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domenica 8 novembre 2015

Scuola italiana. Le fragili fondamenta di un paese in declino.





Su Il Corriere della Sera del 6 novembre 2015 Ernesto Galli della Loggia ha denunciato le gravi condizioni in cui versa la scuola italiana. Le grandi agenzie educative che hanno determinato l'affermazione e lo sviluppo delle democrazie occidentali sono state la famiglia, le chiese cristiane e la scuola. Tali agenzie sono oggi in crisi in tutti questi paesi, ma la situazione peggiore è quella dell'Italia. Il declino italiano si spiega anche e soprattutto così. La scuola italiana non è più in grado di educare il cittadino e di formare il produttore. La libertà responsabile e le necessarie competenze matematiche, scientifiche e tecniche non vengono più adeguatamente acquisite dai giovani del nostro paese. Scrive il professor Galli della Loggia:

"Perché da noi il disciplinamento sociale si mostra così debole? Perché da noi non funzionano quei meccanismi che servono a ricordare nelle più svariate occasioni che «non si può fare come si vuole», che ci sono delle regole necessarie alla convivenza per ogni violazione delle quali ci sono delle sanzioni? E perché queste non sembrano preoccupare nessuno? Un principio di risposta va cercato nella crisi profondissima che in Italia ha colpito da decenni (insisto: da decenni) la scuola, la quale - stante il forte indebolimento dell’istituto familiare, dell’influenza religiosa e la fine del servizio di leva - è divenuta da molto tempo l’agenzia primaria se non unica del disciplinamento sociale degli italiani: con esiti che sono sotto gli occhi di tutti". 

"... ormai non sono affatto rari i casi, già nelle scuole medie, non solo di aperta irrisione e insofferenza da parte degli studenti verso gli insegnanti, ma addirittura di minacce e insulti nei loro confronti: e quasi sempre senza che ciò produca sanzioni degne di questo nome (il caso della sospensione inflitta l’altro ieri in una scuola del Torinese a una quindicina di allievi, è la classica eccezione che conferma la regola). Da tempo infatti nella scuola italiana - complici l’aria dei tempi, la voglia di non avere fastidi, l’arroganza di molti genitori inclini a proteggere sempre il «cocco di casa» anche se è un teppista in erba - da tempo, dicevo, domina un permissivismo distruttivo e frustrante".

"Un permissivismo che prende, tra le molte altre, la forma della promozione d’ufficio. Certo, non è scritta da nessuna parte (almeno suppongo), ma di fatto vige la regola che nella scuola dell’obbligo, cioè fino alla terza media, è vietato bocciare. L’effetto di tutto ciò è che in generale il meccanismo didattico risulta privo di quello che da che mondo e mondo è il solo, vero (e infatti altri finora non ne sono stati inventati), strumento di sanzione. Ma ancora più importante, però, è che dominata da un tale meccanismo perverso, la scuola finisce inesorabilmente per perdere ogni reale capacità di insegnare qualcosa...oggi termina la scuola dell’obbligo un grandissimo (insisto: grandissimo) numero di studenti incapaci di scrivere correttamente in italiano, di fare il riassunto di un testo appena complesso, di risolvere un pur non difficile problema di matematica".

"Da almeno due o tre decenni i giovani italiani crescono e si socializzano in questo ambiente scolastico. Qui apprendono che cos’è la cultura, cosa sono le regole, che cosa l’autorità, e che conto tenerne. In piccolo imparano insomma come funziona il loro Paese: ci si può meravigliare se poi, quando crescono, si regolano di conseguenza?".

Parole chiare, largamente condivisibili. Ma ormai si tratta di un danno irreversibile. Come possono insegnanti formati in questo clima trasferire alle nuove generazioni valori e competenze che non hanno?

domenica 1 novembre 2015

Crisi. Le banche centrali e l'economia reale.





Ormai anche sui grandi media che abitualmente lodano l'operato delle banche centrali si fa strada qualche lucida voce critica. Su Il Sole 24 Ore del 28 ottobre 2015 Morya Longo delinea un'economia reale ormai refrattaria agli stimoli monetari:

"Sui mercati finanziari si inizia dunque a dubitare dell’efficacia di questi poderosi sforzi da parte delle banche centrali. Nessuno nega che senza una politica monetaria globale così espansiva oggi la situazione sarebbe molto peggiore, ma tanti iniziano a pensare che ci sia una eccessiva sproporzione tra lo sforzo monetario e il risultato economico raggiunto. Dal 2009 le banche centrali del mondo hanno infatti tagliato i tassi 626 volte e hanno stampato molte migliaia di miliardi di dollari, ma oggi sono ancora costrette a aumentare lo sforzo. Come se non bastasse mai".

"Ecco perché sul mercato inizia a farsi largo la sensazione che crescita, inflazione e lavoro fatichino a riprendersi anche per motivi strutturali, non solo congiunturali. Lo pensa Antonio Cesarano, economista di Mps Capital Market: «Il quantitative easing è un tentativo di rimettere in moto il motore, pur sapendo che qualcosa di strutturale è cambiato»".

"Lo scrive anche Albero Gallo, economista di Rbs: «Se il mercato del lavoro fiacco, i salari polarizzati e la conseguente bassa inflazione sono strutturali, allora gli stimoli ciclici non possono risolvere i problemi». Insomma: se i nodi economici che affliggono il mondo non sono solo legati alla congiuntura ma a fenomeni molto più profondi come la demografia, la globalizzazione e la digitalizzazione, allora non è stampando moneta che si mettono a posto le cose. Magari si evita che peggiorino. Ma senza una efficace politica economica da parte dei Governi, senza uno sforzo strutturale maggiore di quello attuale, non si raggiungono i risultati".

"Questi imprevedibili cambiamenti epocali potrebbero insomma modificare il volto all’economia mondiale e potrebbero rendere strutturalmente vani i super-sforzi delle banche centrali. Il rischio è che combattano contro un nemico diverso dal passato con armi che diventano meno efficaci, creando bolle sui mercati ma modesti risultati sull’economia reale".

Manca nella analisi di Longo un adeguato accenno all'espansione fuori controllo del debito pubblico e privato, fattore scatenante della crisi scoppiata nel decennio precedente.  Ma il richiamo alla situazione dell'economia reale coglie nel segno. Poco o nulla invece sui possibili rimedi. Cosa fare per spingere la grande liquidità che segna i mercati finanziari verso l'economia reale? Come ripristinare  condizioni favorevoli agli investimenti privati? I possibili rimedi sono noti da tempo: ridurre il peso del welfare dandogli un assetto produttivistico, diminuire il perimetro pubblico, la spesa pubblica e la pressione fiscale, rendere effettiva la concorrenza in tutti i settori, diffondere le competenze matematiche, scientifiche e tecniche, regolare i flussi migratori, uniformare le regole per tutti gli operatori, incrementare la certezza del diritto.
Solo i governi possono intraprendere questo difficile percorso. Ma ai probabili vantaggi corrisponderebbe la delusione dei tanti elettori che hanno tratto beneficio da privilegi, credito facile, ingiustificata ampiezza del settore pubblico, speculazione finanziaria, welfare generoso. Un nuovo blocco elettorale, che sorga dall'alleanza tra merito e bisogno, deve imporre una svolta a rappresentanti politici poco inclini a decisioni coraggiose.

domenica 25 ottobre 2015

Democrazia. Cattivi elettori, cattivi governi.



L' Istituto Bruno Leoni lodevolmente presenta un articolo di Diego Gabutti, da Italia Oggi del 20 ottobre 2015, che sui politici democratici cita Jorge Luis Borges:

«Nessun politico può essere una persona onesta. Un politico sta cercando degli elettori e dice quel che gli elettori s'aspettano che dica. La professione dei politici è mentire: Il caso d'un re è diverso. Un re è qualcuno che riceve questo destino, e poi deve compierlo. Un politico no, un politico deve fingere e sorridere, simulare cortesia, deve sottomettersi malinconicamente ai cocktail,agli atti ufficiali, alle ricorrenze patrie. E uno specchio o l'eco di ciò che altri pensano».

Borges coglie un difetto della democrazia che la vizia in profondità, compromettendone spesso l'efficienza. Lucidamente  Karl Popper osservò che il suo grande vantaggio risiede infatti nella possibilità che offre di eliminare i cattivi governi senza spargimento di sangue. Ma cosa si può fare per migliorare le prestazioni dei governanti democratici? Se un politico "dice quel che gli elettori s'aspettano che dica" allora bisogna fare in modo che gli elettori chiedano non illusioni, ma verità, efficienza, responsabilità. Pare insomma fondamentale il ruolo dell'educazione e della formazione del cittadino. Un cittadino educato alla verità e alla responsabilità le pretenderà a sua volta dai suoi rappresentanti. L'importanza dell'educazione è ben sottolineata nel grande pensiero liberale. Karl Popper e Tocqueville la posero al centro delle loro riflessioni, mentre Montesquieu scrisse:

"E' nel governo repubblicano che si ha bisogno di tutta la potenza dell'educazione...la virtù politica è una rinuncia a sè, cosa che è sempre molto penosa. Si può definire questa virtù, l'amore delle leggi e della patria. Quest'amore, richiedendo una preferenza continua verso l'interesse pubblico in confronto al proprio, conferisce tutte le virtù particolari: esse non sono altro che tale preferenza. Quest'amore è particolarmente legato alle democrazie. Soltanto in esse il governo è affidato ad ogni cittadino" (MONTESQUIEU, Lo spirito delle leggi, Capitolo quinto).

Se gli Italiani fossero stati educati e formati adeguatamente avrebbero sommaria consapevolezza, ad esempio, della composizione e dell'ammontare della spesa pubblica, dei numeri dell'occupazione e della pressione fiscale, delle grandezze in gioco. Sorriderebbero dunque delle affermazioni dei loro rappresentanti politici.

domenica 18 ottobre 2015

Israele - Palestina. Sempre più evidente il conflitto religioso.




Maurizio Molinari su La Stampa del 18 ottobre 2015 sottolinea i tratti religiosi dell'Intifada dei coltelli che insanguina Israele:

"Attacchi alla Grotta dei Patriarchi, attentati alla tomba di Simone il Giusto, agguati nei pressi del luogo del primo Tabernacolo, l’incendio alla Tomba di Giuseppe, scontri nella Valle di Kidron e la moschea di Al Aqsa come incandescente contenzioso: l’Intifada dei coltelli ha per protagonisti i luoghi santi assegnando a questa rivolta palestinese un carattere religioso che la distingue dal nazionalismo delle precedenti sollevazioni anti-israeliane, nel 1987 e 2000".

"Il Movimento islamico della Galilea ha creato i gruppi di «Morabitun» - le sentinelle coraniche, divise in unità di uomini e donne - per difendere Al Aqsa dai «sacrilegi» e Hamas ha coniato l’espressione «Intifada di Al Aqsa», con il proprio leader politico Ismail Hanyeh, per impossessarsi dell’intera rivolta".

In realtà tra Israeliani e Palestinesi il conflitto è da sempre anche religioso. Già quando prevalevano leader palestinesi laici e nazionalisti la pace era resa impossibile da fattori religiosi. Nessuno di tali leader poteva rinunciare al ritorno in Israele dei palestinesi usciti dai suoi confini dopo la fondazione del nuovo stato. Ma soprattutto nessun capo palestinese, oggi come allora, anche dalla più tiepida fede islamica, può riconoscere davvero e senza riserve uno stato ebraico che comprenda territori abitati o un tempo abitati da musulmani.
Quella tra Israeliani e Palestinesi è fin dall'inizio una contrapposizione non componibile. Le grandi potenze che hanno consentito ai due nazionalismi religiosi di porre le premesse del conflitto sono responsabili del sangue versato.

sabato 10 ottobre 2015

Crisi. Si salvi chi può, nessuno si salva.




 Phastidio.net, dando conto delle difficoltà dell'Ilva, tocca temi fondamentali per la comprensione della crisi in atto:

"Per l’industria italiana è un momento delicato: perdere l’acciaio equivarrebbe ad un duro colpo al tessuto industriale del paese, oltre che alla nostra bilancia commerciale. Già il fatto che le nostre importazioni di acciaio siano aumentate, nella prima parte dell’anno, del 4,2% dalla Ue e del 32% da extra-Ue è ben più di un campanello d’allarme che rischia di diventare campana a morto, per la fuga di clienti dall’Ilva. Facciamo a capirci: non è che si debba diventare protezionisti, se la propria industria domestica opera con strutture di costo insostenibili. Ma serve comunque essere consapevoli che le condizioni competitive, in alcuni settori globali, non sono un level playing field. , e che dove c’è sovracapacità globale il rischio di esiti traumatici è ancor più elevato. Più in generale, l’intera industria europea farebbe bene a prendere coscienza che la Cina è ormai divenuta “altro”: un po’ meno prateria per la manifattura occidentale, molto più un potente generatore di deflazione globale".

"Le condizioni di ampia e crescente sovracapacità produttiva di molti settori industriali cinesi rappresentano una costante minaccia deflazionistica per l’economia mondiale. I cinesi potrebbero decidere di dare l’assalto ai mercati globali per saturare la propria capacità produttiva, e di farlo con vendite a prezzi inferiori ai costi di produzione, contando sulla presenza pubblica e sui sussidi che essa implica".

" Finché Pechino non gode dello status di economia di mercato nella WTO, è più facile che subisca dazi compensativi da parte di paesi che vogliono difendersi dai tentativi di rottura di prezzo sui propri mercati domestici: diversamente, tutto diverrebbe più difficile".

Sussidi pubblici ai produttori, dazi e svalutazioni compensativi, quantitative easing che sorregge i cattivi debitori. Il generale "si salvi chi può!" si risolve nella generale adozione di queste e altre analoghe misure distorsive che non migliorano stabilmente le condizioni dell'economia reale. Si salvi chi può, ma nessuno si salva davvero.
Occorre invece ripristinare una corretta allocazione delle risorse colpendo la speculazione finanziaria e le forme perverse di intervento pubblico, applicare regole certe e comuni a tutti gli operatori dell'economia globale, riportare l'attenzione dei governi e dell'opinione pubblica sui reali fattori di crescita: investimenti privati, pressione fiscale, peso e obiettivi del welfare, capitale umano, efficienza della pubblica amministrazione.
Sempre più individui e famiglie restano indietro, rischiano l'esclusione. E'fondamentale che la protesta vada nella giusta direzione.

sabato 3 ottobre 2015

QE. Dopo il quantitative easing la crisi diventa più profonda.



Enrico Marro su Il Sole 24 Ore del 28 settembre 2015 offre una buona occasione per riflettere su come è stata affrontata la crisi economica globale:

Paul Marshall "Con una lettera al Financial Times... è entrato con la leggerezza di un bisonte nel dibattito sull’efficacia dei vari Qe mondiali, sempre più controversi perché fanno sentire i loro effetti molto sulla finanza (e sui portafogli dei più facoltosi) e molto meno sull’economia reale (e sui portamonete dei meno abbienti). Oltre a essere qualche volta completamente inutili, come mostra per esempio il caso del Giappone, che dopo aver stampato montagne di denaro si ritrova in deflazione e recessione".

"Oltre a arricchire i ricchi, la droga monetaria delle banche centrali ha poi creato dipendenza, come ha sottolineato tra gli altri Alberto Gallo di RBS in uno studio di qualche giorno fa intitolato “Il paradosso infinito del Qe”. Eh sì, perché lo schema - illustrato plasticamente anche in forma grafica da RBS - è il seguente: il Qe porta a tre effetti collaterali poco desiderabili, cioè una pessima distribuzione della ricchezza, una minor produttività e una serie di crescenti bolle finanziarie difficili da gestire. Quando i nodi vengono al pettine, come se ne esce? Con pesanti e impopolari riforme strutturali, oppure (l’avrete già capito) con un altro bel Qe nuovo di zecca, che dà un calcio alla lattina rimandando il problema. La droga monetaria continua così a fluire nelle vene dei soliti noti di cui sopra, allargando ulteriormente la “forbice” tra ricchi e poveri"".

"Lo strabismo tra i fuochi d’artificio della finanza di Wall Street (con l’indice S&P500 triplicato in sei anni) e il cerino in mano dell’economia reale di Main Street (che cresce a ritmi molto più blandi) è evidente".

Una politica economica, insomma, che ha ulteriormente arricchito ricchi non meritevoli, senza risolvere, anzi aggravando, i problemi dell'economia reale. Le "impopolari riforme strutturali" citate sono quelle dirette a far diventare sostenibile il welfare, ridefinire incisivamente le autonomie locali rendendole compatibili con la situazione delle finanze pubbliche e la competizione economica globale, ridurre largamente la spesa pubblica e la pressione fiscale, migliorare il capitale umano diffondendo le competenze matematiche, scientifiche e tecniche, colpire il capitalismo clientelare, incrementare la concorrenza in tutti i settori.
Il grande inganno è stato far credere che la politica monetaria in corso avrebbe mitigato le difficoltà dei più svantaggiati, giovani e disoccupati soprattutto, mentre invece i beneficiari sono speculatori, grandi debitori gravati di un basso merito del credito, operatori che devono la loro fortuna soltanto alle relazioni con il potere politico. Ora fronteggiare i problemi dell'economia reale è molto più difficile, perché troppa strada è stata percorsa nella direzione sbagliata. Una larga comprensione della situazione costituisce la necessaria premessa di un'azione finalmente efficace.

domenica 27 settembre 2015

Scandalo Volkswagen. Il male non giustifica il peggio.




     Morya Longo su Il Sole 24 ORE del 26 settembre 2015 dà conto delle chiare parole pronunciate a Firenze dal presidente della Banca centrale tedesca Jens Weidmann sullo scandalo che ha colpito la principale industria europea:

"«È stato un errore stupido, che può minare la credibilità del made in Germany». Jens Weidmann, presidente della Bundesbank (la banca centrale tedesca) non si sottrae alla domanda più spinosa per qualunque tedesco: quella sullo scandalo della Volkswagen. Al Teatro Odeon di Firenze, davanti a 800 giovani studenti riuniti dall'Osservatorio permanente giovani-editori, lo dice chiaro e forte: quanto accaduto nella casa automobilistica è stato un errore stupido.
Un errore che potrebbe avere conseguenze serie sull'economia tedesca. Ma i danni – avverte – non si sentiranno solo in Germania: l'economia europea è così interconnessa che gli effetti si vedranno ovunque: anche in Italia o in Spagna. «Quando viene esportata un'auto tedesca – osserva – vengono esportate anche le sue parti fatte in Italia o in altri Paesi». Insomma: lo scandalo è tedesco, ma l'impatto sarà europeo". 

Un grave danno insomma per l'economia della Germania e dell'Europa tutta. Ma merita il più netto biasimo la posizione di chi in Italia tenta di deviare l'attenzione dal disastro morale, politico, economico e finanziario del paese puntando il dito sullo scandalo tedesco. Basti citare le dichiarazioni di Renato Brunetta, da LaPresse.it:

""Dalle stelle alle stalle. Da orgoglio nazionale a problema esistenziale. Il caso Volkswagen è la dimostrazione di come l'egemonia economica (sia sul piano finanziario che su quello industriale) e l'egemonia politica raggiunte dalla Germania, siano in realtà frutto di comportamenti opportunistici. Atteggiamenti spregiudicati basati su imbrogli o forzature. Sul non rispetto delle regole. Le stesse regole, al contrario, rigidamente imposte agli altri Stati membri". Così in una nota Renato Brunetta, presidente dei deputati di Forza Italia. "Diventa ancora più evidente, a questo punto, la necessità della reflazione della Germania - prosegue Brunetta -. Tradotto dal gergo degli economisti: Berlino smetta di accumulare euro con una esportazione esagerata di merci ma, piuttosto, alimenti la domanda interna del ceto medio e operaio, abbattendo le tasse e investendo in infrastrutture. Spenda, invece di rastrellare gli euro degli altri. Cara Angela, adesso i compiti a casa li devi fare tu"".

Un rimedio per l'Italia in declino? Il declino del suo principale partner. Parole sbagliate, fuorvianti, che segnalano la grave condizione in cui versa il centrodestra italiano. Il paese deve fare i compiti a casa, applicandosi con il massimo impegno, ritrovando finalmente la via indicata dalla più genuina tradizione liberale, quella della ristrutturazione del welfare e delle autonomie regionali, della incisiva riduzione della spesa pubblica e quindi della pressione fiscale, della tutela del risparmio, del  lavoro e dell'impresa, del miglioramento del capitale umano, della repressione del capitalismo relazionale e clientelare, del ripristino della concorrenza in tutti i settori.
E' dunque da condannare severamente una tendenza che non sorprende chi conosce il facile opportunismo italiano, quella a giustificare il peggio proprio con il male altrui.

domenica 20 settembre 2015

Italia, il paese delle destre sbagliate.




Ernesto Galli della Loggia su Il Corriere della Sera del 15 settembre 2015 ha scritto:

"Ma un moderno conservatorismo politico è altra cosa. Innanzi tutto è liberale. Cioè in economia è contro ogni strettoia corporativa o monopolistica a vantaggio di gruppi privilegiati e interessi protetti, senza per ciò essere sempre e comunque contro l’intervento pubblico. Ideologicamente, poi, esso dovrebbe essere interessato soprattutto a promuovere e difendere la diversità delle opinioni. Cercando altresì di essere culturalmente anticonformista e quindi simpatizzando con le minoranze e il loro punto di vista: sicché oggi, per esempio, diffiderà dello scientismo e dell’idolatria tecnologica imperanti, così come del pregiudizio egemone secondo cui ogni desiderio soggettivo può diventare un diritto. E si asterrà, naturalmente, dall’omaggio universale a tutte le idee, le mode e le «diversità» politicamente corrette".

Sono considerazioni largamente condivisibili. Ma questa destra virtuosa in Italia non ha mai trovato ampio e durevole spazio non perché, come sostiene lo stesso della Loggia, il conservatorismo italiano sia soltanto nullista, negativo, bensì perchè si è ripetutamente affermata una destra sbagliata, statalista, nazionalista, identitaria. La destra italiana ha fallito perché si è data obiettivi perversi, pericolosi, producendo risultati conseguenti. Invece di Cavour e Giolitti ha scelto Mussolini, dopo De Gasperi e Einaudi ha trovato in Andreotti e Berlusconi i propri campioni.  Ogni paese ha i leader e la destra che si merita, che cultura e visioni diffuse rendono possibili. Così l'Italia continuerà ad avere destre, sempre sbagliate.

domenica 13 settembre 2015

Vivaldi. Musica al femminile.




 Antonio Vivaldi, nato nel 1678 a Venezia, è stato uno dei più importanti e influenti compositori barocchi. Ordinato sacerdote nel 1703, nello stesso anno iniziò a lavorare come musicista e compositore per il Pio Ospedale della Pietà, il più noto dei quattro ospedali femminili di Venezia. E' probabile che Vivaldi abbia composto musica per la Pietà anche dopo la fine della sua collaborazione ufficiale. In questi istituti ragazze orfane o nate in famiglie povere ottenevano un'ottima educazione musicale. Le più brave restavano nelle Scuole anche dopo l'adolescenza. Nella sua opera autobiografica Le Confessioni  Jean-Jacques Rousseau fece l'elogio di quelle giovani cantanti e strumentiste, che ascoltò nel suo soggiorno a Venezia e con le quali poté pranzare:

"Una musica molto superiore, secondo me, a quella dell'opera che non trova eguali né in Italia, né altrove nel mondo, è la musica delle scuole. Le scuole sono degli istituti di beneficenza creati per educare le ragazze povere, destinate poi dalla Repubblica o al matrimonio o al convento. Tra tutte le materie insegnate a quelle ragazze, la musica ha un posto fondamentale. Tutte le domeniche, nella chiesa di ognuna delle quattro scuole, durante i vespri si cantano mottetti per coro e orchestra, composti e diretti dai più grandi maestri italiani, ed eseguiti [in tribune con grate] esclusivamente da ragazze, la più grande delle quali non arriva a vent'anni. Secondo me non esiste nulla di più voluttuoso e di più toccante di quella musica; le ricchezze dell'arte, il gusto raffinato dei canti, la bellezza delle voci, la precisione nell'esecuzione, tutto in quei deliziosi concerti contribuisce a produrre un'impressione che non rientra certo nei buoni costumi ma dalla quale sfido qualsiasi uomo a mettersi al riparo" (Jean-Jacques ROUSSEAU, Le Confessioni, Libro Settimo, 1991, p.297 e seg.).

Quasi un secolo prima della Rivoluzione francese, nella cattolica Italia, la dignità delle donne trovava riconoscimento e tutela anche con questa educazione di alto livello. Davvero le religioni sono tutte uguali?

domenica 6 settembre 2015

Italia. I consumatori premiano i produttori esteri.




La crisi italiana, nonostante la martellante propaganda, continua a presentare tratti peculiari, configurandosi con sempre maggiore evidenza come crisi dell'offerta prima che della domanda. Una vitale e sana ripresa dei consumi può essere sostenuta soltanto da un aumento della competitività. Solo buoni produttori possono essere buoni consumatori.
Francesco Daveri su  lavoce.info del 1 settembre 2015 rileva che in Italia i consumatori premiano i produttori esteri e delinea i motivi della inadeguatezza dell'offerta italiana:

" Nel complesso, dunque, la domanda interna ed estera del settore privato vanno piuttosto bene e, sommate insieme, crescono dello 0,4 per cento, cioè di un’incollatura in più rispetto al Pil (che fa registrare, come detto, un +0,35). Ma questa accresciuta domanda viene soddisfatta più che in passato da produzione estera (le importazioni, in crescita del 2,2 per cento nel secondo trimestre 2015, e del 2 per cento nel semestre) anziché da produzione interna (il Pil). Se a soddisfare la domanda di famiglie e imprese sono produttori esteri, il volume di produzione industriale e dei redditi generati in Italia ne soffre per forza. E il Pil cresce meno di quanto potrebbe".

" A pesare sull’aumento delle importazioni è però anche la perdita di competitività subita dall’Italia negli anni della crisi (per la minore produttività a fronte di salari che hanno continuato a crescere sia pure in misura minore che in passato), solo parzialmente compensato dal deprezzamento dell’euro degli ultimi dodici mesi. Siccome l’andamento dell’euro sembra essersi stabilizzato, diventa ancora più urgente ristabilire le condizioni per un recupero di convenienza a localizzare la produzione entro i confini nazionali: riducendo davvero tutte le imposte, accelerando la soluzione dei contenziosi nella giustizia civile e completando le riforme in cantiere per rendere la pubblica amministrazione e la scuola sempre più al servizio degli utenti. Ben di più che politiche di sostegno alla domanda".

Le considerazioni del professor Daveri consentono di dar conto dell'occupazione in Italia. In questa prospettiva Thomas Manfredi su linkiesta.it del 2 settembre 2015 osserva:

"È importante tenere a mente che, in assenza di crescita del prodotto, l’aumento di occupazione che eventualmente si ricaverebbe sottintende una crescita della produttività ancora vicina allo 0 se non negativa. Se le ore lavorate, infatti, aumentano più del prodotto, il rapporto fra le due variabili, che definisce la produttività, non può decrescere. Come si possa credere di creare occupazione stabile e di qualità con una produttività stagnante rimane uno dei misteri che i tanti urlatori di dati sul mercato del lavoro dovrebbero, a un certo punto, svelare".

Occorre dunque intervenire  incisivamente sul lato dell'offerta: riformare il welfare in senso produttivistico rendendolo sostenibile, ridurre la pressione fiscale, migliorare il capitale umano diffondendo le competenze matematiche, tecniche e scientifiche, alleggerire il peso della burocrazia. Questo gli elettori devono chiedere a chi aspira a rappresentarli.


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