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venerdì 27 luglio 2012

ILVA di Taranto. Per salvare lavoro e ambiente pressione fiscale ridotta ed energia meno cara.





I due maggiori produttori di acciaio tedeschi, ThyssenKrupp e Salzgitter, presentano un crollo degli utili determinato dagli alti costi e dalla debolezza della domanda. Tempi duri per l'acciaio, se perfino i colossi tedeschi del settore registrano perdite.
Un grande produttore italiano è l'ILVA spa, che possiede a Taranto lo stabilimento siderurgico più grande d'Europa, ora colpito da un provvedimento della Magistratura diretto a tutelare ambiente e salute. Così Domenico Palmiotti sul Sole 24 Ore:

"I settori dove il gip ordina siano posti i sigilli sono i parchi minerali, le cokerie, l'agglomerato, gli altiforni, le acciaierie e la gestione dei rottami ferrosi. Una grande parte dello stabilimento, sicuramente il suo motore produttivo. I sindacati parlano di 5mila posti in pericolo ma lo stop a così tanti reparti rischia di provocare una vera e propria onda d'urto e quindi travolgere le stime occupazionali che sono state fatte".

Si deve così fronteggiare un'altra crisi occupazionale, ma conseguenze gravi si prospettano per tutta la filiera, fino alla meccanica di qualità, che con le sue esportazioni contribuisce a puntellare il PIL italiano. Abbattere i danni alla salute e all'ambiente, esternalità negative, costa. Ma altri fattori decisivi della competitività sono la pressione fiscale, il costo dell'energia e delle materie prime, le relazioni industriali, il peso della burocrazia.
Mentre in ambito europeo il settore incontra crescenti difficoltà, pare particolarmente arduo risolvere il problema di Taranto. Per sperare di conservare una sufficiente competitività e quindi i posti di lavoro, essendo ineliminabili ed assai poco comprimibili i costi della tutela ambientale, bisogna modificare gli altri fattori citati. Pressione fiscale ridotta, energia e materie prime meno care, pubblica amministrazione più snella ed efficiente anche in questo caso possono fare la differenza.

giovedì 19 luglio 2012

Politica. L'offerta e la domanda.


Il professor Angelo Panebianco in un editoriale sul Corriere della Sera ha scritto:

"Viviamo in una fase ove è costante la tensione fra la democrazia e l'Europa, fra gli orientamenti degli elettorati e l'esigenza di salvaguardare il progetto comune europeo. È una tensione che a volte si riesce a tenere sotto controllo e a volte degenera in conflitto aperto. La frattura, che attraversa l'eurozona, fra le democrazie nordiche e le democrazie mediterranee, ne è espressione".

" Per quanto ciò possa apparire paradossale (e «politicamente scorretto»), quasi tutti, in Italia e fuori, temono il momento in cui la «democrazia» si riprenderà le sue prerogative, il momento in cui, fra meno di un anno, gli elettori si pronunceranno. Perché c'è in giro tanta paura della democrazia? Perché, a torto o a ragione, è diffusa la convinzione che le forze politiche fra le quali si distribuiranno i voti degli italiani, siano tutte inadeguate, costitutivamente incapaci di perseverare nelle politiche di risanamento che la crisi ha reso necessarie".

Quale via d'uscita? Secondo Panebianco le forze politiche dovrebbero condurre le campagne elettorali a colpi non "di promesse generiche  ma di progetti specifici". Occorre insomma qualificare l'"offerta" politica. Ma è davvero questa la soluzione?


Antonio Polito, sempre sul Corriere della Sera, ha invece scritto:

"Fuor di metafora, è diventato di moda condannare l'austerità e suggerire alternative keynesiane: iniezioni di denaro pubblico per battere la recessione. Ma mentre da noi le si invoca, in Germania sono convinti che l'Italia di oggi sia proprio il frutto di un lungo ciclo di politiche keynesiane. E in effetti è legittimo pensarlo di un Paese che ha accumulato la bellezza di duemila miliardi di euro di debiti".


Bisogna opporsi a tale tendenza maggioritaria nell'opinione pubblica italiana, frutto di decenni di propaganda politica irresponsabile e dell'egemonia di culture illiberali. Manca  una consapevolezza diffusa dei lineamenti e delle derive delle democrazie contemporanee. E' dunque necessario qualificare, più che l'"offerta",  la "domanda" politica.
Determinante si è rivelato il fallimento educativo della scuola dell'obbligo, chiamata a formare il cittadino elettore. Non è difficile insegnare a un adolescente che le nostre democrazie spendono gran parte delle loro risorse per sanità, pensioni, stipendi dei dipendenti pubblici e che quando le spese superano le entrate il debito graverà sulle generazioni future, compromettendone le prospettive. Eppure quasi nulla è stato fatto.
Non si tratta semplicemente di informare i giovani, ma di educarli alla libertà responsabile e a manutenere democrazie complesse e costose. Sbaglia chi crede che un liberale possa e debba separare l'informazione dall'educazione. I liberali da sempre puntano sulla educazione. In questa intervista Karl Popper affronta il tema con particolare chiarezza.




Giova infine riproporre questa considerazione di Tocqueville, a spiegazione dell'affermazione della libertà repubblicana americana, tratta dal Viaggio negli Stati Uniti, Quaderno E ( pag. 262 - 1990):

"Vi è un'importante ragione che supera ogni altra e che, dopo che tutte sono state soppesate, da sola fa pendere la bilancia: il popolo americano, considerato nel suo complesso, è non soltanto il più illuminato del mondo, ma, cosa che considero molto superiore a tale vantaggio, è il popolo che possiede l'educazione politica-pratica più evoluta".










giovedì 12 luglio 2012

Con Arthur Koestler tra le due Guerre mondiali.



Non raramente l'attuale crisi economica viene paragonata alla Grande depressione che ha seguito il crollo di Wall Street del 1929. Pare difficile individuare somiglianze davvero importanti. Basti confrontare la chiusura delle economie nazionali e coloniali in quegli anni ormai lontani con la cosiddetta globalizzazione che pone oggi in competizione le imprese e le economie di tutto il mondo.
Analogie meno evanescenti si rilevano qualora si indaghino i sentimenti diffusi, l'opinione pubblica e la visione degli intellettuali. Gli anni tra le due Guerre mondiali hanno visto l'affermazione dei grandi totalitarismi del Novecento. Oggi non si vedono neppure all'orizzonte giganteschi movimenti organizzati di questo tipo, ma si coglie qualcosa del clima che consentì tale affermazione. Simili sono il disprezzo per il parlamentarismo e le istituzioni della democrazia rappresentativa, l'inquietudine mobilitante, la miope difesa di interessi particolari.
Un grande testimone del periodo tra le due Guerre mondiali è stato Arthur Koestler. Nato in Ungheria nel 1905 da genitori ebrei, a Vienna frequentò  il Politecnico e aderì al sionismo. Nel 1926 partì per la Palestina senza aver conseguito la laurea. Qui lavorò in un kibbutz e iniziò una fortunata carriera giornalistica come corrispondente dal Medio Oriente di un grande gruppo editoriale tedesco. Nel 1929 fu corrispondente da Parigi. Dal 1930 al 1932 lavorò a Berlino. L'adesione al movimento comunista determinò la  fine dei suoi rapporti con la grande stampa tedesca. 
Nel 1932-33 viaggiò a lungo in Unione Sovietica. Nel 1936-37 seguì in Spagna la guerra civile come giornalista. Imprigionato dai franchisti, sfuggì alla morte grazie all'intervento inglese. Nel 1938 lasciò il partito comunista. Internato in Francia, nel 1940 passò in Inghilterra. Qui si arruolò nell'esercito inglese e iniziò una nuova brillante attività di scrittore e giornalista. Nel dopoguerra condusse una intensa battaglia anticomunista e a difesa dei diritti civili, dedicandosi infine a studi di filosofia e storia della scienza.
Famoso per i suoi romanzi, tra cui il notissimo Buio a mezzogiorno, scrisse libri autobiografici fondamentali per la comprensione degli anni tra le due Guerre mondiali. Freccia nell'azzurro, per gli anni dal 1905 al 1931, e La Scrittura invisibile, fino al 1940, rappresentano testimonianze lucide e coinvolgenti di vicende tragiche, di una conversione seguita da una disillusione esemplari in un'epoca di passioni politiche totalizzanti. Di queste grandi opere autobiografiche esiste un'ottima edizione italiana che risale agli inizi degli anni Novanta. Si tratta di libri, ancora reperibili nelle librerie in rete, notevoli per la brillantezza della scrittura, tanto da risultare consigliabili a tutti.

giovedì 5 luglio 2012

Storia politica dell'Italia unita. Il grande assente.





In Storia delle idee del secolo XIX (Freedom and Organization), 1968, p. 651 Bertrand Russell ha rilevato che:

"Sfortunatamente nei tre Imperi orientali la difesa della religione e della proprietà si trovò legata alla difesa dell'autocrazia, con la conseguenza che i capitalisti, anche quelli che sarebbero stati rovinati dalla guerra, si trovarono costretti a dare l'appoggio ai campioni di una diplomazia avventurosa, e i veri cristiani dovettero appoggiare il militarismo a fine di impedire la spoliazione di quelli che insegnavano la dottrina di Cristo".



Qui Russell, in un contesto ormai lontano, intuisce un'esigenza profonda  che ha caratterizzato i sistemi politici dell'Europa continentale non solo fino alla Prima guerra mondiale ma per tutto il Ventesimo secolo. In questi condizione di un progresso civile ed economico solido e vitale è stata la presenza di forti movimenti politici insieme genuinamente liberali, sinceramente democratici e non ostili alla religione, in particolare al Cattolicesimo.

Il genuino sostegno a mercato, proprietà privata e libertà individuali, la sincera fiducia nella democrazia, l'apertura al dispiegarsi del fenomeno religioso, anche in una dimensione pubblica, evitando la trappola del confessionalismo, quando sono riusciti insieme a radicarsi nell'opinione pubblica e a segnare ampi schieramenti politici hanno conferito all'intero sistema efficienza e stabilità.




Nella storia dell'Italia unita eminenti statisti come Giovanni Giolitti, Luigi Einaudi e Alcide De Gasperi, liberali e cattolici o cattolici liberali,  hanno fornito a questa esigenza di sistema una risposta, sia pure significativa, soltanto provvisoria, senza imprimere al sistema stesso svolte durature
. Occorre indagare le ragioni di questo fallimento, nel contempo riflettendo sull'Italia contemporanea, sulla sua società segnata da processi di fusione e destrutturazione, a tal punto cambiata da porre in dubbio l'utilità di percorrere strade già battute altrove con successo.
L'intuizione di Russell conserva ancora validità? Fornisce una chiave di lettura ed una prospettiva per un presente liquido, sfuggente, apparentemente non accoglibile sotto vecchie categorie? Probabilmente no. Ma occorre fare un tentativo, un serio sforzo di aggiornare il grande progetto che i migliori liberali italiani non sono riusciti a realizzare. Impareremo comunque dai nostri errori.

venerdì 29 giugno 2012

Bertrand Russell e la politica estera britannica.

La regina Vittoria




Bertrand Russell, nato nel 1872 e morto nel 1970 apparteneva a una delle più illustri famiglie dell'aristocrazia britannica whig. Orfano di entrambi i genitori già a quattro anni, fu affidato ai nonni paterni.
Il nonno Lord John Russell fu un eminente statista, due volte primo ministro e tra i principali artefici della politica estera britannica del Diciannovesimo secolo. Nella casa dei nonni paterni, ma anche frequentando la nonna materna, il giovanissimo Bertrand respirò la grande politica dell'epoca vittoriana, acquisendone una conoscenza viva e diretta.
Anche per questi contatti precocissimi il pensiero del grande filosofo sui temi della politica estera fu per lungo tempo lucido ed originale. Particolarmente interessanti le sue considerazioni contenute in Freedom and Organization (Storia delle idee del secolo XIX). Qui si trovano cenni dello sviluppo delle relazioni internazionali, lasciate alla determinante influenza dei sovrani e dei funzionari permanenti, anche in presenza di parlamenti titolari di ampie prerogative costituzionali:

"Nonostante che dopo il 1814 il mondo si fosse trasformato, rimase un aspetto nel quale non aveva subito mutamenti importanti, e tali mutamenti, se vi erano stati, erano stati piuttosto un regresso.
Le relazioni tra le grandi Potenze erano ancora, come ai tempi del congresso di Vienna, nelle mani di singoli individui, il cui potere poteva essere sottoposto a limitazioni teoriche, ma che in pratica era pressoché dispotico. Pur con la istituzione di parlamenti nei tre Imperi orientali, le loro relazioni estere erano ancora controllate dai sovrani altrettanto completamente che ai tempi di Alessandro I e di Metternich. In Inghilterra, le tradizioni di continuità nella politica estera sottraevano tali relazioni con l'estero all'effettivo controllo del Parlamento; qualunque fosse il partito al governo, il ministero degli Esteri era nelle mani delle stesse famiglie whig, venute al potere nel 1830. In Francia, il ministero degli Esteri era meno assoluto che altrove in Europa; ma un'alleanza tra i funzionari permanenti e certi interessi del mondo degli affari conducevano a risultati assai simili a quelli prodotti altrove dall'autocrazia.
Mentre così le relazioni tra gli Stati non si erano affatto modernizzate, ne era smisuratamente aumentato il potere offensivo. La scienza e l'industrialismo avevano trasformato l' arte della guerra..."  (op. cit., 1968, pp. 622 e 623).

"Tutti questi uomini non erano pure  personificazioni di forze impersonali, ma, attraverso le loro idiosincrasie personali, influirono sugli eventi" (p. 625).

" La politica estera era trattata dovunque come un mistero, che sarebbe stato contrario agli interessi nazionali esporre apertamente agli occhi del profano" (p. 624).

Tale assetto restò sostanzialmente immutato fino alla Prima guerra mondiale e contribuisce a spiegare anche l'entrata in guerra dell'Italia, contro la volontà della maggioranza parlamentare neutralista guidata da Giovanni Giolitti, che nelle sue Memorie scrive:

"Ora io ricordo in proposito che quando la Germania dichiarò guerra alla Francia, Asquith, dopo aver convocato il Consiglio dei ministri, chiamò l'ambasciatore francese e gli disse presso a poco: "Il governo inglese ha deciso di intervenire a fianco della Francia nella guerra; ma mentre credo di dovervi comunicare subito questa decisione, vi ricordo che essa non diventa effettiva che dopo l'approvazione del Parlamento." La Costituzione nostra è in ciò simile a quella inglese; in quanto in entrambe la decisione della guerra spetta alla Corona; ma la decisione non avrebbe seguito senza l'approvazione delle necessarie spese, che spetta al Parlamento".( Giovanni GIOLITTI, Memorie della mia vita, 1982, pp. 331 e 332).

L'opposizione del Parlamento italiano agli accordi segreti stretti dal Re avrebbe aperto  un gravissimo conflitto costituzionale e una drammatica crisi dinastica. Così anche il nostro paese prese parte all'"inutile strage".
                                                                                             

giovedì 21 giugno 2012

Magna Graecia




Da un editoriale di Angelo Panebianco sul Corriere della Sera:

"...se l'euro crollasse, anche a voler prescindere dalle conseguenze economiche di un simile evento (per l'economia mondiale e quindi anche per noi), i contraccolpi politici sarebbero assai violenti per il nostro Paese. La ragione è che verrebbe meno quel famoso «vincolo esterno» in assenza del quale in Italia potrebbero correre forti rischi sia la democrazia politica che la stessa integrità dello Stato nazionale". "E l'Italia si ritroverebbe nelle condizioni di una zattera alla deriva nel Mediterraneo". "Immediati costi economici a parte, la fine dell'euro, trascinando nella rovina anche l'Unione, ci lascerebbe soli alle prese con tutti i nostri fantasmi".


E Carlo Bastasin su Il Sole 24 Ore: 

"Fin dal prossimo cruciale vertice europeo, il tema dell'integrazione politica europea infatti diventerà centrale nella soluzione dell'eurocrisi e per la stessa ragione dovrebbe diventare subito il perno anche del dibattito politico italiano".
"Una delle domande che condizionano la fiducia dell'eurozona è proprio chi governerà nel 2013 l'Italia, il Paese con il debito pubblico più pericoloso".
"Come ha dimostrato la tensione creata dal voto greco, la questione dell'affidabilità politica dei singoli Paesi resterà centrale fino al compimento dell'unione politica, cioè per molti anni. I risparmiatori o gli investitori che oggi hanno paura dell'euro sanno che fino ad allora il "pubblico" - a cui fa riferimento il "debito pubblico" che acquistano - continua ad essere composto di cittadini che tuttora possono scegliere democraticamente prima di tutto in un ambito nazionale. Per l'Italia sarebbe indispensabile consolidare adesso al proprio interno il consenso per il progetto europeo".

La Gran Bretagna, forse, grazie al rapporto speciale con gli Stati Uniti e alla qualità delle sue tradizioni e istituzioni, può permettersi di non considerare l'integrazione politico - economica europea una prospettiva vitale. Ma per l'Italia l'integrazione politica e la moneta unica europee sembrano davvero irrinunciabili, anche per le ragioni sopra lucidamente esposte dal professor Panebianco.
Occorre inoltre comprendere che per gli investitori internazionali il rischio politico nazionale rappresenta un parametro fondamentale. L'inaffidabilità politica dell'Italia pesa molto sul giudizio di chi è chiamato ad acquistare i titoli del nostro debito pubblico e ad investire nelle imprese italiane.
Allora perchè non pochi politici italiani continuano a vagheggiare il ritorno alla vecchia lira e a pronunciare dichiarazioni euroscettiche o antieuropeiste? Qualche volta si tratta di convinzioni sbagliate, ma profonde e rispettabili. Più spesso prevale il desiderio di compiacere una parte importante dell'opinione pubblica. E' difficile interrompere il circolo vizioso, prevenire il cortocircuito, ma se non si forma un adeguato consenso sulle riforme strutturali necessarie e sull'integrazione europea il paese rischia di andare alla deriva, di essere fiaccato definitivamente da convulsioni "greche", assumendo i tratti di una grande Grecia, diventando per l'economia  globale sempre più non un problema, ma il problema.

martedì 12 giugno 2012

Riforme. Evitare la balcanizzazione.



http://i.res.24o.it/images2010/SoleOnLine5/_Immagini/Notizie/Italia/2011/05/italia-fotolia-258.jpg?uuid=94a3b72c-850e-11e0-bf94-90c651e9f06e


Sulla Stampa Marcello Sorgi ha scritto:

"Con una simultaneità mai vista prima, dai vertici di Pd e Pdl sono uscite due proposte simmetriche e contrapposte: primarie e liste civiche".
"...sarà dato pieno riconoscimento alle liste che, pur non riconoscendosi negli stessi partiti, ritengono di concorrere nei due campi aggregandosi alle rispettive coalizioni".
"Apparentemente, sembra un espediente abbastanza logico, mirato dichiaratamente a ottimizzare la raccolta dei consensi, in un’elezione in cui più forti s’annunciano le contestazioni e la forza d’urto dei movimenti dell’antipolitica, usciti vincitori dalla recente tornata di amministrative. Ma di fatto, è inutile nasconderlo, c’è un’evidente contraddizione tra primarie e liste civiche. Le prime, infatti, puntano a unire gli elettori di un campo e a contrapporli a quelli del campo opposto. Le seconde, al contrario, nascono per dividere o comunque per segnare delle differenze".
" Ciò che finora non era stato provato, e invece lo sarà la prossima volta, è cosa possa accadere spostando le liste civiche, dalle contese cittadine e strapaesane, a quella nazionale per il governo".
"Si può solo provare ad immaginare le conseguenze".
"Ma la conseguenza comune e più diretta... sarà che chiunque vinca si ritroverà alle prese con i problemi già emersi in passato di divisioni interne e scarsa governabilità, moltiplicati per il numero di radici locali delle numerose liste civiche che, in nome della nuova dottrina annunciata ieri, saranno associate al centrosinistra e al centrodestra".
"Per questo, prima di aprire la strada a un’evoluzione così pericolosa della nostra già claudicante democrazia, occorrerebbe pensarci bene. Basterebbe riformare seriamente la legge elettorale, per evitarlo. Invece, al posto di rinnovarsi davvero, per gareggiare con i nuovi movimenti, nati e prosperati sulla loro crisi, i due maggiori partiti si preparano a legittimare tutto il «nuovo» (e spesso anche quello autodefinitosi tale) che non riescono a portare al loro interno e tutta la monnezza che non possono trattenere, a rischio di intossicazione, ma che temono, una volta espulsa, faccia perdere voti".

L'attribuzione di un ruolo nazionale alle cosiddette liste civiche non apre nuovi spazi alle associazioni, ai comitati, ai corpi intermedi  tanto cari a Tocqueville e a Roepke, dove il cittadino apprende la libertà e il suo esercizio responsabile, trovando il proprio posto in una rete di appartenenze che dà senso alle opzioni.
Tale attribuzione concorre piuttosto alla disgregazione del paese, premiando il particolarismo, le spinte corporative, l'approccio demagogico. La prospettiva di una balcanizzazione della nostra democrazia inquieta gli investitori internazionali, che considerano il rischio politico un parametro fondamentale.
L'Italia ha bisogno di riforme strutturali che circoscrivano le dimensioni e i costi della pubblica amministrazione, ridefiniscano la struttura e gli obiettivi del welfare, diminuiscano la pressione fiscale, aumentando l'efficienza e la competitività dell'intero sistema. Non esistono scorciatoie. Solo così si esce dalla crisi che ci attanaglia.
La riforma elettorale e della forma di governo deve tendere a riconciliare i cittadini e le istituzioni della democrazia rappresentativa e a consentire che le preoccupazioni degli elettori si traducano in una pressione costruttiva e positiva. Occorre evitare con ferma attenzione la polverizzazione della rappresentanza politica e il suo asservimento alle peggiori pulsioni.



lunedì 4 giugno 2012

La memoria delle generazioni.

                                                                                                        www.cinetivu.com
Sul Corriere della Sera il professor Angelo Panebianco con l'abituale lucidità ha scritto:

"Se cerchiamo le cause profonde della crisi dell'Europa, possiamo forse identificarne una più generale e una più specifica. La più generale consiste nel «ciclo generazionale». La più specifica nell'incapacità delle élite europeiste di fare i conti con le credenze del common man, dell'uomo comune europeo.
                                                                 
 Per ciclo generazionale si intende una regolarità tante volte all'opera nella storia. A una fase di grandi disordini (guerre interstatali e civili) segue una lunga fase di pace e ordine. Coloro che hanno vissuto l'età del disordine e ricordano le morti violente e il senso di costante insicurezza, coloro che sentono ancora, se chiudono gli occhi, l'odore della paura per la sopravvivenza propria e dei propri cari, si adoperano perché quei tempi non tornino più. Ne seguiranno sforzi individuali e collettivi tesi ad assicurare una forma di «pace perpetua» (dentro le società e fra le società affini), un ordine che si spera di costruire su basi solide. I figli di coloro che hanno vissuto nell'età del disordine ne continuano l'opera. Non hanno conosciuto direttamente quella età (o erano troppo piccoli per averne un ricordo distinto) ma sono stati influenzati dai racconti dei genitori. Da quei racconti hanno appreso che l'ordine societario è una fragile cosa, che l'età del disordine potrebbe tornare spezzando di nuovo vite e progetti di vita, sogni e desideri. L'ordine si mantiene grazie allo sforzo della nuova generazione. Possono anche insorgere, qua o là, minoranze violente (terrorismo) ma verranno sconfitte. I padri sono ancora lì a ricordare a tutti l'esperienza vissuta nell'età del disordine.

Poi, a poco a poco, scompaiono tutti quelli che hanno avuto esperienza diretta di quei tragici tempi. Per i loro nipoti non c'è ormai differenza fra le guerre puniche e il nazismo o la Seconda guerra mondiale. Cose che appartengono a epoche lontane, che si studiano a scuola, irrilevanti per la loro personale esperienza. Le inibizioni che hanno condizionato le generazioni precedenti si dissolvono. Non c'è più memoria dell'antica barbarie. Il rischio di una nuova età del disordine diventa elevato".

La perdita di memoria generazionale ha un rilievo generale ed è ben nota anche al Magistero della Chiesa cattolica. Benedetto XVI, nella sua Lettera enciclica SPE SALVI, 24, ha insegnato che:

"Innanzitutto dobbiamo costatare che un progresso addizionabile è possibile solo in campo materiale. Qui, nella conoscenza crescente delle strutture della materia e in corrispondenza alle invenzioni sempre più avanzate, si dà chiaramente una continuità del progresso verso una padronanza sempre più grande della natura. Nell'ambito invece della consapevolezza etica e della decisione morale non c'è una simile possibilità di addizione per il semplice motivo che la libertà dell'uomo è sempre nuova e deve sempre nuovamente prendere le sue decisioni. Non sono mai semplicemente già prese per noi da altri – in tal caso, infatti, non saremmo più liberi. La libertà presuppone che nelle decisioni fondamentali ogni uomo, ogni generazione sia un nuovo inizio. Certamente, le nuove generazioni possono costruire sulle conoscenze e sulle esperienze di coloro che le hanno precedute, come possono attingere al tesoro morale dell'intera umanità. Ma possono anche rifiutarlo, perché esso non può avere la stessa evidenza delle invenzioni materiali".

Tale perdita di memoria si estende a situazioni e principi fondamentali dell'economia. Mentre talune generazioni sanno che non esistono pasti gratis, che per ogni pasto c'è sempre chi paga il conto, altre non acquistano consapevolezza dei necessari fattori di uno sviluppo economico durevole, vitale e benefico per molti.
Così, nella vita democratica, l'addestramento ad una libertà responsabile e la capacità, richiesta agli elettori, di manutenere adeguatamente le istituzioni rappresentative sono difficili da acquisire ed ancor più da trasmettere alle generazioni successive, essendo largamente dipendenti dall'esperienza.
Meno condivisibile pare la mancanza di fiducia nella scuola manifestata da Panebianco. Essa non riesce a contribuire alla formazione di cittadini liberi, responsabili, produttori di ricchezza diffusa, perchè contenuti e metodi educativi sono fuorvianti ed inefficaci. Senza metodi selettivi e premio del merito, senza programmi realistici e commisurati alle esigenze del lavoro e dell'impresa, senza esercizio concreto della libertà responsabile, gli obiettivi indicati restano irraggiungibili.
Anche il ruolo degli intellettuali non deve essere trascurato. La diretta o indiretta esperienza generazionale, nei termini esposti da Panebianco, è importantissima. Ma storici, giornalisti, protagonisti del dibattito pubblico che influenzano l'opinione pubblica, hanno precise responsabilità. Essi possono fornire modelli e narrazioni entro certi limiti idonei a surrogare tale esperienza, a circoscrivere i danni prodotti dalla sua mancanza. Assistiamo invece al frequente "tradimento dei chierici", sempre meno attratti dalla verità e dal suo servizio.

martedì 29 maggio 2012

Crisi. Cercare le cause per trovare le soluzioni.




Questo è il trailer di Margin Call, un film americano proprio in questi giorni nelle sale italiane.  Protagonisti, ancora una volta, banchieri senza scrupoli che per avidità ed incompetenza innescano una crisi devastante. Con opere analoghe forma ormai un vero e proprio sottogenere cinematografico, pur distinguendosi per il coinvolgente realismo e l'assenza del sovraccarico etico didascalico che caratterizza altri prodotti.
La prima fase della crisi, finanziaria, ha colpito duramente gli Stati Uniti. Qui l'attenzione dell'opinione pubblica si è subito concentrata sull'alta finanza e sulle banche. Nell'Eurozona il debito pubblico è imponente, la crescita economica insufficiente. La crisi si è estesa alle finanze pubbliche, coinvolgendo la moneta unica. Pesante è la caduta dell'occupazione, soprattutto giovanile.
Chi sono i colpevoli? Secondo l'opinione prevalente banchieri senza scrupoli, grandi investitori internazionali, tedeschi prepotenti e, in Italia, politici corrotti e sperperatori del denaro pubblico, evasori fiscali. Questa visione largamente condivisa coglie aspetti fondamentali della crisi che ci affligge, ma probabilmente  non ne individua le ragioni profonde, le radici più nascoste e lontane. Si rivela allora prezioso il lavoro degli osservatori meno preoccupati di compiacere l'opinione pubblica. Tra essi Piero Ostellino, che in lungo editoriale sul Corriere della Sera scrive:

" Siamo finiti nei guai, con la crisi del debito sovrano, non per l’evasione fiscale, la corruzione, bensì perché la spesa pubblica si è dilatata per sovvenzionare un modello di welfare «ormai morto» (copyright Mario Draghi), ubbidendo a un’istanza morale, la giustizia sociale".

"La crescita non la si produce per decreto, ma allargando i confini entro i quali si concretano l’autonomia e le capacità creative della società civile. Lo statalismo, qui, non è la soluzione, ma il problema. Si metta, dunque, mano alla riforma dello Stato— dal quale anche il liberalismo non può prescindere, anzi— partendo dalla revisione del suo Ordinamento giuridico, ripristinando lo Stato di diritto, oggi latente, non per aggiungere ai troppi divieti e regolamenti che riducono il cittadino a suddito altri divieti e altri regolamenti, bensì nel segno dell’individualismo metodologico, cioè del primato della centralità e dell’autonomia della Persona".

Ostellino chiama in causa correttamente non solo l'Ordinamento, ma la visione morale e politica che lo ha ispirato. Essa, volgarizzata e diffusa, accompagna però sempre più condotte di vita irresponsabili, contribuendo a creare e legittimando aspettative insostenibili.
Pare ragionevole dubitare che "l'autonomia e le capacità creative della società civile", non più sorrette da adeguate cultura e tradizioni, siano in grado di rendere il sistema Italia di nuovo competitivo. 
"La prevalenza del principio di realtà sul moralismo, delle «dure repliche della storia» sul dover essere" si concreta appunto, purtroppo, nella determinante perdita di competitività che contraddistingue molta produzione Italiana. Se anche il nostro consumatore potesse e volesse spendere di più, comprerebbe prevalentemente beni e servizi prodotti all'estero.
Considerazioni in parte analoghe valgono per la maggior parte delle altre democrazie occidentali. Il declino non è inevitabile. Ma l'opinione pubblica deve conseguire una visione insieme più profonda e realistica dei problemi, accettarne la complessità, comprendere l'amara asimmetria della costruzione/distruzione sociale. Tradizioni, istituzioni, corpi intermedi, capacità produttive, cultura si deteriorano non raramente in pochi anni. Ma per risorgere e rinnovarsi hanno bisogno di molto tempo.

martedì 22 maggio 2012

Economia sociale di mercato islamica.


Su AsiaNews un'attenta analisi di un fenomeno emergente: la politica economica dei movimenti islamici.

"Saliti al potere nei Paesi della Primavera araba, i partiti islamici cercano soluzioni per rilanciare l’economia degli Stati islamici. Per Fawaz A Gerges, docente di relazioni internazionali alla London School of Economics, il capitalismo liberista è il nuovo modello utilizzato dagli islamisti dopo anni di socialismo. La Turchia faro dei nuovi movimenti islamici".

"Dopo le rivolte che hanno sconvolto il mondo arabo, gli islamisti e gli attivisti religiosi stanno prendendo il potere in Nord Africa e Medio Oriente".

"I partiti islamisti stanno diventando sempre di più degli "erogatori di servizi" a conferma che la loro legittimità politica e la probabilità di rielezione si basa sulla capacità di offrire posti di lavoro, crescita economica e trasparenza. Ciò ha introdotto un enorme livello di pragmatismo nelle politiche dei movimenti di ispirazione religiosa".

"Lo sviluppo economico della Turchia ha avuto un forte impatto sugli islamisti arabi, molti dei quali vorrebbero emulare il modello turco... Il modello offerto da Ankara, che ha il suo perno nella borghesia osservante, ha fatto emergere che islamismo e capitalismo sono compatibili e si rafforzano reciprocamente".

"...ciò che distingue i gruppi di ispirazione religiosa da quelli di sinistra o nazionalisti è una spiccata sensibilità verso gli affari, compresa l'accumulazione di ricchezze e l'economia di libero mercato. L'islamismo è un movimento borghese composto in gran parte dai professionisti della classe media, uomini d'affari, negozianti, commercianti e piccoli imprenditori".

"Fra i radicali islamici, l'approccio interventista è appoggiato soprattutto dai salafiti, che chiedono con forza l'utilizzo di misure di ridistribuzione della ricchezza per ridurre la crescente povertà. Tuttavia, per la maggior parte degli islamisti l'approccio dominante all'economia, con poche variazioni, è il capitalismo di libero mercato".

Non pochi osservatori di questo importante fenomeno hanno visto analogie con l'economia sociale di mercato tedesca, teorizzata da Wilhelm Roepke.

In questa "la competizione e il gioco della domanda e dell'offerta non producono per noi tutte quelle risorse «morali» di cui abbiamo bisogno". Il mercato deve "essere controllato e «moderato» - ma, attenzione, non dallo Stato, bensì dall'etica di quanti volontariamente contribuiscono al buon funzionamento del mercato stesso".

Il disegno dei partiti islamici incontra in questa prospettiva parecchi ostacoli. Prima di tutto la grave situazione sociale e politica. La cosiddetta "Primavera araba" ha travolto regimi autoritari più o meno laici, ma il nuovo stenta a decollare. I movimenti islamici hanno sviluppato robuste reti assistenziali, radicate nel territorio. Questo impegno e la prolungata opposizione ai vecchi regimi spiegano la presa sull'elettorato. Ma la borghesia professionale e gli imprenditori urbani restano minoranza. In milioni di contadini, giovani senza lavoro, abitanti delle periferie delle grandi città convivono la richiesta di sviluppo e benessere rivolta al potere pubblico e la insufficiente consapevolezza delle difficoltà.
I principi religiosi e le tradizioni pongono seri problemi. Se il divieto di corrispondere interessi  e l'obbligo di ancorare la finanza all'economia reale rappresentano elementi compatibili con l'auspicato sviluppo, la tradizionale tendenza a far coincidere le regole religiose con le norme civili, i peccati con i reati, può determinare rigidità insostenibili. Anche il ruolo riservato alle donne dalla tradizione può ostacolare il conseguimento dei risultati sperati.
Se dunque il cosiddetto mercato sociale trova in principi morali, tradizioni e corpi sociali intermedi adeguati il presupposto della propria stessa esistenza e la condizione di un positivo ruolo e sviluppo, occorre evitare un giudizio affrettato ed acritico sulle tendenze in atto nelle variegate società islamiche.
Ma se il modello turco, pure non privo di fragilità e debolezze, si affermasse estesamente, una ulteriore importante sfida verrebbe lanciata alle economie occidentali in crisi. Un motivo in più per accelerare le riforme strutturali indispensabili per colmare un divario di competitività ogni giorno più pesante.

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