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domenica 7 giugno 2015

Tocqueville. In una società libera l'individuo non è solo.




Su Il Sole 24 Ore del 16 maggio 2015 Fabrizio Forquet  ci ha richiamati alla realtà:

"Ma non è certo solo un problema di pensioni. Dopo anni di Pil in continua ascesa, l’Italia negli anni 70 si è potuta dare il servizio sanitario pubblico più universale dell’Occidente. Un fiore all’occhiello (per molti versi, non tutti) del nostro welfare. Ma non più sostenibile nella sua universalità con il saldo di entrate e uscite che il settore pubblico oggi si ritrova. A meno di non affossare definitivamente il sistema produttivo con un livello di tassazione inaccettabile. Il nuovo contesto economico, evidentemente, impone anche qui di superare la teoria dei diritti intoccabili e di avviare una serena discussione sulla riduzione del perimetro dello Stato, aprendo a forme di copertura assicurativa per le fasce di reddito più elevate".

Per ridurre le tasse occorre ridurre la spesa pubblica. Per diminuire adeguatamente la spesa pubblica bisogna tornare alla Costituzione, applicando anche a tale spesa il principio di progressività.  E' dunque necessario ridisegnare il perimetro dello stato, lasciando alla maggior parte dei cittadini la responsabilità della propria salute, della educazione dei giovani, di un reddito sufficiente in caso di malattia e vecchiaia.
Ma in una società libera gli individui educati alla libertà non sono atomi sciolti da ogni relazione. Tocqueville, uno dei grandi precursori del liberalismo contemporaneo, ha scritto:

"...presso i popoli democratici tutti i cittadini sono indipendenti e deboli, non possono quasi nulla da soli e nessuno di loro può obbligare gli altri a prestargli aiuto. Quindi, se non imparano ad aiutarsi liberamente, cadono tutti nell'impotenza".

"Presso i popoli democratici sono le associazioni che devono tenere il posto delle forze individuali fatte sparire dall'eguaglianza delle condizioni".

"Fra le leggi che reggono le società umane, ve ne è una che appare più chiara e precisa di tutte le altre:  perchè gli uomini restino civili o lo divengano, bisogna che l'arte di associarsi si sviluppi e si perfezioni presso di loro nello stesso rapporto con cui si accresce l'eguaglianza delle condizioni". (Alexis DE TOCQUEVILLE, La democrazia in America).


Anche nel delicato settore oggi lasciato al welfare associazioni, comitati e cooperative consentono agli individui di conseguire risultati altrimenti irraggiungibili.

sabato 30 maggio 2015

Mussolini anticristiano. L'ammirazione ingiustificata.





Galeazzo Ciano è stato genero e ministro degli Esteri di Mussolini. Il suo diario è ovviamente una fonte preziosa. L'8 agosto 1938 Ciano ha scritto:

"Il Duce è molto montato sulla questione della razza e contro l'Azione Cattolica...E' violento contro il Papa. Dice: "...Basterebbe un mio cenno per scatenare tutto l'anticlericalismo di questo popolo, il quale ha dovuto faticare non poco per ingurgitare un Dio ebreo". Mi  ripete la sua teoria di cattolicesimo-paganizzazione del cristianesimo. " Per questo io sono cattolico e anticristiano"". 

Il 22 agosto dello stesso anno Ciano annota sul suo diario:

"Sembra che il Papa abbia fatto ieri un nuovo discorso sgradevole sul nazionalismo esagerato e sul razzismo. Il Duce ...si propone di dare un ultimatum: "...Se il Papa continua a parlare, io gratto la crosta agli italiani e in men che si dica li faccio tornare anticlericali. Al Vaticano, sono uomini insensibili e mummificati. La fede religiosa è in ribasso: nessuno crede a un Dio che si occupa delle nostre miserie. Io disprezzerei un Dio che si occupasse delle vicende personali dell'agente di Polizia fermo all'angolo del Corso"" (Galeazzo CIANO, Diario 1937 - 1943, 1990, pp. 163 e 167).

Questo è il Duce che ha condotto il suo paese a una sconfitta rovinosa. Un uomo privo di vera cultura, pervaso da una accesa visione anticristiana. E' dunque impossibile conciliare fede cattolica e ammirazione per Benito Mussolini. I cattolici che tale ammirazione conservano sono chiamati a rivedere la loro posizione. 

venerdì 22 maggio 2015

Medio Oriente. Il fallimento è di Obama.



 


Sul Corriere della Sera del 22 maggio 2015 Massimo Gaggi dà conto del disastro che si sta compiendo in Medio Oriente:

"Non si tratta solo della scarsa efficacia di una strategia basata su attacchi dal cielo condotti prevalentemente coi droni: la caduta di Palmira in Siria e, ancor più, quella di Ramadi in Iraq, sono il termometro di un fallimento ben più vasto...".

L'avanzata di ISIS non viene adeguatamente fronteggiata e non si arresta. Gaggi così prosegue:
"... adesso per l’Iraq, anche al di fuori dei circoli repubblicani, si comincia a parlare apertamente di strategia fallimentare di due presidenti. Certo, Obama aveva ereditato da Bush una situazione impossibile a Bagdad: l’invasione del 2003 aveva eliminato Saddam Hussein e la sua classe dirigente sunnita senza riuscire a costruire, come da promesse, uno Stato democratico e multietnico. Il presidente democratico ha, in diversi modi, cercato il disimpegno. Lo ha fatto ritirando i soldati dal Paese, responsabilizzando la nuova dirigenza locale, favorendo un ricambio al vertice quando il regime di Al Maliki è divenuto apertamente filo-iraniano, rendendo così impossibile il dialogo con i sunniti". 

E' falso che Obama abbia ereditato da Bush una situazione impossibile a Bagdad. Nel gennaio 2007 Bush nominò il generale David Petraeus comandante delle forze Usa in Iraq, con l'incarico di aumentare le truppe statunitensi nel territorio e di prenderne il controllo. In realtà il "surge" iraqeno sotto il comando di Petraeus ebbe successo e Bush consegnò a Obama un Iraq sulla via della pacificazione.
Il disastro di oggi nasce proprio dal rovesciamento della linea Bush realizzato da Obama con un ritiro rapido ed improvvisato dal paese. Allo stesso Obama si deve il successivo fallimentare "surge" USA in Afghanistan. L'attuale presidente ha dunque gravissime responsabilità. Ma chi nei media occidentali l'ha sostenuto con una martellante propaganda tali responsabilità condivide.

sabato 16 maggio 2015

Economia globale. La realtà refrattaria.





Su Il Sole 24 ORE del 15 maggio 2015 Maitre_à_panZer offre un'analisi fuori del coro del mercato del lavoro inglese:

"La crescita più esaltante la osservo guardando la curva dei self-employed, che rimane sotto 100 fino alla metà del 2009 e poi inizia a crescere senza sosta, arrivando a sfiorare 120 nella seconda metà del 2014, scendendo poco sotto ai primi di quest’anno".

"Ne deduco che gran parte della crescita dell’occupazione nel mercato del Regno Unito dipende da loro: quelli che si sono messi in proprio. E non è strano che sia così: una volta che un lavoratore si mette in proprio e si cancella dalla lista dei disoccupati, automaticamente la sua posizione non viene più conteggiata nelle statistiche della disoccupazione".

"Questa curiosa evoluzione statistica, tuttavia, porta con sé una conseguenza che gli economisti chiamano “puzzle della produttività“. Un altro grafico, infatti, ci mostra l’andamento del Pil britannico, cresciuto del 4% dal 2008, e lo confronta con la produttività pro capite che, fatto 100 l’indice del 2008, viaggia da allora sotto quel livello.Ne deduco che uno può pure autoimpiegarsi e così far scendere la disoccupazione. Ma ciò non vuol dire che riesca a produrre e vendere qualcosa che sia statisticamente significativo".

A queste condivisibili considerazioni si possono aggiungere utilmente le statistiche sull'occupazione USA, ferma dall'inizio dell'anno e lontana dal tasso del 2007. Pare a molti che le economie statunitense e britannica abbiano retto meglio di altre l'urto della crisi. Ma dove finisce la propaganda e dove comincia la realtà?
La maggior parte dei governi, sostenuta con fedeltà canina da stimati economisti, non ha affrontato i grandi problemi di una disordinata globalizzazione e non ha inciso apprezzabilmente sui fattori fondamentali dell'economia reale. Fare i conti con la realtà  è difficile. Troppo si è corso nella direzione sbagliata. Come tagliare spesa pubblica e tasse? Come ridurre il soffocante peso del welfare? Come ripristinare certezza del diritto e adeguati stimoli all'impegno individuale? Come migliorare il capitale umano fiaccato dalla caduta di tradizioni, educazione e istruzione? Come dare regole comuni alla economia globale?
Si tratta dunque di una realtà dura e refrattaria, dove ogni questione ha mille facce e ogni possibile rimedio produce conseguenze indesiderate. Quanto pagheremmo un buon smartphone concepito e costruito in Italia da imprese tassate all'italiana, con la produttività italiana? Ma quanto sarebbe doloroso correggere davvero i vizi di sistemi non più competitivi?

domenica 10 maggio 2015

Capitale umano. Incompetenti disoccupati.




Thomas Manfredi su linkiesta.it del 6 maggio 2015 dà conto delle proteste di insegnanti e studenti contro la riforma Renzi della scuola italiana:

"I cortei di protesta contro la riforma della scuola del Governo Renzi, passata agli onori e oneri della cronaca con il nome di “Buona Scuola”, annunciano il netto no della parte più sindacalizzata del nostro sistema scolastico ai principi che ispirano l’intervento governativo - già di per sé piuttosto traballante, a partire dalla mancata previsione di un sistema di valutazione oggettivo e stringente per gli insegnanti precari".

L' articolo ha soprattutto il merito di sottolineare la relazione tra competenze e crescita che produce buona occupazione:

"Il sistema formale d’istruzione, nonostante alcuni progressi recenti registrati dalle inchieste internazionali quali Pisa dell’Ocse, appare, a parte poche isole felici soprattutto nel Nord-est italiano, assolutamente incapace di preparare i nostri studenti al mondo del lavoro, che - ricordiamolo - non aspetta né sindacati né governi, per mutare e richiedere competenze nuove ai lavoratori. La velocità di cambiamento nel contenuto di skill è una delle caratteristiche più marcate delle nuove occupazioni, soprattutto legate all’economia digitale. Una scuola pachidermica, e che ancora ragiona con slogan da anni Settanta, è cosciente che nel mondo nulla o quasi si produce e si organizza come eravamo abituati anche solo prima della seconda metà degli anni 2000?".

Il tema è quello del capitale umano, fondamentale fattore economico. Il suo miglioramento non dipende dal numero degli insegnanti e degli studenti, nè dalla quantità di denaro gettato nello sgangherato calderone della scuola pubblica italiana. Occorrono piuttosto più operatori capaci di trasmettere sapere tecnico, matematico e scientifico e più studenti disposti ad acquisirlo. 
Con le eccezioni degli interventi del professor Luca Ricolfi e di pochi altri, manca nel dibattito pubblico italiano una adeguata discussione del problema. Senza una costante attenzione alle necessità della economia reale, nessun coniglio bianco estratto dal cappello dei banchieri centrali ci salverà.

venerdì 1 maggio 2015

Papa Francesco. No a un partito dei cattolici.




Radio Vaticana il 30 aprile 2015 ha dato conto di una importante "posizione espressa da Papa Francesco durante l’incontro avuto con gli appartenenti alle Comunità di vita cristiana e alla Lega Missionaria Studenti, organismi della famiglia dei Gesuiti". Francesco:

“Si sente: ‘Noi dobbiamo fondare un partito cattolico!’: quella non è la strada. La Chiesa è la comunità dei cristiani che adora il Padre, va sulla strada del Figlio e riceve il dono dello Spirito Santo. Non è un partito politico. 'No, non diciamo partito, ma … un partito solo dei cattolici': non serve e non avrà capacità convocatorie, perché farà quello per cui non è stato chiamato (…) Ma è un martirio quotidiano: cercare il bene comune senza lasciarti corrompere”.

Il papa mostra piena consapevolezza non solo dei tratti fondamentali della fede cristiana ma anche della prova complessivamente cattiva che hanno dato di sè i partiti dei cattolici nel Novecento. Basti pensare al Partito Popolare italiano, che non seppe contribuire efficacemente ad evitare la dittatura di Mussolini, al Zentrum cattolico tedesco, che non contrastò adeguatamente l'ascesa di Hitler, alla Democrazia Cristiana dopo la parentesi degasperiana e al sostanziale fallimento del partito cattolico francese (MRP) nel Secondo dopoguerra.
La memoria va al per molti aspetti  fatale crocevia dell'Età giolittiana.  In vista delle elezioni del 1913 i liberali del cattolico Giovanni Giolitti conclusero un accordo con l'Unione Elettorale Cattolica Italiana (UECI), un'associazione laicale diretta da Vincenzo Gentiloni, alla quale lo stesso papa Pio X affidò il compito di far partecipare i cattolici italiani alla vita politica. L'informale Patto Gentiloni ebbe grande successo. Con il suffragio universale maschile nel 1913 i liberali di Giolitti ottennero il 51% dei voti e 260 eletti su 508, 228 dei quali avevano sottoscritto gli impegni previsti dall'accordo. Giolitti era riuscito a far entrare i cattolici nelle istituzioni nate dal Risorgimento, nel segno di un liberalismo pragmatico e rispettoso di ogni libertà, religiosa compresa.
Papa Francesco di fatto ritorna alla analoga visione del suo predecessore Pio X. Altri pontefici consentirono invece l'affermazione in Italia di un partito cattolico, con esiti disastrosi.
Un  partito di cattolici fu fondato nel 1919 da don Luigi Sturzo. Il Partito Popolare di Sturzo si ispirava alla Dottrina sociale della Chiesa, con il programma di rinnovare a fondo la politica e la società italiane. Perseguendo questo ambizioso obiettivo si oppose al ritorno al governo del vecchio ma esperto Giolitti, solo statista italiano in grado di precludere a Mussolini la conquista del potere. Dino Grandi, forse il più intelligente gerarca fascista, ha espresso un duro giudizio sull'operato di Sturzo:

 "Il veto di Sturzo al ritorno di Giolitti fu in effetti il più grande servizio che il prete di Caltagirone avrebbe potuto rendere al movimento fascista per cui, non a torto, Sturzo è stato paradossalmente definito da taluni come uno dei padri della marcia su Roma" (Dino GRANDI, Il mio paese. Ricordi Autobiografici, ed.1985, pag. 157).

Una vicenda esemplare, che affonda le proprie  radici proprio nell'errata percezione della natura e della portata della religione cristiana.

sabato 25 aprile 2015

Aprile 1945. Liberazione dai nazisti, non dalla realtà.




Radio Vaticana ha chiesto alla professoressa Simona Colarizi di delineare il significato e l'eredità della Resistenza e della Liberazione. La brillante docente di storia contemporanea le ha rievocate come avvenimenti fondanti della libera democrazia italiana.
Su Il Foglio del 18 aprile 2015 Franco Debenedetti ha sottolineato che in Italia dal 2000 al 2013 la produttività del lavoro è "cresciuta dell`1,3 per cento, contro il 9,5 dell`Eurozona e il 26,1 in America; produttività totale dei fattori, che stima l`efficienza dei processi produttivi, diminuzione del 7 per cento, contro crescita nell`Eurozona dell`1,1 e del 10,5 per cento in America".
Le vicende dell'Italia repubblicana si spiegano mostrando i ritardi e i vizi della sua modernizzazione. E' evidente la crescente inefficienza economica, amministrativa ed istituzionale della democrazia italiana. Si tratta di una tendenza che si è manifestata rapidamente dopo la nascita della Repubblica e che ha subito una insostenibile accelerazione a partire dagli anni Novanta del secolo scorso.
Gli artefici della rinascita italiana dopo la Seconda guerra mondiale furono presto accantonati. Luigi Einaudi non fu rieletto alla presidenza della repubblica e Alcide De Gasperi fu costretto a uscire di scena già un anno prima della sua morte (1954). L'esplosione del debito pubblico, la corruzione dilagante, la soffocante pressione burocratica e fiscale, l'abbandono di intere regioni alla criminalità organizzata e la perdita di competitività delle nostre imprese segnano il declino della democrazia italiana.
La vitalità di una democrazia dipende largamente dalla sua efficienza, dalla sua capacità di risolvere problemi. La riflessione sui settanta anni dell'Italia repubblicana deve insistere su questo inscindibile legame.

sabato 18 aprile 2015

Grexit. Grecia fuori dall'euro.




Sul Corriere della Sera del 17 aprile 2015 Danilo Taino ha delineato la prospettiva sulla crisi greca che ormai prevale:

"Oggi di Grexit - cioè di uscita di Atene dall’euro - si discute invece apertamente a Berlino, in Europa e intensamente a Washington, al margine degli incontri primaverili dell’Fmi. E nessuno si terrorizza. 
È che fino a tre anni fa la Grecia era considerata tossica e contagiosa dal punto di vista finanziario. Oggi è considerata tossica e contagiosa dal punto di vista politico. Ma con una conseguenza opposta: allora, la convinzione era che la malattia si sarebbe diffusa se il Paese avesse abbandonato l’Unione monetaria, oggi si ritiene che si diffonderebbe se vi rimanesse nei termini in cui ci vuole restare il governo di sinistra radicale di Alexis Tsipras".

"...in molti governi europei - quello tedesco ma anche quelli olandese, spagnolo, portoghese, irlandese, slovacco - sta crescendo la convinzione che fare concessioni significative al governo di sinistra di Atene sarebbe tossico, nel senso che non solo darebbe forza a movimenti simili in altri Paesi ma anche stravolgerebbe e minerebbe le basi politico-economiche sulle quali sono stati costruiti cinque anni di interventi per affrontare la crisi dell’eurozona".

Il tema è rilevante in un ambito più ampio e fondamentale. Un decisivo fattore di buona crescita capace di creare occupazione adeguata per quantità e qualità è costituito dagli investimenti privati nella cosiddetta economia reale.
Tali investimenti si realizzano quando sono possibili e convenienti. Sono possibili e convenienti quando la liquidità non è inghiottita dalla facile speculazione e si muove in una ragionevole certezza del diritto e dei diritti.  Da questa prospettiva si colgono gli effetti perversi dei QE statunitense, giapponese ed europeo e vedono le conseguenze negative di una Grecia nell'euro "nei termini in cui ci vuole restare il governo di sinistra radicale di Alexis Tsipras".
Una Grecia libera di restare nell'Unione monetaria europea in tali termini rappresenterebbe un messaggio politicamente ed economicamente devastante. Politicamente perchè darebbe una formidabile spinta ai movimenti radicali europei. Economicamente perchè contribuirebbe a indebolire ulteriormente negli operatori in grado di investire la fiducia in una ragionevole certezza del diritto e dei diritti, che trae origine dalla loro puntuale osservanza, non da controproducenti e illusorie garanzie pubbliche.

domenica 12 aprile 2015

Italia. Lo sforzo di non riformare.

 


Perfino l'indulgente quotidiano della Confindustria usa la bacchetta. Su Il Sole 24 ORE del 12 aprile 2015 Fabrizio Forquet scrive:

"In Italia da troppo tempo si scrivono pessime leggi: incoerenti al loro interno e con la legislazione vigente - italiana ed europea - volutamente incomprensibili e piene di rinvii a successive norme attuative. Per non parlare delle finte “clausole di salvaguardia” che sono un modo truffaldino di  rinviare i nodi politici sulle coperture. Non c'è da sorprendersi, poi, se riforma dopo riforma il sistema Italia resta bloccato e inefficiente. Verrebbe da chiedere un time out: prima di fare le riforme riformate il modo di fare le riforme".

In realtà la prassi criticata appare perfettamente coerente con l'obiettivo di conservare l'esistente nella misura più ampia possibile, per non disturbare l'elettorato fortemente conservatore che ha espresso l'attuale maggioranza.
Con l'attivismo di facciata e una martellante propaganda si maschera l'intenzione di non mutare gli assetti fondamentali del paese. L'apparente movimento frenetico e il reale immobilismo richiedono uno sforzo continuo, lo sforzo di non riformare.
Questo gioco pericoloso a spese dei giovani, degli esclusi e dei non tutelati continuerà finché resteranno risparmi da esaurire e pazienze da mettere alla prova. Come è quasi sempre accaduto, sarà la grande storia a rivelare drammaticamente la pochezza dei ceti dirigenti italiani.

sabato 4 aprile 2015

Occupazione USA delude. Le cause profonde della crisi.




L'economia USA resta in difficoltà, nonostante la martellante propaganda che afferma il contrario. Così Vito Lops su Il Sole 24 ORE del 3 aprile 2015:

"Delude il dato sull'occupazione americana, e l’euro risale decisamente sul dollaro. Gli Stati Uniti, ha comunicato il Dipartimento del Lavoro, hanno creato in marzo solo 126 mila posti, mentre il tasso di disoccupazione è rimasto stabile al 5,5 per cento".

"Il dato è nettamente inferiore alle attese degli analisti, che scommettevano su 245 mila posti ed è il più basso incremento mensile dal dicembre del 2013. Il settore privato ha creato 129 mila posti, mentre quello pubblico ne ha tagliati 3 mila. Il tasso di partecipazione al mercato del lavoro è sceso al 62,7% dal 62,8 per cento".

Dal Dipartimento del Lavoro USA (3 aprile 2015):

"Total nonfarm payroll employment increased by 126,000 in March, and the unemployment
rate was unchanged at 5.5 percent, the U.S. Bureau of Labor Statistics reported today.
Employment continued to trend up in professional and business services, health care,
and retail trade, while mining lost jobs".

"Employment in other major industries, including construction, manufacturing, wholesale
trade, transportation and warehousing, information, financial activities, and government,
showed little change over the month".

I dati rilasciati ieri confermano la tendenza in atto. La modesta crescita del PIL USA non genera un adeguato aumento della buona occupazione nel settore che inizia dove termina quello delle professioni creative e termina dove comincia quello del lavoro caratterizzato da professionalità e retribuzioni modeste.
Nuove tecnologie e globalizzazione hanno aggravato l'indebolimento strutturale dei fattori di crescita nei paesi che hanno raggiunti per primi sviluppo economico e benessere diffuso.
In Europa, Giappone e USA, sia pure con significative differenze, la riduzione degli stimoli all'impegno individuale, l'insufficiente diffusione delle conoscenze matematiche e tecnico-scientifiche, l'eccessiva pressione fiscale e il quadro giuridico-istituzionale non consentono di riprendere la via dello sviluppo.


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