, in qualche misura corroborare la visione di Babich. Si rifletta, in particolare, sull'incremento della presenza americana nelle repubbliche ex sovietiche dell'Asia centrale. " L'Uzbekistan ha deciso di uscire dall'Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva (Csto), alleanza militare difensiva guidata da Mosca, per dare nuovo impulso alla cooperazione militare con gli Stati Uniti (Analisi Difesa)". Ciò senza apparentemente far lievitare l'irritazione del governo russo. Significativo, in questo senso, l'atteggiamento di un'altra fonte di informazione governativa, La Voce della Russia, che supporta la campagna per la rielezione di Obama. E' infine di questi giorni la notizia della concessione alla NATO di un "corridoio" sul territorio russo.
Tutto risolto dunque nei rapporti Russia - Occidente? Certamente no. Tra i punti di attrito sono da segnalare per importanza le situazioni di crisi in Medio Oriente, la questione dei diritti umani in Russia e lo scudo antimissile europeo. Ma senza il retaggio della propaganda dell'era sovietica, che ancora segna le rispettive opinioni pubbliche, e senza le insufficienti prestazioni del modello socio - economico occidentale, che spaventano i leaders russi, potrebbe meglio emergere ed esercitare la propria influenza la comunanza di interessi fondamentali. La potenza cinese e il fondamentalismo islamico sono destinati, con buona probabilità, a riavvicinare Occidente e Russia, in passato resi nemici dall'ideologia marxista leninista.

venerdì 27 luglio 2012

ILVA di Taranto. Per salvare lavoro e ambiente pressione fiscale ridotta ed energia meno cara.





I due maggiori produttori di acciaio tedeschi, ThyssenKrupp e Salzgitter, presentano un crollo degli utili determinato dagli alti costi e dalla debolezza della domanda. Tempi duri per l'acciaio, se perfino i colossi tedeschi del settore registrano perdite.
Un grande produttore italiano è l'ILVA spa, che possiede a Taranto lo stabilimento siderurgico più grande d'Europa, ora colpito da un provvedimento della Magistratura diretto a tutelare ambiente e salute. Così Domenico Palmiotti sul Sole 24 Ore:

"I settori dove il gip ordina siano posti i sigilli sono i parchi minerali, le cokerie, l'agglomerato, gli altiforni, le acciaierie e la gestione dei rottami ferrosi. Una grande parte dello stabilimento, sicuramente il suo motore produttivo. I sindacati parlano di 5mila posti in pericolo ma lo stop a così tanti reparti rischia di provocare una vera e propria onda d'urto e quindi travolgere le stime occupazionali che sono state fatte".

Si deve così fronteggiare un'altra crisi occupazionale, ma conseguenze gravi si prospettano per tutta la filiera, fino alla meccanica di qualità, che con le sue esportazioni contribuisce a puntellare il PIL italiano. Abbattere i danni alla salute e all'ambiente, esternalità negative, costa. Ma altri fattori decisivi della competitività sono la pressione fiscale, il costo dell'energia e delle materie prime, le relazioni industriali, il peso della burocrazia.
Mentre in ambito europeo il settore incontra crescenti difficoltà, pare particolarmente arduo risolvere il problema di Taranto. Per sperare di conservare una sufficiente competitività e quindi i posti di lavoro, essendo ineliminabili ed assai poco comprimibili i costi della tutela ambientale, bisogna modificare gli altri fattori citati. Pressione fiscale ridotta, energia e materie prime meno care, pubblica amministrazione più snella ed efficiente anche in questo caso possono fare la differenza.

giovedì 19 luglio 2012

Politica. L'offerta e la domanda.


Il professor Angelo Panebianco in un editoriale sul Corriere della Sera ha scritto:

"Viviamo in una fase ove è costante la tensione fra la democrazia e l'Europa, fra gli orientamenti degli elettorati e l'esigenza di salvaguardare il progetto comune europeo. È una tensione che a volte si riesce a tenere sotto controllo e a volte degenera in conflitto aperto. La frattura, che attraversa l'eurozona, fra le democrazie nordiche e le democrazie mediterranee, ne è espressione".

" Per quanto ciò possa apparire paradossale (e «politicamente scorretto»), quasi tutti, in Italia e fuori, temono il momento in cui la «democrazia» si riprenderà le sue prerogative, il momento in cui, fra meno di un anno, gli elettori si pronunceranno. Perché c'è in giro tanta paura della democrazia? Perché, a torto o a ragione, è diffusa la convinzione che le forze politiche fra le quali si distribuiranno i voti degli italiani, siano tutte inadeguate, costitutivamente incapaci di perseverare nelle politiche di risanamento che la crisi ha reso necessarie".

Quale via d'uscita? Secondo Panebianco le forze politiche dovrebbero condurre le campagne elettorali a colpi non "di promesse generiche  ma di progetti specifici". Occorre insomma qualificare l'"offerta" politica. Ma è davvero questa la soluzione?


Antonio Polito, sempre sul Corriere della Sera, ha invece scritto:

"Fuor di metafora, è diventato di moda condannare l'austerità e suggerire alternative keynesiane: iniezioni di denaro pubblico per battere la recessione. Ma mentre da noi le si invoca, in Germania sono convinti che l'Italia di oggi sia proprio il frutto di un lungo ciclo di politiche keynesiane. E in effetti è legittimo pensarlo di un Paese che ha accumulato la bellezza di duemila miliardi di euro di debiti".


Bisogna opporsi a tale tendenza maggioritaria nell'opinione pubblica italiana, frutto di decenni di propaganda politica irresponsabile e dell'egemonia di culture illiberali. Manca  una consapevolezza diffusa dei lineamenti e delle derive delle democrazie contemporanee. E' dunque necessario qualificare, più che l'"offerta",  la "domanda" politica.
Determinante si è rivelato il fallimento educativo della scuola dell'obbligo, chiamata a formare il cittadino elettore. Non è difficile insegnare a un adolescente che le nostre democrazie spendono gran parte delle loro risorse per sanità, pensioni, stipendi dei dipendenti pubblici e che quando le spese superano le entrate il debito graverà sulle generazioni future, compromettendone le prospettive. Eppure quasi nulla è stato fatto.
Non si tratta semplicemente di informare i giovani, ma di educarli alla libertà responsabile e a manutenere democrazie complesse e costose. Sbaglia chi crede che un liberale possa e debba separare l'informazione dall'educazione. I liberali da sempre puntano sulla educazione. In questa intervista Karl Popper affronta il tema con particolare chiarezza.




Giova infine riproporre questa considerazione di Tocqueville, a spiegazione dell'affermazione della libertà repubblicana americana, tratta dal Viaggio negli Stati Uniti, Quaderno E ( pag. 262 - 1990):

"Vi è un'importante ragione che supera ogni altra e che, dopo che tutte sono state soppesate, da sola fa pendere la bilancia: il popolo americano, considerato nel suo complesso, è non soltanto il più illuminato del mondo, ma, cosa che considero molto superiore a tale vantaggio, è il popolo che possiede l'educazione politica-pratica più evoluta".










giovedì 12 luglio 2012

Con Arthur Koestler tra le due Guerre mondiali.



Non raramente l'attuale crisi economica viene paragonata alla Grande depressione che ha seguito il crollo di Wall Street del 1929. Pare difficile individuare somiglianze davvero importanti. Basti confrontare la chiusura delle economie nazionali e coloniali in quegli anni ormai lontani con la cosiddetta globalizzazione che pone oggi in competizione le imprese e le economie di tutto il mondo.
Analogie meno evanescenti si rilevano qualora si indaghino i sentimenti diffusi, l'opinione pubblica e la visione degli intellettuali. Gli anni tra le due Guerre mondiali hanno visto l'affermazione dei grandi totalitarismi del Novecento. Oggi non si vedono neppure all'orizzonte giganteschi movimenti organizzati di questo tipo, ma si coglie qualcosa del clima che consentì tale affermazione. Simili sono il disprezzo per il parlamentarismo e le istituzioni della democrazia rappresentativa, l'inquietudine mobilitante, la miope difesa di interessi particolari.
Un grande testimone del periodo tra le due Guerre mondiali è stato Arthur Koestler. Nato in Ungheria nel 1905 da genitori ebrei, a Vienna frequentò  il Politecnico e aderì al sionismo. Nel 1926 partì per la Palestina senza aver conseguito la laurea. Qui lavorò in un kibbutz e iniziò una fortunata carriera giornalistica come corrispondente dal Medio Oriente di un grande gruppo editoriale tedesco. Nel 1929 fu corrispondente da Parigi. Dal 1930 al 1932 lavorò a Berlino. L'adesione al movimento comunista determinò la  fine dei suoi rapporti con la grande stampa tedesca. 
Nel 1932-33 viaggiò a lungo in Unione Sovietica. Nel 1936-37 seguì in Spagna la guerra civile come giornalista. Imprigionato dai franchisti, sfuggì alla morte grazie all'intervento inglese. Nel 1938 lasciò il partito comunista. Internato in Francia, nel 1940 passò in Inghilterra. Qui si arruolò nell'esercito inglese e iniziò una nuova brillante attività di scrittore e giornalista. Nel dopoguerra condusse una intensa battaglia anticomunista e a difesa dei diritti civili, dedicandosi infine a studi di filosofia e storia della scienza.
Famoso per i suoi romanzi, tra cui il notissimo Buio a mezzogiorno, scrisse libri autobiografici fondamentali per la comprensione degli anni tra le due Guerre mondiali. Freccia nell'azzurro, per gli anni dal 1905 al 1931, e La Scrittura invisibile, fino al 1940, rappresentano testimonianze lucide e coinvolgenti di vicende tragiche, di una conversione seguita da una disillusione esemplari in un'epoca di passioni politiche totalizzanti. Di queste grandi opere autobiografiche esiste un'ottima edizione italiana che risale agli inizi degli anni Novanta. Si tratta di libri, ancora reperibili nelle librerie in rete, notevoli per la brillantezza della scrittura, tanto da risultare consigliabili a tutti.

giovedì 5 luglio 2012

Storia politica dell'Italia unita. Il grande assente.





In Storia delle idee del secolo XIX (Freedom and Organization), 1968, p. 651 Bertrand Russell ha rilevato che:

"Sfortunatamente nei tre Imperi orientali la difesa della religione e della proprietà si trovò legata alla difesa dell'autocrazia, con la conseguenza che i capitalisti, anche quelli che sarebbero stati rovinati dalla guerra, si trovarono costretti a dare l'appoggio ai campioni di una diplomazia avventurosa, e i veri cristiani dovettero appoggiare il militarismo a fine di impedire la spoliazione di quelli che insegnavano la dottrina di Cristo".



Qui Russell, in un contesto ormai lontano, intuisce un'esigenza profonda  che ha caratterizzato i sistemi politici dell'Europa continentale non solo fino alla Prima guerra mondiale ma per tutto il Ventesimo secolo. In questi condizione di un progresso civile ed economico solido e vitale è stata la presenza di forti movimenti politici insieme genuinamente liberali, sinceramente democratici e non ostili alla religione, in particolare al Cattolicesimo.

Il genuino sostegno a mercato, proprietà privata e libertà individuali, la sincera fiducia nella democrazia, l'apertura al dispiegarsi del fenomeno religioso, anche in una dimensione pubblica, evitando la trappola del confessionalismo, quando sono riusciti insieme a radicarsi nell'opinione pubblica e a segnare ampi schieramenti politici hanno conferito all'intero sistema efficienza e stabilità.




Nella storia dell'Italia unita eminenti statisti come Giovanni Giolitti, Luigi Einaudi e Alcide De Gasperi, liberali e cattolici o cattolici liberali,  hanno fornito a questa esigenza di sistema una risposta, sia pure significativa, soltanto provvisoria, senza imprimere al sistema stesso svolte durature
. Occorre indagare le ragioni di questo fallimento, nel contempo riflettendo sull'Italia contemporanea, sulla sua società segnata da processi di fusione e destrutturazione, a tal punto cambiata da porre in dubbio l'utilità di percorrere strade già battute altrove con successo.
L'intuizione di Russell conserva ancora validità? Fornisce una chiave di lettura ed una prospettiva per un presente liquido, sfuggente, apparentemente non accoglibile sotto vecchie categorie? Probabilmente no. Ma occorre fare un tentativo, un serio sforzo di aggiornare il grande progetto che i migliori liberali italiani non sono riusciti a realizzare. Impareremo comunque dai nostri errori.

venerdì 29 giugno 2012

Bertrand Russell e la politica estera britannica.

La regina Vittoria




Bertrand Russell, nato nel 1872 e morto nel 1970 apparteneva a una delle più illustri famiglie dell'aristocrazia britannica whig. Orfano di entrambi i genitori già a quattro anni, fu affidato ai nonni paterni.
Il nonno Lord John Russell fu un eminente statista, due volte primo ministro e tra i principali artefici della politica estera britannica del Diciannovesimo secolo. Nella casa dei nonni paterni, ma anche frequentando la nonna materna, il giovanissimo Bertrand respirò la grande politica dell'epoca vittoriana, acquisendone una conoscenza viva e diretta.
Anche per questi contatti precocissimi il pensiero del grande filosofo sui temi della politica estera fu per lungo tempo lucido ed originale. Particolarmente interessanti le sue considerazioni contenute in Freedom and Organization (Storia delle idee del secolo XIX). Qui si trovano cenni dello sviluppo delle relazioni internazionali, lasciate alla determinante influenza dei sovrani e dei funzionari permanenti, anche in presenza di parlamenti titolari di ampie prerogative costituzionali:

"Nonostante che dopo il 1814 il mondo si fosse trasformato, rimase un aspetto nel quale non aveva subito mutamenti importanti, e tali mutamenti, se vi erano stati, erano stati piuttosto un regresso.
Le relazioni tra le grandi Potenze erano ancora, come ai tempi del congresso di Vienna, nelle mani di singoli individui, il cui potere poteva essere sottoposto a limitazioni teoriche, ma che in pratica era pressoché dispotico. Pur con la istituzione di parlamenti nei tre Imperi orientali, le loro relazioni estere erano ancora controllate dai sovrani altrettanto completamente che ai tempi di Alessandro I e di Metternich. In Inghilterra, le tradizioni di continuità nella politica estera sottraevano tali relazioni con l'estero all'effettivo controllo del Parlamento; qualunque fosse il partito al governo, il ministero degli Esteri era nelle mani delle stesse famiglie whig, venute al potere nel 1830. In Francia, il ministero degli Esteri era meno assoluto che altrove in Europa; ma un'alleanza tra i funzionari permanenti e certi interessi del mondo degli affari conducevano a risultati assai simili a quelli prodotti altrove dall'autocrazia.
Mentre così le relazioni tra gli Stati non si erano affatto modernizzate, ne era smisuratamente aumentato il potere offensivo. La scienza e l'industrialismo avevano trasformato l' arte della guerra..."  (op. cit., 1968, pp. 622 e 623).

"Tutti questi uomini non erano pure  personificazioni di forze impersonali, ma, attraverso le loro idiosincrasie personali, influirono sugli eventi" (p. 625).

" La politica estera era trattata dovunque come un mistero, che sarebbe stato contrario agli interessi nazionali esporre apertamente agli occhi del profano" (p. 624).

Tale assetto restò sostanzialmente immutato fino alla Prima guerra mondiale e contribuisce a spiegare anche l'entrata in guerra dell'Italia, contro la volontà della maggioranza parlamentare neutralista guidata da Giovanni Giolitti, che nelle sue Memorie scrive:

"Ora io ricordo in proposito che quando la Germania dichiarò guerra alla Francia, Asquith, dopo aver convocato il Consiglio dei ministri, chiamò l'ambasciatore francese e gli disse presso a poco: "Il governo inglese ha deciso di intervenire a fianco della Francia nella guerra; ma mentre credo di dovervi comunicare subito questa decisione, vi ricordo che essa non diventa effettiva che dopo l'approvazione del Parlamento." La Costituzione nostra è in ciò simile a quella inglese; in quanto in entrambe la decisione della guerra spetta alla Corona; ma la decisione non avrebbe seguito senza l'approvazione delle necessarie spese, che spetta al Parlamento".( Giovanni GIOLITTI, Memorie della mia vita, 1982, pp. 331 e 332).

L'opposizione del Parlamento italiano agli accordi segreti stretti dal Re avrebbe aperto  un gravissimo conflitto costituzionale e una drammatica crisi dinastica. Così anche il nostro paese prese parte all'"inutile strage".
                                                                                             

giovedì 21 giugno 2012

Magna Graecia




Da un editoriale di Angelo Panebianco sul Corriere della Sera:

"...se l'euro crollasse, anche a voler prescindere dalle conseguenze economiche di un simile evento (per l'economia mondiale e quindi anche per noi), i contraccolpi politici sarebbero assai violenti per il nostro Paese. La ragione è che verrebbe meno quel famoso «vincolo esterno» in assenza del quale in Italia potrebbero correre forti rischi sia la democrazia politica che la stessa integrità dello Stato nazionale". "E l'Italia si ritroverebbe nelle condizioni di una zattera alla deriva nel Mediterraneo". "Immediati costi economici a parte, la fine dell'euro, trascinando nella rovina anche l'Unione, ci lascerebbe soli alle prese con tutti i nostri fantasmi".


E Carlo Bastasin su Il Sole 24 Ore: 

"Fin dal prossimo cruciale vertice europeo, il tema dell'integrazione politica europea infatti diventerà centrale nella soluzione dell'eurocrisi e per la stessa ragione dovrebbe diventare subito il perno anche del dibattito politico italiano".
"Una delle domande che condizionano la fiducia dell'eurozona è proprio chi governerà nel 2013 l'Italia, il Paese con il debito pubblico più pericoloso".
"Come ha dimostrato la tensione creata dal voto greco, la questione dell'affidabilità politica dei singoli Paesi resterà centrale fino al compimento dell'unione politica, cioè per molti anni. I risparmiatori o gli investitori che oggi hanno paura dell'euro sanno che fino ad allora il "pubblico" - a cui fa riferimento il "debito pubblico" che acquistano - continua ad essere composto di cittadini che tuttora possono scegliere democraticamente prima di tutto in un ambito nazionale. Per l'Italia sarebbe indispensabile consolidare adesso al proprio interno il consenso per il progetto europeo".

La Gran Bretagna, forse, grazie al rapporto speciale con gli Stati Uniti e alla qualità delle sue tradizioni e istituzioni, può permettersi di non considerare l'integrazione politico - economica europea una prospettiva vitale. Ma per l'Italia l'integrazione politica e la moneta unica europee sembrano davvero irrinunciabili, anche per le ragioni sopra lucidamente esposte dal professor Panebianco.
Occorre inoltre comprendere che per gli investitori internazionali il rischio politico nazionale rappresenta un parametro fondamentale. L'inaffidabilità politica dell'Italia pesa molto sul giudizio di chi è chiamato ad acquistare i titoli del nostro debito pubblico e ad investire nelle imprese italiane.
Allora perchè non pochi politici italiani continuano a vagheggiare il ritorno alla vecchia lira e a pronunciare dichiarazioni euroscettiche o antieuropeiste? Qualche volta si tratta di convinzioni sbagliate, ma profonde e rispettabili. Più spesso prevale il desiderio di compiacere una parte importante dell'opinione pubblica. E' difficile interrompere il circolo vizioso, prevenire il cortocircuito, ma se non si forma un adeguato consenso sulle riforme strutturali necessarie e sull'integrazione europea il paese rischia di andare alla deriva, di essere fiaccato definitivamente da convulsioni "greche", assumendo i tratti di una grande Grecia, diventando per l'economia  globale sempre più non un problema, ma il problema.


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