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giovedì 30 settembre 2010

Fede e ragione. "Quando sono debole, è allora che sono forte".

Il Cristianesimo si rivolge all'uomo nella sua interezza, quindi non solo al cuore ma anche alla ragione. Il suo nucleo è costituito dalla cristologia, cioè da quanto attiene a Gesù Cristo, alla sua morte e risurrezione. E' del tutto privo di caratteristiche esoteriche. Si offre tutto alla conoscenza di tutti. Non ci sono parti della dottrina cristiana riservate alla conoscenza di iniziati. Questa sua apertura è talmente netta da fargli assumere significativi tratti antintellettualisti.
Nel corso della sua storia millenaria è venuto a contatto con le più importanti correnti filosofiche. Il Magistero della Chiesa cattolica ne ha utilizzato quando necessario l'apparato concettuale per presentare, diffondere e difendere il messaggio cristiano, quindi prevalentemente nella prospettiva apologetica.
Individuerei in particolare due linee di sviluppo dottrinale, sempre ricondotte ad una visione sostanzialmente unitaria, segnate da accentuazioni diverse e non prive di qualche elemento apparentemente divergente.
La prima pone in rilievo la capacità umana di cogliere oggettive ed assolute verità metafisiche e morali. L'uomo già con le sue sole facoltà razionali sarebbe in grado di avvicinarsi alla Rivelazione, di predisporsi ad essa, perfino di conseguire, sia pure assai confusamente ed imperfettamente, alcuni suoi contenuti.
A questa linea è riconducibile, ad esempio, questo passo dell'enciclica Humani Generis di Pio XII:

"Benché la ragione umana, assolutamente parlando, con le sue forze e con la sua luce naturale possa effettivamente arrivare alla conoscenza, vera e certa, di Dio unico e personale, che con la sua Provvidenza sostiene e governa il mondo, e anche alla conoscenza della legge naturale impressa dal Creatore nelle nostre anime, tuttavia non pochi sono gli ostacoli che impediscono alla nostra ragione di servirsi con efficacia e con frutto di questo suo naturale potere".


La seconda linea invece mette in evidenza l'insufficienza della sapienza umana e la radicale novità della Rivelazione, indicando nella consapevolezza dei limiti e della debolezza di tale sapienza una condizione necessaria per l'accoglienza della salvezza che Dio ci offre. Questa via sembra percorrere Giovanni Paolo II nel seguente brano della sua enciclica Fides et Ratio:

" Il rapporto del cristiano con la filosofia, pertanto, richiede un discernimento radicale. Nel Nuovo Testamento, soprattutto nelle Lettere di san Paolo, un dato emerge con grande chiarezza: la contrapposizione tra "la sapienza di questo mondo" e quella di Dio rivelata in Gesù Cristo. La profondità della sapienza rivelata spezza il cerchio dei nostri abituali schemi di riflessione, che non sono affatto in grado di esprimerla in maniera adeguata.
L'inizio della prima Lettera ai Corinzi pone con radicalità questo dilemma. Il Figlio di Dio crocifisso è l'evento storico contro cui s'infrange ogni tentativo della mente di costruire su argomentazioni soltanto umane una giustificazione sufficiente del senso dell'esistenza. Il vero punto nodale, che sfida ogni filosofia, è la morte in croce di Gesù Cristo. Qui, infatti, ogni tentativo di ridurre il piano salvifico del Padre a pura logica umana è destinato al fallimento. " Dov'è il sapiente? Dov'è il dotto? Dove mai il sottile ragionatore di questo mondo? Non ha forse Dio dimostrato stolta la sapienza di questo mondo? " (1 Cor 1, 20), si domanda con enfasi l'Apostolo. Per ciò che Dio vuole realizzare non è più possibile la sola sapienza dell'uomo saggio, ma è richiesto un passaggio decisivo verso l'accoglienza di una novità radicale: " Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti [...]; Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono " (1 Cor 1, 27-28). La sapienza dell'uomo rifiuta di vedere nella propria debolezza il presupposto della sua forza; ma san Paolo non esita ad affermare: " Quando sono debole, è allora che sono forte " (2 Cor 12, 10)"

Si tratta, come detto, di una diversa accentuazione di elementi tutti presenti nelle Scritture e nella Tradizione. E la differenza non cade sulla parte centrale della fede cristiana, rappresentata dalla cosiddetta cristologia.
Viene in sostanza in questione l'approccio apologetico da adottare. E allora vale la pena di considerare con attenzione le opinioni del professor Dario Antiseri che, indagando il possibile rapporto tra fede e ragione, prende le mosse dalla tendenza per seconda esaminata e propone un approccio alla fede cristiana imperniato su una concezione critica della ragione umana. Arrivando a valutare favorevolmente perfino gli esiti relativistici dell'etica contemporanea che, quando demolisce gli assoluti terrestri, fa spazio alla Rivelazione cristiana. Antiseri si richiama al pensiero di Pascal anche nella critica della morale naturale e del diritto naturale.
Egli scrive:

"In realtà, sebbene non sia stata l'unica, persiste nel mondo cattolico una tradizione che, dichiarandosi come la sola filosofia cristiana ortodossa, sostiene che c'è un sapere razionale con "tratti di oggettività e magari di incontrovertibilità" in grado di portare alla dimostrazione dell'esistenza di entità metaempiriche. La ragione, insomma, dimostrerebbe l'esistenza di quell'Ente metaempirico che poi il cristiano individuerebbe nel Dio di Gesù Cristo. E' così che la metafisica, dimostrando l'esistenza di Dio, appronterebbe i praeambula fidei configurandosi come ancilla theologie".

"Ad una ragione forte (o supposta tale), troppo sicura di sé e che presume di dimostrare la negazione dello spazio della fede ovvero, viceversa, di dimostrare l' esistenza di enti metaempirici, si è venuta progressivamente sostituendo un'idea di razionalità sempre più consapevole dei suoi limiti e che impone di reimpostare la questione dei rapporti tra ragione e fede. Di contro ad una ragione fondazionista e giustificazionista si impone una ragione non-giustificazionista stando alla quale la scienza non offre certezze, l'etica è senza verità, le metafisiche sono prive di fondamenti assoluti.
In tale prospettiva...svaniscono le dimostrazioni certe o magari incontrovertibili dell'esistenza di Dio ovvero della negazione dell'esistenza di Dio. Al loro posto subentra uno spazio di possibilità dove si fa ineludibile, perché ineludibile è la "grande domanda", la scelta atea o quella di fede". (D. ANTISERI, Cristiano perché relativista, relativista perché cristiano, 2003, pagg. 4 e 5)

E poi ancora:

"Per un cristiano, ciò che è bene e ciò che è male lo stabilisce il Vangelo o la ragione umana? E se lo stabilisse la ragione umana, non dovremmo allora dare ragione ai sostenitori della “dea ragione”, per i quali “mestier non era parturir Maria”?
Per un cristiano solo Dio è assoluto, per cui tutto ciò che è umano non può essere che storico, contestabile, relativo.
Il cristiano, pena la sua metamorfosi in idolatra, può predicare l’assolutezza di qualche cosa umana, comprese le proposte etiche?"

" L’umana ragione non è capace di fondare in modo univoco e incontrovertibile i valori, e la morale non trova il suo porto nella ragione. Lo trova nella fede, nel Dio dei cristiani. “La vera religione c’insegna i nostri doveri”. La vera giustizia è quella “secondo a Dio piacque di rivelarcela”. Solo Dio è “il vero bene” dell’uomo. In fondo, tutti i nostri “lumi” potranno solo farci conoscere che in noi non troveremo “né la verità né il bene”. In breve, “senza la fede l’uomo non può conoscere né il suo vero bene né la giustizia”. E la fede cristiana – dono da parte di Dio e scelta da parte dell’uomo – è una fede che va predicata, proposta e testimoniata, e non imposta. E se Pascal ha ragione, la presunzione di sapere, di conoscere, al di fuori della Sacra Rivelazione, che cosa sia il vero bene, non è forse una presunzione anticristiana? "





Come non pensare appunto a san Paolo che afferma: "Quando sono debole, è allora che sono forte "?



venerdì 24 settembre 2010

Le difficoltà di Obama e la crisi americana.

La ripresa economica americana è più lenta e debole del previsto. La popolarità di Obama scende mentre tra poco più di un mese le elezioni di midterm potrebbero rovesciare l'attuale maggioranza al Congresso. Gli Stati Uniti sono oggi come due anni fa un paese diviso e disorientato. Lo stesso disorientamento che ha portato Obama alla presidenza oggi, in altre direzioni e con differenti modalità, determina il successo del Tea Party.
Ma le ragioni profonde della crisi restano troppo spesso in ombra. La globalizzazione rapida e senza regole ha messo a nudo problemi di produttività e di competitività soltanto in parte mascherati dal successo di alcune grandi compagnie. Appare insostenibile una crescita stimolata dal debito privato ed ora anche da quello pubblico. La disgregazione delle famiglie, l'indebolirsi dell'etica del lavoro e della responsabilità, l'insufficiente propensione al risparmio individuale e familiare, l'inefficienza della scuola pubblica, la diffusione di stili di vita autodistruttivi minano i pilastri di una ripresa economica diffusa e solidamente proiettata nel futuro.
Le riforme di Obama, dirette a tamponare la crisi con l'imponente ricorso alla spesa pubblica e con discussi interventi in ambito assistenziale, non incidono realmente su quelle fondamenta sociali e morali che sono chiamate a reggere il paese ed a consentirne un solido sviluppo. Si tratta del resto di ambiti dove le tradizioni svolgono un ruolo decisivo. Esiste una significativa asimmetria tra la capacità dello stato di contribuire alla distruzione di un assetto tradizionale tramite riforme dalle conseguenze spesso impreviste e l'idoneità dello stato stesso a promuovere ed a consolidare altre auspicate tradizioni. Qui distruggere è assai più facile che costruire.
Occorre insomma ottenere una consapevolezza più precisa delle ragioni profonde della debolezza del paese ed assumere comportamenti conseguenti, abbandonando visioni e programmi che di questa debolezza sembrano insieme causa ed espressione. Con l'obiettivo di ricostruire una solida e vitale democrazia liberale, capace di confrontarsi con successo con il rinnovato autoritarismo cinese.
Se Obama non rinnegherà se stesso, le sue promesse ed i suoi programmi del suo grande paese potrà essere solo il liquidatore, il curatore fallimentare. E non per molto. Questo video, uno spot di Sarah Palin, mostra un'America profonda che noi europei spesso non comprendiamo. La sua reazione può ancora sorprendere. Vedremo quale direzione prenderà.




mercoledì 15 settembre 2010

Il nuovo autoritarismo nell'età della globalizzazione. I problemi di efficienza delle democrazie liberali.

Nell'economia globalizzata gli imprenditori si procurano ormai liberamente i fattori della produzione in qualsiasi parte del mondo, dove sono più convenienti, mentre i consumatori acquistano beni e servizi provenienti anche dai paesi più lontani.
Queste relazioni collegano gli interi sistemi paese come vasi comunicanti. Si produce una pressione ad uguagliare tutti gli elementi che determinano, anche indirettamente, la convenienza dei fattori della produzione, dei prodotti e dei servizi. 
Tali elementi comprendono le caratteristiche della pubblica amministrazione, la presenza e il modo di operare di partiti e sindacati, perfino le forme di stato e di governo. Sono rilevanti la prontezza dei governi a prendere decisioni, la rapidità nell'eseguirle, la loro capacità di fare, tener fermi ed attuare programmi a lunga scadenza, di imporre la costruzione di infrastrutture necessarie a comunità locali recalcitranti, di influire adeguatamente sulla propensione di individui e famiglie al risparmio ed al differimento della soddisfazione dei desideri.
Bisogna francamente ammettere che i rinnovati regimi autoritari del Ventunesimo secolo, tra i quali il cinese rappresenta ormai un modello, eliminati o ridotti i tratti di ferocia ed ottusità che prima li caratterizzavano pesantamente, costituiscono ormai sotto questo profilo antagonisti delle democrazie liberali assai insidiosi.
Tali democrazie tendono al contrario ad avere processi decisionali pubblici lenti e farraginosi, a subordinare l'azione dei governi alle tendenze ondivaghe dell'opinione pubblica sotto la pressione di scadenze elettorali ravvicinate, a subire eccessivamente il condizionamento dei sindacati. Esistono insomma per le democrazie occidentali evidenti problemi di efficienza.
Quali soluzioni? Premesso che le tradizioni in questo ambito rivestono un ruolo molto importante e si formano in larga misura spontaneamente, occorre riconoscere che le riforme ipotizzabili sembrano assai impopolari.
Si dovrebbe limitare il ruolo degli istituti di democrazia diretta, rafforzare per converso i tratti rappresentativi delle istituzioni democratiche, diradare le consultazioni elettorali, diminuire il peso dei parlamenti, soprattutto escludendo la possibilità di modificare i provvedimenti di spesa presentati dai governi al vaglio dei parlamenti stessi, adottare sistemi elettorali intensamente maggioritari su base nazionale, favorire la stabilità dei governi, circoscrivere attentamente le competenze delle autonomie locali.
Svolta autoritaria? Morte della libera democrazia? No! Ritorno al suo ruolo essenziale di consentire la sostituzione dei governi cattivi senza spargimento di sangue, seguendo percorsi istituzionali predeterminati. Nell'Atene democratica classica Pericle pose a fondamento e giustificazione della democrazia rappresentativa il principio secondo il quale non tutti possono governare, ma tutti devono poter giudicare chi governa. Troppo a lungo ci siamo allontanati da questa corretta visione delle possibilità e del ruolo della democrazia.



giovedì 9 settembre 2010

Libertà religiosa e tolleranza. Libertà e tolleranza non devono essere causa della propria distruzione


Negli Stati Uniti la proposta di costruire una moschea a Ground Zero ha determinato una accesa controversia tra favorevoli e contrari. I primi, tra i quali il sindaco Bloomberg e lo stesso presidente Obama, hanno invocato i principi costituzionali di libertà religiosa e di tolleranza.
Però il richiamo di Obama a tali principi presta il fianco ad obiezioni fondamentali. In realtà libertà e tolleranza non solo possono ma devono essere limitate e regolate. Va poi sottolineato che le religioni sono molto diverse tra loro quanto a contenuti ed effetti sul piano sociale, culturale, istituzionale e perfino economico.
Solo regole e limiti possono garantire a tutti uguale libertà e tolleranza. Ed ancora solo regole e limiti possono evitare che libertà e tolleranza siano causa della propria distruzione. Uno dei più lucidi ed influenti intellettuali liberali del Novecento, Karl Popper, scrive nella Società aperta e i suoi nemici, nota 4 al capitolo settimo del volume primo:

"Se estendiamo l'illimitata tolleranza anche a coloro che sono intolleranti, se non siamo disposti a difendere una società tollerante contro l'attacco degli intolleranti, allora i tolleranti saranno distrutti, e la tolleranza con essi."

"Noi dovremmo quindi proclamare, in nome della tolleranza, il diritto di non tollerare gli intolleranti. Dovremmo insomma proclamare che ogni movimento che predica l'intolleranza si pone fuori legge e dovremmo considerare come crimini l'incitamento all'intolleranza e alla persecuzione, allo stesso modo che consideriamo un crimine l'incitamento all'assassinio, al ratto o al ripristino del commercio degli schiavi."

Molto importante è inoltre porre in rilievo che non tutte le religioni sono compatibili con le istituzioni libere e la società aperta. Oggi l'esigenza di osservare i canoni del "politicamente corretto" prevale sul rispetto della verità. Ma non è sempre stato questo l'approccio prevalente. I grandi precursori del pensiero liberale non erano certo dominati da tali preoccupazioni.
Significative le parole di Tocqueville nella Democrazia in America, libro terzo, parte prima, capitolo quinto:

"... nel Corano non solo dottrine religiose, ma anche massime politiche, leggi civili e criminali e teorie scientifiche. Il Vangelo, invece, parla solo dei rapporti generali degli uomini con Dio e fra loro. Al di fuori di questo non insegna nulla e non obbliga a credere nulla. Questo soltanto, fra mille altre ragioni, basta a mostrare che la prima di quelle due religioni non può dominare a lungo in tempi di...democrazia, mentre la seconda è destinata a regnare anche in quei secoli come in tutti gli altri."

E, prima di lui, Montesquieu, nel libro ventiquattresimo, capitoli quarto e terzo dello Spirito delle leggi:

"Per quanto riguarda il carattere della religione cristiana e quello della religione musulmana, si deve senz'altro abbracciare l'una e respingere l'altra: perchè per noi è molto più evidente che una religione debba addolcire i costumi degli uomini, di quanto non sia evidente che una religione è la vera.

E' una sciagura per la natura umana che la religione sia data da un conquistatore. La religione maomettana, la quale non parla che di spada, influisce ancora sugli uomini con quello spirito distruttore che l'ha fondata.

La religione cristiana è lontana dal dispotismo puro: infatti, essendo la mitezza tanto raccomandata nel Vangelo, essa si oppone alla collera dispotica con cui il principe si farebbe giustizia e metterebbe in pratica le sue crudeltà.

.....dobbiamo al cristianesimo, nel governo un certo diritto politico, e nella guerra un certo diritto delle genti, di cui l'umanità non potrebbe mai essere abbastanza riconoscente."

La società aperta e le istituzioni libere hanno bisogno di difensori forti ed attenti. Senza di essi anche i più solidi baluardi cadono.



sabato 28 agosto 2010

Elezioni. La scelta importante.

Mentre si affaccia la possibilità di elezioni anticipate, assai criticata è la legge elettorale vigente. Si lamenta l'impossibilità di esprimere preferenze. Si propone il passaggio ai collegi uninominali. Ma bisogna essere franchi. Per queste vie la libertà di scelta dell'elettore ed il peso del suo voto possono essere ridotti invece che crescere.
Sulle preferenze va detto che, senza elezioni primarie, una o poche che siano, le candidature vengono comunque decise dai partiti o dalle loro correnti. La concorrenza tra candidati dello stesso partito produce un aumento dei costi della politica e quasi certamente un aumento degli illeciti commessi per ottenere i soldi necessari. L'accentuarsi del fenomeno delle correnti dei partiti ne riduce la capacità di proposta e decisione. L'eventuale introduzione delle cosiddette elezioni primarie non esclude l'ingerenza dei vertici dei partiti mentre non offre alcuna garanzia che siano scelti candidati più capaci di quelli che emergono dalla tradizionale selezione interna.
Quanto ai collegi uninominali, a prescindere dalla questione del turno unico o doppio, oltre a quanto premesso, va sottolineato che essi non incrementano la probabilità di maggioranze parlamentari stabili nè assicurano che l'elettore possa scegliere direttamente chi dovrà governare. Nelle recenti elezioni inglesi, proprio con i tradizionali collegi uninominali, la scelta della coalizione di governo è stata fatta non dagli elettori ma dai vertici dei partiti, con trattative successive. In effetti la disomogenea distribuzione territoriale dei consensi e la ristrettezza dei collegi può non raramente escludere la scelta diretta dei governanti. Mentre disegnando i confini dei collegi stessi si può furbescamente influenzare l'esito della consultazione elettorale.
La scelta diretta dei governanti e soprattutto il diretto giudizio su chi ha governato rappresentano invece le questioni fondamentali e le libertà più preziose per il cittadino elettore. Solo situazioni straordinarie possono giustificare misure volte a rendere meno diretta l'efficacia del voto popolare.

sabato 21 agosto 2010

La ripresa dei negoziati diretti tra Israeliani e Palestinesi. Pace possibile oppure operazione propagandistica?

Presto riprenderanno i negoziati diretti per porre fine al conflitto israelo-palestinese. Il presidente Obama ed il suo segretario di stato Clinton hanno promesso un forte impegno della amministrazione americana per ottenere risultati concreti entro un anno.
Ma i problemi da risolvere per avere una pace genuina e duratura sono tuttora privi di una possibile soluzione. Il carattere ebraico dello stato israeliano è considerato irrinunciabile e non negoziabile dagli Israeliani. Mentre altrettanto irrinunciabile e non negoziabile è per i Palestinesi il ritorno dei profughi palestinesi in Israele.
Queste sono le premesse reali della trattativa, che consentono al massimo il consolidamento di una tregua. Ma Obama deve affrontare le elezioni imminenti. Il bilancio della sua presidenza è fallimentare. Anche un successo esclusivamente propagandistico sulla scena internazionale sembra importante. I governanti israeliani e palestinesi staranno al gioco.

sabato 14 agosto 2010

Giovanni Giolitti. Memorie della mia vita







Mentre si prepara la celebrazione dell'Unità d'Italia ricordiamo il primo vero grande statista dell'Italia unita, Giovanni Giolitti. Piemontese, di estrazione borghese e formazione giuridica, segnò con la sua opera un'intera stagione politica italiana. I suoi governi modernizzarono il paese e ne allargarono la base democratica.
Cercò di evitare la Prima guerra mondiale e la partecipazione ad essa dell'Italia. Tentò di coinvolgere i socialisti nel governo. Lavorò per inserire il movimento fascista nelle istituzioni costituzionali e smorzarne così l'impeto eversivo. Ad altri in larga misura è imputabile il fallimento di questi obiettivi.
Le Memorie della mia vita sono un documento fondamentale per la comprensione di una grande parte della storia dello stato italiano unitario e dei suoi problemi. Da esse emergono l'Italia che è stata e quella che sarebbe potuta essere.
Si possono interamente e gratuitamente leggere qui:

Volume I

Volume II

Alcune brevi citazioni evocano con immediatezza i tratti antiretorici e pragmatici del suo carattere e la sua lucida e lungimirante intelligenza.

"Quando sopraggiunse la guerra del cinquantanove, avevo diciassette anni; ero figlio unico di madre vedova, e non potevo lasciarla."

Poi, sulla Prima guerra mondiale:

"Ricordavo i due tentativi dell'Austria, che avevo concorso a sventare, per aggredire la Serbia nell'anno precedente, e sentivo e sapevo che il partito militare austriaco mirava ostinatamente a tale scopo; ma io confidavo che le ragioni della pace, che erano così grandi e universali, avrebbero prevalso contro quella criminale infatuazione. La guerra con la Serbia era voluta dai militaristi austriaci come mezzo per sanare le discordie interne, con l'illusione che essa potesse rimanere isolata; ma io pensavo che le altre potenze, che non avevano quelle ragioni e non potevano farsi illusioni sul contegno della Russia di fronte ad una tale provocazione, e che avrebbero dovuto comprendere l'enormità del disastro che la guerra europea sarebbe stata per tutti, avrebbero all'ultimo trovato un compromesso ed una transazione che evitasse l'immane rovina."

"...io osservavo che non si può portare il proprio Paese alla guerra per ragione di sentimento verso altri popoli, ma solo per la tutela del suo onore e dei suoi primari interessi. Tali sono le ragioni pratiche...per le quali io esprimevo parere contrario all'entrata dell'Italia in guerra; e le quali, per quanto riguarda le previsioni della durata della guerra, delle sue difficoltà e dei sacrifizi di uomini e di ricchezza che essa implicava, furono poi pienamente confermate dagli avvenimenti."




Per approfondire: Aldo A. Mola - "Giovanni Giolitti. Il senso dello Stato"





domenica 8 agosto 2010

Riforme liberali. Riforme per il consenso, consenso per le riforme.




Uno dei pochi genuini intellettuali liberali che l'Italia può vantare, Piero Ostellino, ha scritto sul Corriere della Sera:

"...il presidente del Consiglio ha un solo modo di ripristinare la propria leadership appannata. Recuperare la vecchia spinta propulsiva liberale della prima ora. Interpretare le esigenze economiche e sociali e le pulsioni di «piccoli», imprese, professionisti e autonomi...".

Qui Ostellino, certo perché costretto negli spazi angusti di un quotidiano, salta alcuni passaggi fondamentali. Quale dovrebbe essere la struttura di un programma liberale? Quali le condizioni per la sua realizzazione? E' molto diffusa nell'opinione pubblica una visione caricaturale del liberalismo, concepito come assenza di regole che consente abusi e sopraffazioni. Il liberalismo è favore per la libertà individuale ma, proprio in vista di questo obiettivo fondamentale, richiede invece ai governi che vogliano ispirarsi ad esso un impegno vasto e multiforme. Appare ancora insuperata l'indicazione dei compiti di un governo liberale che Adam Smith destinò a contrassegnare il libro quinto del suo La ricchezza delle nazioni:

" Al primo dovere del sovrano, quello di proteggere la società dalla violenza e dall'aggressione di altre società indipendenti, si può adempiere solo per mezzo di una forza militare."

"Il secondo dovere del sovrano, quello di proteggere, per quanto possibile, ogni membro della società dall'ingiustizia e dall'oppressione di ogni altro membro della società stessa, cioè il dovere di instaurare un'esatta amministrazione della giustizia"

"Il terzo e ultimo dovere del sovrano o della repubblica è quello di erigere e conservare quelle pubbliche istituzioni e quelle opere pubbliche che, per quanto estremamente utili a una grande società, sono però di natura tale che il profitto non potrebbe mai rimborsarne la spesa a un individuo o a un piccolo numero di individui, sicché non ci si può aspettare che un individuo o un piccolo numero di individui possa erigerle o conservarle...opere e istituzioni di questo genere sono principalmente quelle per facilitare il commercio della società e quelle per promuovere l'istruzione della popolazione".

Questi principi conducono ad una azione riformatrice capace di rafforzare l'autorevolezza dei governi e di procurare loro consensi. Ciò però è meno semplice di quanto appare. Una parte di queste riforme pesa su una spesa pubblica che già pone notevoli problemi. Ma alcune di esse possono costare anche sotto il profilo del consenso. Tanti sono i beneficiari di assetti e metodi corporativi ed illiberali, anche tra i soggetti citati da Ostellino. Basti pensare alla necessaria riforma degli ordini professionali. Mentre il tentativo di riformare giustizia e scuola sta già provocando resistenze che non sembrano guardare tutte all'interesse del paese.
Dunque non è facile procedere nel senso auspicato da Ostellino. E' necessaria una cultura liberale diffusa che non c'è. Mentre potrebbe mancare il consenso proprio a quelle riforme che lo stesso Ostellino considera idonee a crearlo.

venerdì 30 luglio 2010

L' informazione militante. Purchè non sia la sola.


In una lettera a Lord Coleraine del 31 maggio 1970, che si può leggere in Karl POPPER, Dopo La società aperta, ed. 2009, pagg. 385 e 386, il filosofo austriaco scrive:

" Per motivi a me del tutto ignoti, la propaganda di sinistra ha ottenuto una vittoria in quasi tutti i Paesi occidentali che può essere definita solo come completa. Sembra che essi si siano accaparrato il monopolio nel controllo di tutti i "mass-media" (la loro orribile terminologia). Come ciò possa essere accaduto non so..."

Questo pare vero in larga misura anche oggi. Il giornalismo militante "liberal", progressista, mostra ancora una straordinaria capacità di costruire reti e collegamenti, di conquistare redazioni, ordini professionali, scuole di giornalismo.
Il primo organizzatore e l'insuperato maestro di questa forma di militanza è stato con ogni probabilità il vecchio Willi Munzenberg. Comunista tedesco al servizio dei sovietici, editore ed organizzatore apparentemente indipendente di movimenti, campagne propagandistiche ed eventi culturali, diffuse idee e visioni del mondo tuttora presenti e vive nella opinione pubblica delle democrazie occidentali. Molti, di solito senza sapere nulla di lui, oggi applicano ancora i suoi metodi ed adottano le sue tattiche.
Non è possibile separare i fatti dalle opinioni. Informare vuol dire inevitabilmente anche formare. Individuare i fatti rilevanti e presentarli in un modo piuttosto che in un altro è necessariamente il frutto di una scelta. Ogni giornalista informando tenta di convincere, di accreditare una lettura della realtà.
Ma il giornalista militante va oltre. Cerca di influenzare la vita politica, di aiutare o danneggiare politici o movimenti politici. Tenta addirittura di redigere l'agenda politica, di diventare l'effettivo titolare dell'indirizzo politico. La ricerca della verità viene in subordine. La verità è per lui solo un sottoprodotto eventuale, uno strumento di cui talvolta avvalersi.
Tutto sommato meglio il giornalista che cerca lo scoop per guadagnare di più e vivere nel lusso. E' meno pericoloso per la libertà. E qualche volta finisce pure per darle una mano.

martedì 20 luglio 2010

Cristianesimo e condizione femminile. I musulmani alla scoperta dell'Europa.




Quello dell'influenza del cristianesimo sulla condizione della donna occidentale è un tema controverso e lungamente dibattuto. Sembra però prevalere la convinzione che la religione tradizionalmente dominante in Occidente abbia svolto in quest'ambito un ruolo negativo. E' opinione comune che quindici secoli di egemonia cristiana abbiano costituito un lungo periodo di limitazione della libertà della donna, di lesione della sua dignità e di repressione sessuale. Ma è davvero così?
Almeno qualche dubbio fanno sorgere le testimonianze dei musulmani che hanno visitato l'Europa cristiana dal nono al diciannovesimo secolo, prima che il disincanto e la secolarizzazione che hanno progressivamente segnato gli ultimi duecento anni ed in particolare il Secondo dopoguerra mutassero di nuovo radicalmente costumi, visioni del mondo ed assetti giuridici. Il merito di aver raccolto e reso accessibili al grande pubblico queste testimonianze è del professor Bernard Lewis, uno dei più autorevoli studiosi dell'Islam e del Medio Oriente del Novecento. Nel suo I musulmani alla scoperta dell'Europa, ed. 2004, pagg. 351 e segg., Lewis scrive:

"Dall'esame dei libri di viaggio tramandatici, possiamo asserire che, fino al XIX secolo, i visitatori musulmani in Europa furono tutti, senza eccezione, uomini.
Tuttavia, la maggior parte di essi esprime qualche osservazione sul tema della donna e del suo ruolo nella società...: l'istituzione cristiana del matrimonio monogamico, l'assenza di norme sociali che limitino in modo sostanziale la libertà della donna e la considerazione in cui sono tenute anche dalle persone di elevato rango destano immancabilmente meraviglia, sebbene mai ammirazione, nei visitatori provenienti dalle terre islamiche".

"Un fatto che non poteva lasciare indifferenti gli osservatori musulmani sia dell'età medievale che dell'età moderna era, per esprimerci con i loro termini, la licenziosa libertà delle donne e la straordinaria mancanza di virile gelosia negli uomini"

"C'era un connotato della società cristiana che puntualmente sconcertava gli stranieri musulmani: il rispetto con cui venivano trattate le donne in pubblico. Evliya osserva:

In quel paese vidi una cosa straordinaria. Se l'imperatore incontra una donna per strada ed è a cavallo, si ferma e cede il passo alla donna. Se, invece, egli è a piedi e incontra una donna, si ferma in atteggiamento cortese. Poi la donna saluta l'imperatore ed egli si leva il cappello e si rivolge alla donna con deferenza e riprende il cammino solo dopo che ella sia passata. E' uno spettacolo straordinario.
In questo paese, come pure in altre terre degli infedeli, l'ultima parola spetta alle donne, che vengono onorate e riverite per amore di Madre Maria".

Di straordinaria importanza queste ultime parole di Evliya. Viene messo in rilievo il consapevole rapporto tra tradizione cristiana e trattamento riservato alla donna.
Le fonti musulmane qui citate rappresentano testimonianze certamente dirette a stupire il lettore. Ma la preoccupazione di sorprendere, di meravigliare, non le rende meno significative. Emerge un quadro sostanzialmente inaspettato, capace di porre in discussione più d'un luogo comune.

Bernard LEWIS, I musulmani alla scoperta dell'Europa, prima edizione, 2004.




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