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venerdì 5 dicembre 2014

Italia. Più verità per fronteggiare il declino.





"Standard & Poor's ha abbassato il rating dell’Italia sul debito a lungo termine a BBB-".

" La decisione, spiega S&P in un comunicato, «riflette la debolezza ricorrente che vediamo nella performance del Pil reale e nominale dell'Italia, inclusa l'erosione della competitività, che sta minando la sostenibilità del suo debito pubblico». «Un forte aumento del debito, accompagnato da una crescita perennemente debole e bassa competitività, non è compatibile con un rating BBB, secondo i nostri criteri»".

Così Il Sole 24 Ore del 5 dicembre 2014. L'agenzia statunitense denuncia la debolezza strutturale del paese, di cui dà dettagliato conto il 48° Rapporto Censis sulla situazione sociale italiana:

"Un Paese congelato e col fiato sospeso, in cui le famiglie spendono in contanti al 41% e risparmiano in depositi bancari per placare l’ansia del futuro, le imprese smettono di investire (mantenendo però margini di profitto elevati), 8 milioni di persone non lavorano e le disuguaglianze aumentano corrodendo il ceto medio. Un Paese che ha cambiato pelle, dove la coesione sociale non tiene più, la solitudine avanza, nonostante l’esplosione dei social network, i giovani e le donne vengono mortificati e la politica bypassa sempre di più i corpi intermedi. Senza però ancora raccogliere risultati in termini di ripresa dello sviluppo e dell’occupazione" (Manuela Perrone, Il Sole 24 Ore).

Sullo stesso quotidiano della Confindustria, il 30 novembre 2014, Fabio Pavesi ha posto in rilievo due record dell'Italia: la ricchezza privata e il debito pubblico. La ricchezza privata non riduce davvero il rischio del debito, potendo diventare direttamente risorsa pubblica solo attraverso l'imposizione fiscale, già elevatissima.
In un sistema sano la ricchezza privata diventa indirettamente risorsa pubblica quando viene impiegata dai privati per la produzione e il consumo, aumentando così la base imponibile. Ma, scrive Perrone, "In generale, per il pianeta delle industrie, il Censis registra il poderoso calo degli investimenti che si è registrato dal 2008 a oggi con un’incidenza sul Pil arrivata al 17,8%: una flessione complessiva del 25%, soprattutto in hardware (-28,8%), costruzioni (-26,9%), mezzi di trasporto (-26,1%), macchinari e attrezzature (-22,9%). Rispetto al 2007, la mancata spesa cumulata per investimenti ha raggiunto la somma record di 333 miliardi di euro, più del piano Juncker". La caduta dei consumi chiude il circolo vizioso.
Gli italiani possono fronteggiare il declino solo prendendo consapevolezza dei vizi strutturali che lo determinano. Welfare, autonomie locali, agenzie educative, pubblica amministrazione, certezza del diritto e legalità, pressione fiscale e contributiva, costo dell'energia, immigrazione, tendenza demografica. Questi sono i settori decisivi che richiedono radicali interventi. Senza verità la via del ritorno allo sviluppo resta inaccessibile.

venerdì 28 novembre 2014

Russia e Occidente. Il ruolo della Germania.




Su analisidifesa.it del 26 novembre 2014 Luca Susic ha così commentato la posizione di Angela Merkel sulle difficili relazioni tra Russia e Occidente:

"Uno degli aspetti recenti più sorprendenti della crisi che sta scavando un solco fra Usa-Europa da una parte e Russia (e Cina) dall’altra è rappresentato dall’improvvisa accelerazione in materia di politica estera voluta dalla Bundeskanzlerin Angela Merkel. Inizialmente fredda sul tema delle sanzioni e fautrice di una linea più morbida verso Mosca, la leader tedesca ha deciso di cambiare passo, lanciando pesanti accuse contro il Cremlino e il suo modo (giudicato troppo aggressivo) di difendere gli interessi Nazionali. La posizione espressa dalla Cancelliera è stata subito fatta propria dai principali esponenti del suo governo che, come riporta Der Spiegel, si sono scagliati contro l’imprevedibilità delle azioni di Putin e la veemenza di quest’ultimo nel cercare di espandere la propria influenza in talune parti del mondo".

"Sebbene sembri chiaro che queste dichiarazioni sono il frutto della strategia politica della Merkel per aumentare l’influenza di Berlino in aree storicamente di interesse russo...".

"Dal canto loro, gli Stati Uniti hanno iniziato una vera e propria campagna di “riconquista” dei Paesi ancora esterni all’ambito euro-atlantico, con lo scopo dichiarato di favorirne quanto prima l’ingresso nella UE e, soprattutto, nella NATO. Si tratta, però, di un progetto estremamente ambizioso che, oltre a non tenere in considerazione le inclinazioni delle popolazioni in questione, si basa sul presupposto che tutto ciò debba avvenire a tappe forzate, al fine di impedire a Mosca di riottenere il prestigio perduto e ostacolare il piano".

Lo stesso 26 novembre, su bloomberg.com,  Patrick Donahue, Arne Delfs e Ilya Arkhipov hanno dato conto della ferma opposizione della stessa Merkel all'adesione alla NATO dell' Ucraina:

"German Chancellor Angela Merkel’s government is alarmed by President Petro Poroshenko’s plan to hold a referendum on Ukraine joining NATO, seeing it as a dead end that would only inflame tensions with Russia.
Ukrainian membership of the North Atlantic Treaty Organization is not on the table for Merkel, according to one German official, who said that a referendum wouldn’t bring Ukraine closer to NATO since decisions on membership are made by Alliance countries and not voters".

Si tratta di analisi che colgono l'ambiguo, difficile  ruolo che la Germania di Merkel è indotta a svolgere. Stretto tra le pressioni dello storico alleato americano e quelle degli imprenditori danneggiati dal peggioramento delle relazioni con la Russia, obbligato a destreggiarsi tra paesi vicini dall'atteggiamento divergente, il governo tedesco persegue un equilibrio inevitabilmente precario, fragile.
Occorre scegliere con lungimiranza. L'Occidente non ha interesse a destabilizzare la Russia.  Dalla compagine sorta dalle ceneri dell'Unione Sovietica può e deve ottenere un aiuto determinante nella lotta contro il fondamentalismo islamico. Il grande competitore delle democrazie occidentali è la Cina. Compito della Germania è riportare alla ragione gli Stati Uniti e la Russia di Putin. Merkel dispone delle doti e dell'influenza necessarie.

venerdì 21 novembre 2014

USA. La bolla dello shale oil complica il quadro economico.




Su Il Sole 24 Ore del 12 novembre 2014 Sissi Bellomo ha dato conto della crisi dello shale oil negli Stati Uniti. La caduta del prezzo del petrolio mette in grave difficoltà le piccole e medie compagnie che lo estraggono con la costosa tecnica del fracking:

"Finanziarsi sta diventando sempre più caro e più difficile per gli operatori dello shale oil: società quasi tutte di piccole o al massimo medie dimensioni, molto spesso costruite dal nulla e con fortissimi livelli di indebitamento, tanto che persino con il barile a 100 dollari faticavano in molti casi a pagare gli interessi".

"... per sua stessa natura l'estrazione di shale oil necessita di un flusso incessante di investimenti: la vita produttiva di questi pozzi è tuttora brevissima, tanto che l'output crolla del 65-90% dopo il primo anno. Anche solo per mantere stabile la produzione bisogna quindi trivellare continuamente nuovi pozzi, spendendo ogni volta milioni di dollari. Il che molto spesso significa contrarre nuovi debiti: un meccanismo perverso, che ha spinto alcuni osservatori a paragonare lo shale a un gigantesco schema Ponzi".

"Un ridimensionamento dello shale oil americano, con eventuale corollario di imprese in bancarotta, potrebbe comunque richiedere tempo. Il crollo del petrolio nell'immediato può anzi addirittura accelerare le estrazioni, se gli operatori – come sembra che stia accadendo – cercano di contrastare con maggiori volumi il calo delle entrate che minaccia di renderli insolventi".

La fragilità del settore petrolifero complica ulteriormente il quadro dell'economia statunitense, assai meno incoraggiante dell'immagine a lungo diffusa dai media prima delle recenti elezioni di medio termine.
Su Il Sole 24 Ore del 20 novembre 2014 la professoressa Adriana Castagnoli ha indicato alcuni nodi irrisolti dell'economia USA:

"...i salari ristagnano e la partecipazione alla forza lavoro si è ridotta al livello del 1978. Questa fiacchezza può dipendere dal tipo di occupazione in crescita: con contratti a termine, nei settori dei servizi alla salute e della ristorazione. Manifattura e costruzioni sono cresciute poco..."

"...anche negli Usa la polarizzazione politica su questioni cruciali per il lavoro, come la legge sull'immigrazione, nonché le elevate tasse sui redditi d'impresa (39,1%, almeno sulla carta) hanno finito per rallentare l'industria. Come ha sottolineato Janet Yellen, preoccupa la contrazione nel numero di nuove imprese, tradizionale segno di vitalità. Né si vede un significativo slancio nella ripresa dei consumi. Pertanto, alle elezioni del 4 novembre, gli americani hanno bocciato innanzitutto la politica economica del presidente Obama. E per questo i repubblicani hanno promesso di assicurare il loro appoggio a una rapida conclusione della Trans-Pacific Partnership".

"Si prevede che la Federal Reserve aumenterà i tassi di interesse nella prima metà del 2015. Ciò stimolerà la domanda per azioni, bond e nel settore immobiliare ma non si tradurrà in migliori condizioni di vita per molti americani. Anzi, tenderà ad acuire i già alti livelli di ineguaglianza perché la proprietà degli asset è concentrata nelle mani dei più ricchi, e premierà lo strapotere della finanza".

Le difficoltà della economia USA e di quella giapponese costituiscono un duro richiamo alla realtà per gli europei in cerca di modelli e visioni. Purtroppo non esistono pasti gratis. Meglio riflettere su fattori di crescita prosaici ma di solida efficacia: capitale umano (conoscenze tecniche, matematiche, scientifiche), pressione fiscale, investimenti privati, istituzioni economiche. Incisive riforme strutturali possono fermare il declino dei paesi che hanno già conosciuto il benessere legato alla modernità, ma che ora sono appesantiti da debito, pressione fiscale, stato sociale, insufficiente competitività e demografia sfavorevole.

venerdì 14 novembre 2014

Come uscire dalla crisi? Buoni produttori, buone istituzioni.




Il dibattito sulla crisi continua ad avvitarsi intorno ai temi del debito, pubblico e privato, della sua monetizzazione, del deficit, del rapporto di cambio tra le valute, della deflazione/inflazione.
Occorre essere chiari: la sistematica monetizzazione del debito appare misura da apprendisti stregoni. Può produrre un'inflazione incontrollata, che avvantaggerebbe i grandi debitori, lo stato prima di tutti, e gli speculatori. Gli altri vedrebbero ridotti i loro redditi e i loro risparmi. Inoltre comprometterebbe una corretta allocazione delle risorse e degli incentivi. Non verrebbero premiati i più capaci ed efficienti.
Altrettanto evidenti, ancorché taciuti, sono i veri effetti della svalutazione della moneta da molti auspicata. Una moneta serve non solo per vendere, ma anche per comprare. Materie prime, energetiche e non, semilavorati e tecnologia di consumo di buona qualità dovrebbero essere importati a prezzi reali immutati, cioè a caro prezzo con moneta svalutata. In realtà sarebbe ridotto il valore  soltanto del lavoro e dei risparmi nazionali. Inoltre provvedimenti analoghi sarebbero adottati dai paesi concorrenti. Dunque neppure la svalutazione e l'uscita dall'euro possono salvarci.
Meglio riflettere sui fattori di una crescita sana e sostenibile: capitale umano, investimenti privati, pressione fiscale, istituzioni economiche. Occorre ricostruire le principali agenzie educative, rendendole capaci di formare cittadini responsabili e dotati di una buona formazione tecnica, scientifica e matematica. E' urgente diminuire la pressione fiscale, riducendo la spesa pubblica e ricorrendo ampiamente a strumenti previdenziali privati. Bisogna allargare il ruolo del mercato e aprire professioni e servizi alla concorrenza. E' necessario combattere a fondo concorrenza sleale, corruzione, criminalità organizzata, capitalismo clientelare.
Soltanto buoni produttori possono essere buoni consumatori. E buoni produttori possono nascere e prosperare solo con istituzioni favorevoli, in una società fortemente caratterizzata dalla certezza del diritto. Un vasto programma, soprattutto nella economia globalizzata, che per non produrre effetti perversi deve convergere su modelli virtuosi. Ma le illusioni, la vuota retorica e il disprezzo dei fatti non rappresentano una valida alternativa. Stiamo affidando a giovani non educati a sostenerla un'Italia in declino, segnata da un degrado che solo massicce dosi di verità possono arrestare.

venerdì 7 novembre 2014

Stati Uniti. Cosa c' è dietro alla vittoria repubblicana?



                                      Civilian labor force participation rate


Sul Corriere della Sera del 6 novembre 2014 Serena Danna racconta un aspetto dell'evoluzione del costume USA che non va sottovalutato:  la normalità è diventata cool.

"...il «new normal» è quasi un prodotto degli hipster degli anni 00, ma con una differenza non da poco: mentre quelli rubavano dalle sottoculture le idee e gli stili più elitari e superficiali per affermare disperatamente una diversità apparente, i «normali» del nuovo millennio recuperano dal passato valori e principi: la famiglia (contro l’individualismo dell’egocentrico hipster), il cibo sano ma «laico» (contro la dittatura del bio), l’impegno politico (contro il cinismo del tutto-fa-schifo) e la fine dell’ambiguità sessuale come cifra stilistica (contro gli eunuchi con la barba in fondo più maschilisti di un idraulico bresciano degli anni Cinquanta). Ancora una volta, viene in mente un cantante italiano, Lucio Dalla, che in Disperato Erotico Stomp dichiarava quaranta anni fa «l’impresa eccezionale, dammi retta, è essere normale...».

Si tratta della tessera non trascurabile di un mosaico idoneo a rappresentare la società americana che si è espressa nel recente voto mid-term. Ma gli elettori, votando o non votando, hanno manifestato soprattutto un chiaro malcontento per la situazione economica e il degrado sociale ed educativo. Il pesante deterioramento della situazione internazionale ha fatto il resto.
La politica economica di Obama ha lasciato irrisolti i problemi dell'economia statunitense, indebolita strutturalmente sul lato dell'offerta dal deficit di competitività e dal fallimento delle principali agenzie educative. Tale deficit è stato colmato solo parzialmente con software e automazione. Così la partecipazione alla forza lavoro (occupati o attivamente in cerca di lavoro) resta molto al di sotto del livello pre-crisi. A ciò si aggiunga che i nuovi posti di lavoro sono di solito di bassa qualità e mal retribuiti, creati nei settori dell'assistenza sanitaria e agli anziani, del commercio e della ristorazione. Restano perfettamente attuali le considerazioni espresse su La Repubblica del 9 febbraio 2014 da Maurizio Ricci:

"Se si scava nei dati, si scopre che la storia americana non è molto più allegra di quella europea: il tasso di disoccupazione, negli Usa, cala perché sempre più gente rinuncia a cercare un lavoro. Il totale di persone che lavorano o cercano attivamente lavoro (in gergo, la forza lavoro) è rimasto più o meno uguale in Europa, negli ultimi anni. Ma è drammaticamente crollato negli Stati Uniti, dove sempre più gente, esaurito il tempo in cui può fruire del sussidio di disoccupazione, rinuncia cercare un lavoro che non riesce a trovare: dal 2010 ad oggi, il tasso di partecipazione americano alla forza lavoro è diminuito di oltre il 3 per cento. Parallelamente, e per motivi del tutto statistici, è diminuito anche il tasso di disoccupazione, visto che i disoccupati si chiamano fuori dalla forza lavoro. Se Eurolandia avesse sperimentato una caduta della partecipazione alla forza lavoro di dimensioni simile a quella americana, il tasso di disoccupazione europeo non sarebbe del 12 per cento, ma del 9,5 per cento. Finanche inferiore a quello che era prima della crisi del debito europeo. Nella giusta prospettiva, la distanza fra i due tassi di disoccupazione è circa la metà di quello che dicono i numeri ad una prima lettura".

Importante  dunque, ma non determinante, il fallimento della politica estera di Obama. Il mondo di oggi non è più sicuro, bensì molto più pericoloso. Gli americani lo sanno però, come sempre, hanno votato assillati dai problemi economici e sociali del loro grande paese. 
Agli europei e agli italiani in particolare i media hanno somministrato una narrazione della situazione degli USA e dei risultati economici della presidenza Obama di solito edulcorata, apologetica, spesso priva di cenni ai nodi irrisolti della crisi. Perchè? In qualche caso si è trattato di giornalisti, opinionisti e analisti "catturati" dalla grande impresa non competitiva e dalla grande speculazione, vere, sole beneficiarie dell'approccio monetario alla crisi. Ma lo scarto tra narrazione e realtà si spiega in larga misura con il tradizionale fenomeno della militanza ideologica, che produce una informazione segnata dalla propaganda.
Karl Popper il 31 maggio 1970 in una lettera "confidenziale" a Lord Coleraine scrisse:

"Per motivi a me del tutto ignoti, la propaganda di sinistra ha ottenuto una vittoria in quasi tutti i Paesi occidentali che può essere definita solo come completa. Sembra che essi si siano accaparrato il monopolio nel controllo di tutti i "mass-media" (la loro orribile terminologia). Come ciò possa essere accaduto non so... Il vero problema è che nessuno sembra essersi reso conto di ciò che è accaduto: quale tipo di vittoria sia stata conseguita dalla sinistra; neppure gli stessi vincitori ritengono, o si rendono conto, che, per quanto riguarda i mezzi di propaganda, essi sono già diventati la "Classe dirigente"" (Karl POPPER, Dopo La società aperta, 2009, p. 386).

Questa propaganda egemone della sinistra, diventata "liberal", ha portato Obama al ripetuto successo, ma oggi non riesce più a coprirne il fallimento. Gli Stati Uniti voltano pagina, forse per sempre.


venerdì 31 ottobre 2014

USA e Russia. Chi non ha mantenuto la parola data?

Pratica di Mare 2002.

Joshua R. Itzkowitz Shifrinson su Foreign Affairs del 29 ottobre 2014 ha scritto:

"During negotiations over German reunification in 1990, did the United States promise the Soviet Union that NATO would not expand into eastern Europe? The answer remains subject to heated debate. Today, Moscow defends its invasion of Ukraine by claiming that NATO reneged on a promise to stay out of Russia’s backyard. Skeptics, meanwhile, counter that Russian claims are a pretext for aggression; in their view, Washington and its allies never formally committed to forego NATO expansion".

Poco prima dello scioglimento dell'Unione Sovietica, in occasione delle trattative sulla riunificazione della Germania, gli Stati Uniti promisero alla leadership sovietica che la NATO non si sarebbe espansa ad est e sarebbe rimasta fuori del cortile di casa della Russia.
Oggi la Russia difende la sua condotta in Ucraina denunciando l'inosservanza di tale promessa. Ma dove arriva il cortile di casa che i Russi sono fermamente determinati a difendere? Il comportamento successivo della leadership della Russia, nonostante le affermazioni attuali dei media governativi russi,  induce ad escluderne i paesi baltici e i paesi ex satelliti dell'URSS già entrati nella NATO o in procinto di entrarvi nel 2002 (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Bulgaria, Romania, Estonia, Lettonia e Lituania).
Infatti il 14 maggio 2002 i 19 ministri degli Esteri della NATO decisero di creare un "Consiglio a 20" con la Russia (nascerà a Pratica di Mare il 28 maggio). E il 23 maggio dello stesso anno il Consiglio di sicurezza nazionale dell'Ucraina, evidentemente con il consenso di Mosca, incaricò il  governo di avviare negoziati con la NATO per intensificare la cooperazione e giungere in una prospettiva di lungo termine all'entrata nell'organizzazione. Dunque nella primavera del 2002, quando l'espansione ad est della NATO era già una realtà, le relazioni USA - RUSSIA sono migliorate, nella prospettiva di un'ampia collaborazione tra l'alleanza occidentale e la potenza sorta dalle ceneri dell'URSS.
Su La Voce della Russia del 25 agosto 2014 Andrey Fediašin ha scritto:

"... il bersaglio principale dello scudo antimissile di Obama, dei missili schierati in Polonia e in Romania resta il potenziale missilistico-nucleare della Russia".

"...Aleksandr Gusev, direttore dell’Istituto di programmazione strategica:
Per alcuni anni la Russia ha chiesto alla NATO e agli USA come architetto principale dello scudo antimissile in Europa di fornire garanzie scritte del fatto che il nuovo sistema di difesa antimissile in Europa non è rivolto contro la Russia. Ma in tutti questi anni gli americani non hanno reagito in nessun modo a tale richiesta. Hanno semplicemente ripetuto che questo sistema è destinato a garantire la difesa dalle minacce provenienti dalla zona del Medio Oriente e dalla Corea del Nord. Ma questo sistema viene schierato contro le Forze Armate della Russia. Gli USA e i loro satelliti principali in Europa, ossia la Polonia e i Paesi baltici, si adoperano per far passare questa idea che per noi è assolutamente inaccettabile".

Lo schieramento del sistema antimissile occidentale, il rovesciamento del governo filorusso in Ucraina, con la prospettiva per la Russia di perdere le basi in Crimea e di vedere inserita la popolazione ucraina di lingua russa in un contesto ostile, i tentativi occidentali spesso riusciti di eliminare in Africa settentrionale e Medio Oriente i regimi autoritari tradizionalmente amici, costituiscono le plausibili spiegazioni della condotta russa che ha riacceso il contrasto con gli USA.
La vera posta in gioco è rappresentata dal consenso interno a Putin e al suo gruppo dirigente. Intaccare l'immagine di grande potenza della Federazione russa significa erodere il consenso allo stesso Putin, in larga misura dipendente dalla soddisfazione delle diffuse aspirazioni nazionaliste. Qualcuno in Occidente mira a destabilizzare la Russia per raggiungere nuovi equilibri, sulla falsariga del supporto alle cosiddette Primavere arabe. Sorprendono la miopia e l'irresponsabilità di chi coltiva tali progetti. La destabilizzazione della Federazione russa non è infatti nell' interesse dell'Occidente, chiamato a fronteggiare la minaccia del fondamentalismo islamico e la sfida cinese. L'Europa, in prima linea, richiami gli USA a una visione più realistica e responsabile.


venerdì 24 ottobre 2014

Opere pubbliche. Quelle che i privati non possono fare.




Dalle cattedre universitarie e dai banconi dei bar si invocano opere pubbliche per tornare alla mitica crescita. Ma quando spetta allo stato realizzarle? E servirebbero a rinvigorire il corpaccione stremato delle economie europee?

Luigi Einaudi:

" È errore inescusabile degli Stati moderni, i cui compiti crescono di giorno in giorno, i quali hanno bisogno di procacciarsi a prestito somme grandiose non solo oggi eccezionalmente per le opere di ricostruzione, ma domani permanentemente per ferrovie, strade, ponti, porti, scuole, ospedali e per tutte le svariate opere di civiltà le quali sono fuori della sfera privata, è errore inescusabile degli Stati moderni di partire in guerra contro i cosiddetti capitalisti, ossia contro i fornitori di risparmio nuovo allo Stato assetato di capitali" (Corriere della Sera, 1 dicembre 1946).

Qui l'economista liberale, secondo presidente della Repubblica italiana, segue uno dei massimi precursori del liberalismo contemporaneo, Adam Smith:

"Il terzo e ultimo dovere del sovrano o della repubblica è quello di erigere e conservare quelle pubbliche istituzioni e quelle opere pubbliche che, per quanto estremamente utili a una grande società, sono però di natura tale che il profitto non potrebbe mai rimborsarne la spesa a un individuo o a un piccolo numero di individui, sicché non ci si può aspettare che un individuo o un piccolo numero di individui possa erigerle o conservarle...opere e istituzioni di questo genere sono principalmente quelle per facilitare il commercio della società e quelle per promuovere l'istruzione della popolazione" (La ricchezza delle nazioni, Libro quinto).

Nel grande pensiero liberale una linea precisa: lo stato realizzi le opere pubbliche necessarie o estremamente vantaggiose per lo sviluppo civile ed economico che i privati non possono fare. Dunque niente buche da scavare per essere riempite. Bando a quei progetti ambiziosi che, conducendo al dissesto delle finanze pubbliche, determinano un aumento delle imposte o dell'inflazione. E basta con le illusioni:  nuove infrastrutture in Germania, costruite da operai polacchi, non daranno alcun apprezzabile contributo al recupero delle economie di Francia e Italia, ansimanti per il peso del welfare e la pressione fiscale, minate dal fallimento delle principali agenzie educative.

venerdì 17 ottobre 2014

Rendita o risparmio? Torniamo alla Costituzione.




  Su Phastidio.net del 16 ottobre 2014a proposito delle bozze della legge di stabilità, si rileva incisivamente:

"...questa gente vuole tassare a sangue i risparmiatori, appena respirano, dopo aver attuato una operazione “culturale” di pura depravazione, che arriva a definire “rendita” il risparmio previdenziale...A questo fine si raddoppia la tassazione sul risultato di gestione annuale dei fondi pensione, azzoppando il montante futuro. Epperò questa gente vuole anche stimolare gli agonizzanti investimenti, ignorando che il risparmio di oggi determina investimenti domani. Se ammazziamo il risparmio oggi, niente investimento domani. E invece no, non ci arrivano. Quando un paese riesce a produrre simili aberrazioni, è giusto che vada incontro al proprio destino. Altro da aggiungere non vi è".

"... il risparmio di oggi determina investimenti domani. Se ammazziamo il risparmio oggi, niente investimento domani". Esatto. Questa è una delle ragioni principali che indussero i Costituenti ad introdurre nella Costituzione italiana l' art. 47:

"La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l'esercizio del credito.
Favorisce l'accesso del risparmio popolare alla proprietà dell'abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese".

La Seconda guerra mondiale era appena terminata e l' Italia era povera di capitali, materie prime, macchinari. Einaudi e De Gasperi guidarono la ricostruzione, preoccupandosi di difendere il risparmio, il valore della Lira e la solidità delle finanze pubbliche. Luigi Einaudi, secondo presidente della Repubblica italiana ed economista insigne, così scrisse della tutela costituzionale del risparmio che si stava approntando:

"Ce n’è per tutti. La misericordia divina ha amplissime braccia: ma la misericordia costituzionale le allarga assai più. Incoraggia i risparmiatori in tutte le forme che il risparmio può assumere; ad investirsi nei titoli di Stato e nelle obbligazioni private, nella terra e nelle case, nelle industrie e nei commerci. Incoraggia il risparmio dei piccoli, dei medi e dei grandi risparmiatori. Dopo averlo incoraggiato, lo tutela, lo tiene su con le dande, perseguita i filibustieri sempre all’erta per portar via i danari altrui, li sgomina se si annidano nelle banche; e particolarmente veglia affinché la gente del popolo possa acquistar la casa, accedere alla terra, acquistare azioni delle grandi società industriali. Epperciò disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito. Mai non si vide alla costituente tanta concorde volontà di difendere coloro che rinunciano al godimento dei beni presenti a favore dei beni futuri, e consacrano i loro sforzi a produrre beni strumentali, quei beni cioè che non crescono oggi la capacità di godimento dei beni della terra, ma consentiranno all’uomo di ottenere domani maggior copia dei beni medesimi. Era bello, era commovente il quadro dello Stato, padre di tutte le misericordie terrene, intento ad incoraggiare, a tutelare, a disciplinare, a coordinare ed a controllare le maniere nelle quali il risparmio si forma e cresce e divenuto capitale, si investe e frutta e rende prospera la società umana" (Corriere della Sera, 27 maggio 1947).

Così ancora lo stesso Einaudi:

"Quel che è interesse dei risparmiatori – moneta stabile e bassi interessi – è anche interesse dello Stato. È errore inescusabile degli Stati moderni, i cui compiti crescono di giorno in giorno, i quali hanno bisogno di procacciarsi a prestito somme grandiose non solo oggi eccezionalmente per le opere di ricostruzione, ma domani permanentemente per ferrovie, strade, ponti, porti, scuole, ospedali e per tutte le svariate opere di civiltà le quali sono fuori della sfera privata, è errore inescusabile degli Stati moderni di partire in guerra contro i cosiddetti capitalisti, ossia contro i fornitori di risparmio nuovo allo Stato assetato di capitali. Il dilemma è chiaro: o lo Stato richiede capitali ai risparmiatori, ma ogni giorno li allarma con imposte, con svalutazioni, con proibizioni di entrata e di uscita dai confini nazionali ed i risparmi non si offriranno nella misura sufficiente ai bisogni pubblici, ed il Tesoro dovrà ricorrere al torchio dei biglietti e sui capitali ottenuti a prestito pagherà il 5 o il 6 e forse più per cento, gran parte dei quali alti saggi sarà compenso di rischio senza costrutto alcuno per i risparmiatori: ovvero lo Stato dà sicurezza di reddito netto e sicurezza di stabilità monetaria, ed al luogo di minacciare e vessare e proibire dice ai risparmiatori: tenetevi i vostri quattrini se non me li volete dare, esportateli, nascondeteli sotto terra, fatene quel che vi salta in mente: ed i risparmiatori andranno a gara a fabbricar risparmio e ad offrirlo allo Stato al 3, al 2 e all’1%. Tra le due maniere di socializzare il risparmio la maniera di gran lunga più economica, quella che meglio contribuisce all’avanzamento della attrezzatura tecnica, alla prosperità economica ed all’accrescimento relativo del reddito dei lavoratori intellettuali e manuali, compresi in questi gli imprenditori, in confronto a quello del ceto dei risparmiatori puri (capitalisti) non è la via dell’incutere paura, del controllare, del limitare, del tassare, ma quella dei ponti d’oro: sorrisi e sicurezza. Il risparmiatore è per natura sua invincibile e quasi per definizione animale timido: fugge e si nasconde se rincorso e preso a sassate, prolifica se accarezzato a seconda del pelo" (Corriere della Sera, 1 dicembre 1946).

"Gli economisti hanno un modo curioso di rispondere alle domande: il risparmiatore medio chiede: sfuggirò io, in questa occasione del Prestito della ricostruzione, al fato dei miei predecessori travolti dalla svalutazione? Ed io ho risposto cercando di dimostrare che dare stabilità di potenza d’acquisto alla lira conviene ai risparmiatori, conviene allo Stato, conviene al benessere delle moltitudini, promuove il progresso economico e la pace sociale ed è il mezzo più economico e rapido di favorire lo spirito di intrapresa e di lavoro in confronto al capitale puro. Come ottenere che si faccia quel che conviene a tutti? La risposta non è più di spettanza dell’economista. Il risparmiatore, il quale oggi sottoscrive per fondate ragioni tecniche e finanziarie largamente spiegate nella pubblica stampa, non ha finito la sua opera quando ha dato allo Stato i mezzi per provvedere alla ricostruzione del Paese senza emettere biglietti nuovi e senza dare esca alla svalutazione.
Egli è anche un cittadino: e come tale ha diritto e dovere di partecipare alla cosa pubblica. La stabilità monetaria non è un frutto spontaneo della natura e neppure della semplice volontà di ministri e di uomini di banca. Ogni cosa buona è frutto di fatiche dure e quotidiane. È passato, se pur ci fu mai, il tempo in cui il risparmiatore poteva fare investimenti tranquilli di tutto riposo. Vigilate e vi sarà aperto il regno dei cieli. Vigilate, occupatevi della cosa pubblica, difendete apertamente e tenacemente, contro i promotori di disavanzo nei bilanci pubblici, contro i fautori del disordine economico, contro i progettisti fantasiosi, contro i fabbricanti di piani squinternati, il vostro interesse alla stabilità monetaria, che è anche interesse dello Stato e della collettività: e l’età d’oro di una lira stabile ritornerà su questa terra" (Corriere della Sera, 1 dicembre 1946).

L'alternativa è "emettere biglietti nuovi", dando "esca alla svalutazione". Oggi molti pensano che questa via sia non solo percorribile, ma auspicabile. Si tratta di una pericolosa illusione, che giova soltanto agli speculatori e allo stato debitore irresponsabile. Per tutti gli altri, che non saprebbero o non potrebbero diventare piccoli speculatori per sbarcare il lunario, che cercano di arrivare alla fine del mese con un modesto reddito fisso, che non hanno lavoro, la stabilità monetaria e delle finanze pubbliche continua ad essere un obiettivo da perseguire.

venerdì 10 ottobre 2014

Crescita. Il valore aggiunto senza buone istituzioni non basta.




  Steven Kates insegna economia alla School of Economics, Finance and Marketing della RMIT University di Melbourne. Sul blog dello IEA ha sottolineato che solo la produzione idonea ad aggiungere valore è in grado di creare crescita economica. La spesa pubblica raramente crea valore. Perciò le politiche di stimolo fiscale/monetario sono destinate a fallire:

 " Say's Law was the bedrock principle of economic theory from the earliest years of the nineteenth century until swept away in a fit of distraction by the publication of Keynes's General Theory in 1936.
It is founded on recognising that only value adding production can create economic growth. The most central section of my book is the chapter on value added, a discussion found in no other text that I know of. Yet without understanding value added, understanding that every form of production not just creates more goods and services but also at the same time uses up existing goods and services during the production process, it is impossible to think about public spending and economic policy correctly.
Only if what is produced has greater value than the resources used up can an economy grow. Government spending seldom creates value. The stimulus was therefore doomed to fail, as are so many of the policies adopted today". 

 Però la creazione di valore aggiunto non determina crescita economica in assenza di istituzioni favorevoli. La recente battuta d'arresto dell'economia tedesca, pur caratterizzata dalla produzione ad alto valore aggiunto, si spiega non solo con ragioni congiunturali, ma anche con il peggioramento del quadro politico-istituzionale e della finanza pubblica. Giuliana Ferraino sul Corriere della Sera del 10 ottobre 2014 riporta le dichiarazioni di Michael Mertin, presidente e ceo di Jenoptik, il gruppo multinazionale di ottica ed elettronica:

 "«La frenata delle imprese tedesche è legata anche alle nuove leggi sociali varate dal governo di Berlino, come il salario minimo e il taglio dell’età pensionabile, scesa da 65 a 63 anni, mentre in un Paese che invecchia come il nostro si dovrebbe alzare a 70 anni. Tutto questo rende più cupe le prospettive economiche e spinge le aziende tedesche ad assumere meno», valuta Mertin. E cita un dato: «Il debito pubblico netto tedesco è l’80% del Pil, ma se si considera quello totale, includendo le pensioni, gli stipendi dei dipendenti pubblici e altre passività future del governo, ecco che sale al 285 % del Pil»".

 "Di sicuro i dati negativi hanno suonato un campanello d’allarme per Angela Merkel, che ha parlato di «congiuntura un po’ offuscata» e ha promesso «grande decisione» per aumentare gli investimenti privati con la sburocratizzazione, il settore digitale e l’ammodernamento delle infrastrutture energetiche. «La più alta priorità sono gli investimenti», le ha fatto eco da Washington il ministro Wolfgang Schäuble. Ma «senza nuovi debiti». Tedeschi inflessibili e ostinati? Mertin condivide: «Gli investimenti pubblici non servono. E la politica monetaria della Bce ha senso. In Germania le imprese possono finanziarsi con tassi inferiori al 2%, non lo fanno. In Europa c’è tantissima liquidità, ma senza vere riforme strutturali non ci sono le condizioni per investire». E una nuova fabbrica Mertin l’aprirebbe «negli Usa o in Cina»".

 "Non ci sono le condizioni per investire". Ma quali sono tali condizioni ? Certezza e semplicità del diritto, welfare sostenibile e quindi bassa pressione fiscale su produttori e risparmiatori, finanze pubbliche in equilibrio. Ciò deve essere ben chiaro all'opinione pubblica delle democrazie europee. Nella competizione economica globale nessuna illusoria scorciatoia ci salverà dal declino.

venerdì 3 ottobre 2014

Entusiasmo religioso e conquista militare.


 
Henri Pirenne


 Henri Pirenne, tra i massimi esponenti della storiografia europea del Novecento, studioso incline alle indagini quantitative e attento ai fattori economici, nel suo Maometto e Carlomagno, parte seconda, capitolo primo, ha scritto:

"La conquista araba, che si scatena contemporaneamente sull'Europa e sull'Asia, non ha precedenti: la rapidità dei suoi successi può essere paragonata soltanto a quella con cui si costituirono gli imperi mongoli di un Attila, o, più tardi, di un Genghiz Khan o di un Tamerlano. Ma quelli furono tanto effimeri quanto la conquista dell'Islam fu duratura. Questa religione ha ancora oggi i suoi fedeli in quasi tutte le terre in cui si era imposta sotto i primi califfi. La sua diffusione fulminea è un vero miracolo paragonata alla lenta espansione del cristianesimo. Di fronte a questa irruzione cosa sono le conquiste, tanto a lungo arginate e così poco violente dei Germani che dopo secoli riuscirono appena a rosicchiare i confini della Romania?"

Maometto morì nel 632. Nel 645, solo tredici anni dopo, gli arabi convertiti alla nuova religione avevano già conquistato quasi interamente Palestina, Siria, Iraq ed Egitto, sconfiggendo le armate dei due grandi imperi Bizantino e Persiano.

"Tutto questo si spiega senza dubbio con l'imprevisto, con lo smarrimento degli eserciti bizantini disorganizzati e sconcertati di fronte a un nuovo modo di combattere; con il malcontento religioso e nazionale dei monofisiti e dei nestoriani di Siria, ai quali l'Impero non vuol fare alcuna concessione; col malcontento della Chiesa copta d'Egitto e con la debolezza dei Persiani. Ma tutte queste ragioni non sono sufficienti a spiegare un trionfo così assoluto. L'immensità dei risultati conseguiti è sproporzionata rispetto all'importanza del conquistatore" (H. Pirenne, op. e loc. cit).

Occorre dunque  dar conto della sproporzione tra conquiste, estese e rapide oltre ogni previsione, e importanza del conquistatore. Certamente l'entusiasmo religioso ha svolto un ruolo importante, moltiplicando il peso dell'elemento mondano.
La storia non si ripete mai, però offre alla riflessione modelli e percorsi che stimolano l'elaborazione di ipotesi  promettenti.  Le conquiste dell'Isis nell'odierno Medio Oriente nascono in larga misura dalla sottovalutazione del  fattore religioso e dal dilettantesco approccio occidentale alle crisi regionali favorito dall'inadeguatezza della leadership USA, i cui errori hanno determinato uno slittamento di problema dal terrorismo alla sfida strategica. 





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