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mercoledì 31 agosto 2011

Democrazia e spesa pubblica: una relazione perversa.

Il professor Ernesto Galli della Loggia, in due recenti editoriali sul Corriere della Sera, ha lucidamente delineato le "democrazie della spesa" contemporanee.
Il 17 agosto 2011 ha scritto:

"Tutto ha inizio con il suffragio universale, cuore di quei regimi. Nei quali, come si sa, ogni tot anni chi è al potere deve per l’appunto cercare di avere un voto in più dei rivali, dimostrare che i propri risultati (ovviamente limitati) sono superiori alle promesse (potenzialmente illimitate) degli avversari. La questione decisiva è dunque ogni volta la seguente: come ottenere quel voto in più? Nel corso del tempo le risposte si sono andate riducendo in pratica ad una sola: spendendo, impiegando risorse per soddisfare le esigenze o comunque le richieste dei più vari gruppi sociali in modo da ottenerne così il favore elettorale. Ma spendere significa trovare i soldi per farlo, cioè tassare. Spendere con una mano e tassare con l’altra è divenuta così la regola generale dei regimi democratici".


" Il deterioramento qualitativo delle classi politiche, infatti, è innanzi tutto un prodotto inevitabile di quella «democrazia della spesa» vigente da tempo nei nostri Paesi, in forza della quale governare significa in pratica solo spendere, e poi ancora spendere, per cercare di soddisfare quanti più elettori possibile (e quindi tassare e indebitarsi: con relative catastrofi finanziarie). Quando le cose stanno così, per governare basta disporre di risorse adeguate, non importa reperite come, o prometterne. L'esercizio del potere si spoglia di qualunque necessità di conoscere, di capire, di progettare, e soprattutto di scegliere e di decidere. Non solo, ma il denaro diviene a tal punto intrinseco alla politica che esso finisce per apparirne il vero e ultimo scopo: a chi l'elargisce come a chi lo chiede o lo riceve. Con la conseguenza, tra l'altro, che dove il denaro è tutto, inevitabilmente la corruzione s'infila dappertutto. La «democrazia della spesa», insomma, è un meccanismo che, oltre a svilire progressivamente la sostanza e l'immagine della politica, contribuisce a selezionare le classi politiche al contrario, non premiando mai i migliori (per esempio quelli che pensano all'interesse generale)".

Analisi largamente condivisibili. Ma quale possibile rimedio? Come, dove intervenire per frenare la degenerazione e risalire la china? Si tratta davvero di un declino che le società aperte contemporanee non possono evitare?
La diffusa convinzione che il meccanismo perverso possa essere disattivato semplicemente colpendo i "politici", infedeli rappresentanti di una "società civile" incolpevole vittima, è gravemente fuorviante.
Si deve invece denunciare non solo il "tradimento" della grande maggioranza degli intellettuali, che ha abbandonato il servizio della verità, ma anche e soprattutto il fallimento della scuola italiana che non ha saputo formare cittadini/elettori responsabili.
Sono mancate l'informazione e l'educazione dei nostri giovani, nel contempo tenuti all'oscuro della realtà delle istituzioni democratiche, dei loro veri problemi, del concreto modo di operare degli stati contemporanei, e spinti a pretendere dai governanti il conseguimento di obiettivi irrealistici, ben lontani dalle nostre possibilità.
In un articolo sul Tempo del 15 luglio 2011, riguardo al problema del debito pubblico, Antonio Martino ha scritto:
" la percentuale di spesa pubblica sulla quale il governo ha, a legislazione invariata, potere d'intervento rappresenta una percentuale molto ridotta del totale. Le spese per interessi, per i dipendenti pubblici, per le "prestazioni sociali" (assai deludenti e niente affatto sociali) sono incomprimibili e rappresentano oltre i quattro quinti del totale. Ha senso tentare di ridurre il 100% agendo solo sul 20%? A me non sembra".
Considerazioni coraggiose nell'Italia di oggi, ma che in un paese serio qualsiasi adolescente di normale intelligenza riterrebbe ovvie, grazie all'educazione ricevuta sui banchi di scuola.


domenica 21 agosto 2011

Mont Pelerin Society.


La Mont Pelerin Society è un'associazione costituita nel 1947 tuttora operante con il fine di difendere e diffondere il liberalismo e la società aperta.
Ideata da Friedrich August von Hayek, premio Nobel per l'economia, ebbe tra i suoi membri Karl Popper, Milton Friedman, Ludwig von Mises, Michael Polanyi, Ludwig Erhard, successore di Konrad Adenauer, e Luigi Einaudi, secondo presidente della Repubblica italiana.
Hayek racconta la sua nascita con queste parole ( in F. A. HAYEK, Hayek su Hayek, 1996, pagg. 183 e 184):

"Il dott. Hunold, comunque, ottenne il consenso... per utilizzare i soldi, che erano già stati raccolti in Svizzera, per finanziare il convegno che avevo proposto io. Così, quando riuscii ad ottenere un po' di soldi in più da un ammiratore americano del mio La via della schiavitù, potemmo finalmente organizzare quel convegno, nella primavera del 1947. Fu lasciato a me il compito di stilare sia la lista degli invitati sia il programma del convegno, mentre tutto il lavoro organizzativo fu affidato al dott. Hunold. Il convegno, della durata di dieci giorni, che tenemmo a Mont Pèlerin su Vevey sul lago di Ginevra, riunì 36 studiosi e pubblicisti americani, inglesi e provenienti da vari Paesi dell'Europa continentale. Il convegno ebbe un tale successo che decidemmo di trasformarlo in una associazione permanente che prese il nome dal posto in cui ci incontrammo per la prima volta".

Una delle prime personalità contattate e consultate da Hayek fu il suo amico Karl Popper che rispose con una lettera datata 11 gennaio 1947 (in KARL POPPER, Dopo la Società Aperta, 2009, pagg. 203 e 204) :

"Caro professor Hayek,

al mio ritorno dalla Svizzera ho trovato la Sua lettera del 28 dicembre. Posso ringraziarLa di questo e dirLe che ritengo davvero un grandissimo onore essere incluso da Lei in un elenco che contiene nomi così eminenti?
Penso che l'idea di un'accademia internazionale di filosofia politica sia eccellente; ma sono seriamente preoccupato per una difficoltà.
Ritengo che, per una simile accademia, sarebbe utile, e addirittura necessario, assicurare fin dall'inizio la partecipazione di persone note per essere socialiste o vicine al socialismo".

Popper, rivolgendosi a Hayek, espone diversi motivi di questa opinione, in particolare il seguente:


"La mia posizione personale, come ricorderà, è sempre stata quella di tentare una riconciliazione tra liberali e socialisti; e Lei ha condiviso questa tendenza. Questo non significa, ovviamente, che si debba eliminare o diminuire l'enfasi sui pericoli del socialismo (i pericoli per la libertà). Al contrario. Ma significa che si dovrebbe evitare tutto ciò che possa allargare il fossato fra coloro che amano realmente la libertà e che potrebbero ancora essere conquistati per una cooperazione".

La posizione di Popper manifesta una lucida comprensione del contesto storico politico. Egli, molti anni dopo, nel 1992, così si espresse ( in KARL POPPER, op. cit., pag. 534):

"Benchè" (Hayek) "fosse un grande studioso e un distinto signore, piuttosto riservato nel suo modo di vivere, di pensare e d'insegnare, e benchè avversasse l'azione politica, fondò, poco dopo la Seconda Guerra Mondiale, la Mont Pelerin Society. La sua funzione era quella di fornire un contraltare agli innumerevoli intellettuali che optarono per il socialismo. Hayek riteneva che si dovesse fare di più che scrivere saggi e libri. Così fondò una società di studiosi e di economisti pratici che si opponevano alla tendenza socialista allora di moda della maggior parte degli intellettuali che credevano in un futuro socialista. La società fu fondata in Svizzera nel 1947 sul Monte Pèlerin, sulla sponda meridionale del lago di Ginevra. Io ebbi l'onore di essere invitato da Hayek ad essere uno dei membri fondatori".

"Questa società esiste ancora, e per molti anni ha esercitato una notevole influenza nell'ambito della schiera degli intellettuali, in particolare tra gli economisti. Ritengo che il suo primo e forse maggiore risultato sia stato quello di incoraggiare quanti stavano lottando contro l'allora enorme autorità di John Maynard Keynes e della sua scuola".


sabato 13 agosto 2011

Le amministrazioni locali banco di prova per un welfare sostenibile.

I nuovi tagli dei trasferimenti agli enti locali, imposti dalla grave situazione economica, costringeranno molte amministrazioni locali a rinnovare metodi e strutture del welfare. Secondo quali linee guida?
Una preziosa indicazione si può trarre da un recente articolo di Antonio Martino, che scrive:

"Le amministrazioni pubbliche - governo centrale, amministrazioni locali, enti previdenziali, autorità autonome e quant'altro - sono in realtà un sistema di trasferimenti: si finanziano prelevando quattrini dalle tasche di alcuni italiani per trasferirli in quelle di altri italiani. Le dimensioni di questi trasferimenti sono aumentate enormemente nel corso del tempo: se posso ripetermi, nel 1900 rappresentavano il 10% del prodotto interno lordo, negli anni Cinquanta a circa il 30%, oggi superano il 51%. Cosa giustifica questa spaventosa crescita? Certamente non la lotta alla povertà: eravamo più poveri nel 1900 che non negli anni Cinquanta e più poveri nei Cinquanta che non adesso. Del resto, chi crede che le spese delle amministrazioni pubbliche abbiano davvero lo scopo di alleviare il disagio dei nostri concittadini meno fortunati? Se il 51% del reddito nazionale andasse al 20% più povero della popolazione, lo renderebbe immediatamente agiato. Le cose sono assai meno semplici, bisogna considerare altri elementi.

Primo: quanto la collettività riceve ammonta a molto meno di quanto la collettività deve versare all'apparato di trasferimenti pubblico, per via dei costi di trasferimento (burocrazia, politica, corruzione, eccetera). Secondo: chi paga non necessariamente appartiene alle fasce di reddito più alte, chi riceve non necessariamente a quelle più basse. Il finanziamento dell'università, della sanità, e degli enti locali molto spesso proviene dalle tasche di contribuenti a reddito medio-basso o basso, e va in quelle di persone non indigenti, e la redistribuzione diventa regressiva".

"L'indennità parlamentare mi colloca nell'uno per cento più ricco dei contribuenti (ineffabile efficienza del nostro sistema tributario!) eppure ricevo "gratis" i servizi e le medicine fornite dal sistema sanitario nazionale: tassiamo il 99% meno abbiente per dare all'uno per cento più ricco!"

Martino, con la sua abituale coraggiosa lucidità, mette in rilievo uno dei principali fattori di insostenibilità della spesa pubblica italiana: tendenzialmente si vuole dare tutto a tutti. La protezione pubblica, spesso inefficiente, copre anche chi non ne ha davvero bisogno e può da solo meglio provvedere alle proprie necessità, conservando parte del reddito che oggi trasferisce alla finanza pubblica.

Occorre dunque che la mano pubblica tuteli, in modo efficiente, chi non riesce a far da sè. Nulla di meno, nulla di più. Si tratta di collegare le prestazioni al reddito, riducendo l'ampiezza degli interventi della pubblica amministrazione e quindi la sua dimensione e l'entità della spesa pubblica.
L'ostacolo principale che trova questa auspicata rivoluzione del welfare italiano è rappresentato dalla tradizionale incapacità di far emergere i redditi reali, a cui si accompagna un'imponente evasione fiscale. Gli enti locali sono i più vicini al cittadino. Sono perciò in grado di contribuire in modo decisivo anche all'accertamento della sua situazione reddituale. Siano i primi a sperimentare un nuovo modo di costruire assistenza e sanità pubbliche, imperniato sul collegamento tra prestazione e reddito.


lunedì 8 agosto 2011

Il Settecento negli scritti autobiografici di Rousseau e Franklin.




Gli scritti autobiografici delle personalità eminenti rappresentano una via di approccio diretta e privilegiata alla storia. Per il Diciottesimo secolo sono da segnalare per importanza, tra i tanti rilevanti, Le Confessioni di Jean-Jacques Rousseau e l'Autobiografia di Benjamin Franklin.

Nelle Confessioni Rousseau presenta la propria vita non risparmiando dettagli intimi a volte sorprendenti, citando persino episodi di esibizionismo. Sullo sfondo la società e la cultura settecentesche. I melomani troveranno il suo giudizio sulle doti musicali delle ragazze degli orfanotrofi veneziani per cui prestò la propria opera anche Antonio Vivaldi.

L'Autobiografia di Franklin, sia pure incompleta, disegna con efficacia la sua figura poliedrica. Autodidatta, in gioventù tipografo, fu tra i padri fondatori degli Stati Uniti d'America. Incarnò perfettamente l'illuminismo prudente, pragmatico, deista e massone diffuso nei paesi di lingua inglese. Ancora in vita divenne un vero e proprio mito. Rappresenta un modello di successo personale tuttora influente.

L'opera di Rousseau si trova ancora in libreria.
L'ultima edizione italiana dell'Autobiografia di Franklin risale alla fine degli anni Novanta. In inglese si può leggere in rete qui.


domenica 31 luglio 2011

Debito pubblico. Articolo 81: la costituzione tradita.


"Le Camere approvano ogni anno i bilanci e il rendiconto consuntivo presentati dal Governo.

L'esercizio provvisorio del bilancio non può essere concesso se non per legge e per periodi non superiori complessivamente a quattro mesi.

Con la legge di approvazione del bilancio non si possono stabilire nuovi tributi e nuove spese.

Ogni altra legge che importi nuove o maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte".

Dunque, secondo la costituzione italiana vigente, ogni legge che importi nuove o maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte.
Quale è la ratio della disposizione? Cosa vuol dire "indicare i mezzi per farvi fronte"?
La dottrina costituzionalista circoscrive il ruolo dei lavori preparatori ma, in questo caso, i lavori dell'Assemblea Costituente, con gli interventi di Einaudi, Mortati e Vanoni, indirizzano l'interpretazione in modo univoco. Lo scopo della norma è quello di limitare la produzione di leggi che importano nuova o maggiore spesa pubblica, soprattutto di iniziativa parlamentare.
Se questa è la precisa ratio della parte dell'art. 81 qui discussa, diventa inevitabile adottare un'interpretazione rigorosa dell'espressione "indicare i mezzi per farvi fronte".
Essi devono essere costituiti da proventi tributari o da entrate extratributarie quali il corrispettivo della cessione di beni pubblici o utili distribuiti da imprese in mano pubblica.
E' invece vietato il ricorso a prestiti o all'emissione di titoli di debito pubblico, in particolare a medio/lungo termine, da collocare sui mercati finanziari.
Talmente vasta è stata la disapplicazione di questa parte della costituzione che, deficit dopo deficit, lo stock del debito pubblico italiano è diventato imponente. Il servizio di questo debito risulta così costoso, soprattutto in presenza di alti tassi di interesse, da condizionare negativamente e pesantemente non solo l'economia del nostro paese ma anche la vita stessa delle sue istituzioni democratiche.
Si può legittimamente parlare di un vero e proprio tradimento della costituzione, che risale agli anni Sessanta del secolo scorso.
Oggi i diretti eredi delle forze politiche che, come si ricava da questo studio della Banca d'Italia, più hanno contribuito a devastare la finanza pubblica italiana sono spesso i più impegnati a denunciare attuali vere o presunte violazioni della costituzione stessa. Ma le responsabilità di chi ha posto le premesse delle attuali difficoltà finanziarie sono ormai chiare.



domenica 24 luglio 2011

Crisi economica. I tagli e la crescita.

Su La Stampa di ieri il professor Mario Deaglio esamina ampiamente la crisi economica internazionale, imperniando il discorso sulle alternative tagli/stimoli e stagnazione/crescita.
Scrive Deaglio:

"Il sofferto accordo sul debito greco, raggiunto giovedì sera a Bruxelles dopo una trattativa difficile ed estenuante, è ricchissimo di codicilli e molto povero di idee, un accordo senza vincitori, dal quale tutti escono un po’ sconfitti".
"I mercati internazionali rimangono scettici e l’opinione pubblica nervosa.
L’accordo avviene all’insegna di una ampia politica di tagli, che si tradurranno in un freno aggiuntivo all’economia, proprio mentre l’Europa ha bisogno di stimoli alla crescita."

Poi, trattando la situazione statunitense, il professore bacchetta duramente "la maggioranza repubblicana della Camera dei Rappresentanti che si rifiuta di innalzare il tetto del debito pubblico (che negli Stati Uniti è stabilito per legge) senza ottenere in cambio imponenti tagli alla spesa pubblica".
Mentre in realtà i repubblicani intendono così denunciare "l’evidente fallimento della politica di stimolo monetario che fino a fine giugno per nove mesi ha "iniettato" nell’economia 2,5 miliardi di dollari al giorno. Con il solo risultato di far salire il prezzo delle materie prime, mentre la disoccupazione torna ad aumentare".

Restano fuori dall'analisi dell'economista torinese alcune questioni rilevantissime. Le economie occidentali, gravate di imponenti debiti pubblici, possono permettersi di non contenere con fermezza la spesa pubblica?
Ma soprattutto lo strumento fiscale e gli investimenti pubblici rappresentano davvero l'arma vincente per superare la crisi e conferire una nuova solida vitalità alle economie occidentali?
Rimane insomma senza una valida risposta la seguente domanda fondamentale. In un contesto "globalizzato" spesso gli operatori economici preferiscono realizzare stabilimenti industriali o centri di elaborazione dati e ormai anche di ricerca e sviluppo in Cina, India, Brasile ecc. ecc. Come rendere di nuovo conveniente investire negli USA o in Europa occidentale, "localizzando" nei loro territori, creando realmente nuova ricchezza, senza esaurire quella prodotta in passato?
I lettori aspettano da Deaglio e dai suoi colleghi parole chiare e coraggiose, analisi economiche, non espressioni riconducibili a preferenze politiche personali.



giovedì 14 luglio 2011

Tocqueville: religione e libertà.







Tocqueville, l'autore della Democrazia in America e dell'Antico regime e la Rivoluzione, fu per lunghi tratti della sua vita sostanzialmente agnostico, ma scrisse le sue grandi opere sempre da cristiano. Leggiamo in una lettera a Gobineau del 2 ottobre 1843:

"Io non sono credente (e non lo dico certo per vantarmi), ma per quanto non credente, non ho mai potuto impedirmi un'emozione profonda alla lettura del Vangelo. Numerose tra le dottrine che vi sono contenute m'hanno sempre colpito come assolutamente nuove, e soprattutto l'insieme forma qualcosa di interamente diverso dal corpo di idee filosofiche e di leggi morali che prima aveva retto le società umane. Non concepisco come, leggendo questo libro ammirabile, la vostra anima non abbia provato come la mia quella sorta di aspirazione alla libertà che solo un'atmosfera più vasta e più pura può generare".

"Il cristianesimo ci è arrivato attraverso secoli di profonda ignoranza, grossolanità, disuguaglianza sociale e oppressione politica: è stato un'arma nelle mani dei re e dei preti. Sarebbe equo giudicarlo per se stesso e non per l'ambiente attraverso il quale è stato costretto a passare. Quasi tutti gli abusi che voi gli rimproverate, spesso con ragione, devono essere attribuiti a queste cause secondarie".

Come scrive Umberto Coldagelli (Vita di Tocqueville, 2005, pagg. 202 e 203):

"La conclusione era chiara: il gran merito dei Lumi, la loro vera "novità" consisteva nella riscoperta dei valori originali del cristianesimo occultati dalla storia, nel recupero del suo messaggio universale.
Naturalmente i Lumi cui si riferiva Tocqueville non erano gli stessi che Gobineau aveva incautamente esaltato nella sua lettera, cioè quelli che si riassumevano nello spirito voltairiano che ancora permeava la cultura borghese del tempo, per il quale lo sviluppo della libertà era concepibile soltanto nella dimensione d'una sempre più accentuata secolarizzazione del mondo. Voltaire è sempre stato per Tocqueville il non amato contraltare di quei grandi spiriti, come Pascal, Montesquieu e Rousseau, con i quali, secondo una celebre lettera che conosciamo, viveva un poco ogni giorno".

Ma è nella Democrazia in America che Tocqueville delinea compiutamente la portata storico-civile, sociale e culturale del cristianesimo, mettendo in evidenza il suo stretto rapporto con la libertà. Si legga, in particolare, nel Libro Terzo, Parte Prima, Capitolo Quinto:

"Non vi è quasi azione umana, per quanto particolare, che non nasca da un'idea generale che gli uomini hanno concepito di Dio, dei suoi rapporti con l'umanità, della natura dell'anima e dei doveri verso i loro simili".
"Gli uomini hanno, dunque, un immenso interesse a farsi idee ben salde su Dio, l'anima e i doveri generali verso il Creatore e verso i loro simili, poiché il dubbio su questi primi punti abbandonerebbe tutte le loro azioni al caso e li condannerebbe, in un certo senso, al disordine e all'impotenza.
Questa è, dunque, la materia su cui è necessario che ognuno abbia idee ferme, e disgraziatamente è anche quella in cui è più difficile fermare le proprie idee con il solo sforzo della ragione".

"Le idee generali relative a Dio e alla natura umana sono, quindi, fra tutte le idee quelle che è più conveniente sottrarre all'azione abituale della ragione individuale, la quale ha a questo riguardo più da guadagnare che da perdere nel riconoscere un' autorità".

"Per parte mia non credo che l'uomo possa mai sopportare insieme una completa indipendenza religiosa e un'intera libertà politica e sono portato a pensare che, se egli non ha fede, bisogna che serva e, se è libero, che creda".

Tocqueville in realtà si riferisce precisamente alla religione cristiana:

"....nel Corano non solo dottrine religiose, ma anche massime politiche, leggi civili e criminali e teorie scientifiche. Il Vangelo, invece, parla solo dei rapporti generali degli uomini con Dio e fra loro. Al di fuori di questo non insegna nulla e non obbliga a credere nulla. Questo soltanto, fra mille altre ragioni, basta a mostrare che la prima di quelle due religioni non può dominare a lungo in tempi di civiltà e di democrazia, mentre la seconda è destinata a regnare anche in quei secoli come in tutti gli altri".

Karl Popper ha premesso alla Addenda alla Società aperta e i suoi nemici queste parole:

"La più grande malattia filosofica del nostro tempo è costituita dal relativismo intellettuale e dal relativismo morale, il secondo dei quali trova, almeno in parte, nel primo il proprio fondamento".
L' avversione del grande filosofo austriaco anche per il relativismo morale nasce con ogni probabilità dalla preoccupazione per il destino della Società aperta, che sopravvive solo quando i principi di libertà e tolleranza sono fuori discussione, sentiti come assoluti ed assolutamente difesi.
Ma la profonda aspirazione popperiana all'oggettività anche in ambito morale trova nella cosiddetta legge di Hume, nel dualismo fatti/norme, che lo stesso Popper accetta, un ostacolo invalicabile.
La soluzione insuperata del problema resta quella di Tocqueville: se l'uomo "non ha fede, bisogna che serva e, se è libero, che creda".

Qui, in inglese, La Democrazia in America

- Volume I

- Volume II






giovedì 7 luglio 2011

Primarie.





Ha scritto Karl Popper in Congetture e confutazioni (ristampa 2000, pag. 595):

"La differenza fra una democrazia e una tirannide è che nella prima il governo può essere eliminato senza spargimento di sangue, nella seconda no". Dobbiamo proprio al grande filosofo austriaco il concetto di democrazia come strumento non per scegliere i migliori governanti ma per far cadere cattivi governi senza ricorrere alla violenza. Il voto popolare elimina un'ipotesi di governo che si è rivelata sbagliata. Analogamente le primarie non premiano sempre il migliore dei candidati, il più capace degli amministratori, il politico più intelligente, bensì consentono a militanti e simpatizzanti di scegliere la figura più idonea ad entusiasmare e a mobilitare, conferendole una legittimazione diretta sempre più richiesta ed apprezzata dagli elettori. 
Se questi sembrano gli scopi principali delle elezioni primarie, la regolamentazione va attentamente formulata per favorirne il conseguimento. Pare quindi controproducente stabilire criteri per l'ammissione delle candidature tanto rigidi da ostacolare un proficuo contatto e scambio tra politica e società civile, mentre molto attenti e severi dovrebbero essere i controlli sui votanti. Le regole devono per quanto possibile impedire ogni improprio tentativo di condizionare la vita dei partiti e dei movimenti. Utilissimo sarà riflettere sulle istituzioni e sulle tradizioni statunitensi. Una democrazia, quella americana, imperfetta come tutte le opere dell'uomo, ma sempre capace di salvaguardare una società libera ed aperta.


domenica 26 giugno 2011

Il diritto di visita negli accordi internazionali per l'abolizione della schiavitù. Dal Congresso di Vienna (1815) al Trattato di Londra del 1841.

E' secolare la storia degli accordi internazionali che prevedono l'uso della forza militare per fini umanitari. Già il Congresso di Vienna nel 1815 condannò la schiavitù e la tratta degli schiavi in quanto contrarie al diritto delle genti e alla moralità internazionale.
Assume spesso i toni della polemica la discussione sulla matrice ideale dell'abolizionismo. Pare prevalente l'influenza del Cristianesimo. Pur presentando anche tratti contraddittori, il Magistero della Chiesa cattolica e la religiosità cristiana protestante prepararono largamente la strada all'abolizione della schiavitù. Più incerto sembra il contributo degli illuministi e dei precursori dell'Illuminismo: Locke e Voltaire non erano abolizionisti e investirono nel commercio degli schiavi.
Il programma abolizionista adottato a Vienna fu parzialmente attuato con accordi tra le grandi potenze. Quello del 1831 già attribuiva alle parti contraenti, Gran Bretagna e Francia, reciprocamente, il cosiddetto diritto di visita. La marina militare di ciascuna delle due potenze in base al trattato poteva "visitare" la navi dell'altra per controllare che non trasportassero schiavi.
Il Trattato di Londra del 1841, stipulato anche da Austria, Prussia e Russia, estese e precisò l'utilizzo di questo strumento. Forti resistenze in Francia spinsero però Guizot a differirne la ratifica. Prevalsero sentimenti nazionalisti ma non mancarono rilievi sostenuti da argomentazioni degne di particolare attenzione.
Tocqueville, eletto alla Camera nel 1839, abolizionista convinto, componente della commissione parlamentare chiamata a pronunciarsi sul tema, dimostrò che il diritto di visita aumentava spesso le crudeltà subite dai prigionieri, gettati in mare per sfuggire alla sorveglianza. Propose in alternativa un'azione delle potenze europee diretta ad eliminare i mercati degli schiavi.
Proprio nel 1839 è ambientato il bel film di Spielberg Amistad, con Anthony Hopkins.



Un modo efficace e suggestivo per presentare ai nostri giovani un problema che mobilitò coscienze e scatenò conflitti.


venerdì 17 giugno 2011

Giustizia lenta.


"ROMA - La giunta distrettuale di Roma dell'Associazione nazionale magistrati lancia l'allarme: il tribunale di Roma rischia la paralisi. "La profonda crisi di risorse umane e materiali attuale sta conducendo il tribunale di Roma al rischio paralisi"
"Per l'Anm la conclusione è una sola: "Mentre si favoleggia di una informatizzazione degli uffici già in gran parte avvenuta (e che gli operatori della Giustizia sanno essere invece, tuttora, nel libro dei sogni), o si discute della riforma costituzionale della giurisdizione, l'unica riforma epocale già in atto è quella di una riduzione progressiva della giurisdizione quotidianamente resa, della chiusura di uffici e servizi per assenza di personale e di risorse materiali".

La giustizia italiana è in profonda crisi ormai da tanti anni. Ma quali sono cause e responsabilità? Sempre sul Corriere Della Sera i professori Alberto Alesina e Francesco Giavazzi scrivono:

"La giustizia civile in Italia non solo è lenta: i suoi tempi si stanno ancor più allungando. Negli anni Ottanta una procedura fallimentare durava, in media, poco più di 4 anni, ora ne dura più di 9 (dati Istat). E così le aziende trovano sempre maggiori ostacoli alla crescita. Che fare? Scartiamo subito la risposta ovvia e sbagliata: che si dovrebbe spendere di più per la giustizia. La Commissione europea sull'efficienza della giustizia (un organo del Consiglio d'Europa) calcola che lo Stato italiano spende per la giustizia 70 euro per abitante (dati relativi al 2008). La spesa in Francia è 58 euro per abitante. E non perché la Francia abbia molti meno giudici e cancellieri. I numeri sono simili: i giudici sono 9 per 100mila abitanti in Francia e 10 in Italia; i dipendenti dei tribunali con qualifica diversa da giudice sono 4 per ciascun giudice in Italia, 3 in Francia. Ciononostante la lunghezza media di un procedimento civile è la metà in Francia che in Italia. I giudici italiani sono anche pagati un po' meglio: lo stipendio base è superiore del 20% circa al corrispondente stipendio francese".

Da considerare anche il dato seguente, citato dallo stesso ministro Alfano:

"La sola immissione di risorse economiche non risolve alcun profilo di inefficienza'', spiega il Guardasigilli, citando il caso del settore dell'informatica giudiziaria, dove, dal 1996 al 2007, sono stati spesi complessivamente ''piu' di 2 miliardi di euro'', anche se ''nello stesso periodo l'arretrato sia nel settore civile che nel settore penale e' aumentato inesorabilmente".


"La situazione di partenza degli uffici giudiziari italiani non era certo delle migliori: un "bricolage informatico", come lo ha descritto il Guardasigilli, dove ognuno organizzava da sé il proprio programma di informatizzazione o, per dirla con le parole del ministro Brunetta, un apparato "balcanizzato", dove ogni ufficio aveva il suo sistema e conseguentemente il suo contratto di assistenza, con costi molto variabili. E la giungla dei costi, si sa, crea inevitabilmente sprechi di risorse. "Interrompere la balcanizzazione e creare un contratto di servizio unico per l'assistenza informatica consentirà, come è già avvenuto per le intercettazioni, di razionalizzare i costi e di diminuirli".

Ricordiamo poi le importanti disposizioni del D. Lgs. 25 luglio 2006, n. 240 che attribuiscono ai magistrati capi degli uffici giudiziari funzioni di indirizzo anche in materia amministrativa, pur nel rispetto dei compiti dei dirigenti amministrativi:

Art. 2 Gestione delle risorse umane:

"1. Il dirigente amministrativo preposto all'ufficio giudiziario e' responsabile della gestione del personale amministrativo, da attuare in coerenza con gli indirizzi del magistrato capo dell'ufficio e con il programma annuale delle attività di cui all'articolo 4".


Esaminiamo infine con attenzione questi dati sulla durata dei processi. Relativi alla sola materia civile, mostrano una variabilità da distretto a distretto riscontrabile anche nel settore penale, in parte non spiegabile guardando alle sole caratteristiche degli illeciti più diffusi nel territorio.

Da queste premesse non pare possibile trarre conclusioni univoche. La situazione, anche sotto il profilo delle responsabilità, appare difficile da districare. Si tratta del resto di un ambito dove la battaglia politico-culturale senza esclusione di colpi in atto nel nostro paese produce danni gravissimi. Ed a pagare sono soprattutto i più deboli.




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