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venerdì 6 giugno 2014

Brasile e India. Le nuove classi medie.



La globalizzazione ha determinato rapidi e imponenti mutamenti sociali. Nella maggior parte dei paesi occidentali i ceti medi sono in difficoltà. Le vecchie fonti di reddito sono indebolite o scomparse. I patrimoni finanziari e relazionali non permettono ormai di fronteggiare i cambiamenti epocali. Lo stato sociale non può più dare tutto a tutti.
A fronte di questo declino le economie emergenti hanno consentito lo sviluppo di nuove ampie classi medie. Si tratta di individui e famiglie dalla posizione ancora fragile e precaria, spesso pesantemente indebitati.
 Proprio questi nuovi ceti hanno un ruolo decisivo, soprattutto nei paesi democratici. Possono premere sull'acceleratore delle rivendicazioni sociali, respingendo un assetto produttivistico del welfare, della scuola e delle istituzioni economiche. Oppure possono accettare responsabilità e compiti gravosi, scegliendo competitività e produttività come fattori dello sviluppo, coniugando modernità e tradizione.
Mentre ceti emergenti e gruppi dirigenti brasiliani non riescono a condividere un percorso virtuoso e sostenibile, la classe media indiana sembra più consapevole delle difficoltà e cerca soluzioni fuori dello statalismo che ha contraddistinto l'India dopo l'indipendenza.
Su Il Sole 24 ORE del 30 maggio 2014 Gabriele Meoni ha così dato ragguaglio della situazione brasiliana:

"L'economia brasiliana arriva ai Mondiali in una forma a dir poco precaria. I dati sul primo trimestre dell'anno diffusi ieri dall'Istituto di statistica fotografano un Paese in cui le aziende non investono e le famiglie stentano a consumare. Se non fosse per la spesa pubblica che sostiene artificialmente l'economia, il quadro sarebbe anche peggiore".

"A ben vedere, i dati sono davvero preoccupanti. Il Brasile soffre da almeno tre anni di un malessere difficile da curare. Gli investimenti aziendali, frenati da infrastrutture arretrate e servizi pubblici inefficienti, sono in calo costante. La quota di investimenti privati sul Pil non arriva al 18%, uno dei tassi più bassi tra i grandi Paesi emergenti. I consumi sono stagnanti, depressi da un'inflazione superiore al 6% che riduce il potere d'acquisto dei salari. Quello zero virgola di crescita allora è solo il frutto di una spesa governativa generosa che continua a finanziare il welfare e le costruzioni popolari".

Su La Stampa del 6 giugno 2014 Subhash Agrawal così presenta l'India uscita dalle recenti elezioni:

"Negli ultimi sei mesi, molti europei e americani hanno espresso grande disprezzo per la classe media indiana e la sua attrazione per Modi...Molte di queste reazioni contengono pietà esagerata, stereotipi insultanti, ipotesi sbagliate e un malcelato disprezzo per la classe media indiana. È probabilmente una delle letture più gravemente distorte dell’India da parte del mondo esterno, e per questo merita un’analisi attenta".

"... il regime precedente ha rappresentato la peggiore combinazione di populismo, corruzione e incompetenza. Milioni di indiani hanno sperimentato una dolorosa caduta del reddito, del risparmio e della sicurezza economica, a causa del forte rallentamento della crescita durante il periodo del Partito del Congresso al potere. Il populismo di vecchio tipo non funziona più neanche in India, e i poveri ora si rendono conto che le promesse populiste li hanno lasciati completamente alle dipendenze del governo, ma incapaci di fare qualsiasi cosa. Invece di promesse populiste, come “diritto all’istruzione”, che significa molto poco quando non ci sono tetti, bagni, o anche insegnanti di scuole pubbliche, questa volta gli indiani hanno votato per chi proponeva loro politiche economiche sensate in grado di fornire energia elettrica affidabile, acqua, sanità, strade, posti di lavoro e sicurezza. Tutti bisogni semplici e naturali che l’Occidente dovrebbe rispettare".

La recente svolta indiana è comprensibile e va seguita con attenzione. Può una grande democrazia come quella indiana adottare un assetto produttivistico e abbandonare davvero l'abituale statalismo, continuando ad attribuire alla famiglia compiti fondamentali?
E' un'evoluzione auspicabile, che si realizzerà quando la famiglia e il matrimonio diventeranno spazio di affetto e libertà, segnato dalla piena parità.

venerdì 30 maggio 2014

Crisi. Lo scenario immaginario.




Sui tratti e le prospettive della crisi economica europea si è ormai formato un vasto consenso di superficie.  I più spiegano la diffusa caduta di reddito e occupazione soprattutto con la forza della moneta unica  e il cosiddetto rigore applicato alle finanze pubbliche, entrambi imposti dalla prepotente Germania. Si invocano politiche monetarie accomodanti e approcci keynesiani alla spesa pubblica. Si indica come modello la politica economica statunitense.
Tale scenario sorprende per la lontananza dalla realtà. L'Europa non si spiega solo con l'Europa. Oggi più di ieri, con la globalizzazione, risultano decisive la produttività, la competitività, la capacità di attrarre investimenti esteri, l'attitudine all'innovazione produttiva e di processo, l'adozione di un assetto produttivistico, la sostenibilità del welfare, la qualità del capitale umano, valutate in ambito globale.
E' in atto una rivoluzione segnata da ondate successive. Apertura internazionale dell'economia, digitalizzazione della produzione, del commercio e dei consumi, creazione di ampie e fragili nuove classi medie determinano una crisi strutturale e non ciclica.

Il premio Nobel per l'economia  Michael Spence ha scritto su  Il Sole 24 Ore:

"In altre parole, a differenza della precedente ondata di tecnologia digitale che aveva spinto le imprese all'accesso e all'impiego di risorse sottoutilizzate di manodopera nel mondo, stavolta la forza trainante è l'abbattimento dei costi attraverso la sostituzione del lavoro".

"Stiamo entrando in un mondo in cui i flussi globali più importanti saranno le idee e il capitale digitale e non i beni, i servizi o il capitale tradizionale, adattarvisi richiederà un cambiamento di mentalità, di politica, di investimento (soprattutto in capitale umano) e anche nuovi modelli di occupazione e distribuzione. Nessuno sa con certezza come finirà, ma cercare di capire dove ci stanno portando queste forze e queste tendenze tecnologiche è già un buon punto di partenza".

Danilo Taino così ha aperto il suo articolo sul  Corriere della Sera del  28 maggio 2014:

"...austerità contro crescita. Questa era — forse — la guerra di ieri: oggi c’è altro per cui vale la pena battersi".

Al richiamo di Taino non può non seguire una domanda: chi sono questi immaginifici e perchè proliferano? Si tratta di politici spaventati o in cerca di facile successo, imprenditori poco avvezzi alla concorrenza e attratti da apparenti scorciatoie,  intellettuali che aprono vicoli ciechi per errore o cortigianeria. Basteranno retorica e propaganda a prevenire e contenere la disillusione e la delusione?


venerdì 23 maggio 2014

Prima guerra mondiale. L'inutile strage.




Il 28 luglio 1914 l'Impero austro-ungarico dichiarò guerra al Regno di Serbia. Così iniziò la Prima guerra mondiale, la Grande guerra. L'entrata in guerra dell'Italia avvenne quasi un anno dopo, il 24 maggio 1915.
Quella fatale estate del 1914 sorprese anche osservatori lucidi ed esperti. Significative le parole del grande filosofo britannico Bertrand Russell, allora quarantaduenne, nato in una delle più importanti famiglie aristocratiche, il cui nonno, lord John Russell, era stato primo ministro e ministro degli esteri:

"Mi trovavo a Cambridge nelle calde giornate della fine di luglio e non facevo che discutere con accanimento della situazione politica con chiunque mi capitasse a tiro. Mi sembrava impossibile che le nazioni europee commettessero la pazzia di scatenare una guerra, ma non dubitavo che, se la guerra fosse davvero scoppiata, l'Inghilterra sarebbe stata trascinata a parteciparvi. Sentivo invece, con tutta l'anima, che il nostro paese doveva rimanere neutrale..."

"Con mio vivo stupore...dovetti persuadermi che, in generale, uomini e donne si rallegravano all'idea di fare la guerra"

"Ma ancor più raccapricciante, a parer mio, era il fatto che la prospettiva di una carneficina fosse causa di piacevole eccitamento per, si può dire, il novanta per cento della popolazione. Dovetti ricredermi sulla natura umana... Fino a quel momento avevo creduto che i più amassero i propri figli; la guerra mi rivelò che coloro che li amano sono l'eccezione. Avevo creduto che la gente, in generale, amasse il denaro più di ogni altra cosa; mi resi conto che amavano ancor più la distruzione. Avevo immaginato che gli intellettuali amassero soprattutto la verità, ma qui ancora scoprii che quelli che preferivano la verità alla notorietà erano meno del dieci per cento" (Bertrand RUSSELL, L'Autobiografia, 1914 - 1944, Volume secondo, 1971, pp. 11, 12, 14 e  15).

La sorpresa e l'amarezza colsero in quei giorni anche Giovanni Giolitti, lo statista liberale che segnò con la sua opera e la sua personalità il decennio precedente. Giolitti assunse una posizione neutralista, cercando di impedire la guerra e la partecipazione ad essa dell'Italia:

"Ricordavo i due tentativi dell'Austria, che avevo concorso a sventare, per aggredire la Serbia nell'anno precedente, e sentivo e sapevo che il partito militare austriaco mirava ostinatamente a tale scopo; ma io confidavo che le ragioni della pace, che erano così grandi e universali, avrebbero prevalso contro quella criminale infatuazione. La guerra con la Serbia era voluta dai militaristi austriaci come mezzo per sanare le discordie interne, con l'illusione che essa potesse rimanere isolata; ma io pensavo che le altre potenze, che non avevano quelle ragioni e non potevano farsi illusioni sul contegno della Russia di fronte ad una tale provocazione, e che avrebbero dovuto comprendere l'enormità del disastro che la guerra europea sarebbe stata per tutti, avrebbero all'ultimo trovato un compromesso ed una transazione che evitasse l'immane rovina"

"...io osservavo che non si può portare il proprio Paese alla guerra per ragione di sentimento verso altri popoli, ma solo per la tutela del suo onore e dei suoi primari interessi. Tali sono le ragioni pratiche...per le quali io esprimevo parere contrario all'entrata dell'Italia in guerra; e le quali, per quanto riguarda le previsioni della durata della guerra, delle sue difficoltà e dei sacrifizi di uomini e di ricchezza che essa implicava, furono poi pienamente confermate dagli avvenimenti" (Giovanni GIOLITTI, Memorie della mia vita, 1982, pp. 316, 317, 323  e 324).

I cattolici italiani e la Santa Sede si opposero alla guerra. Papa Benedetto XV tentò ripetutamente di comporre il conflitto.  Sua è l'espressione "inutile strage" con cui nel 1917 denunciò l'orrore, supplicando le potenze di deporre le armi. 
La memoria generazionale indebolita e fuorviata, i sentimenti nazionalisti diffusi nel Diciannovesimo secolo e i difetti istituzionali delle potenze coinvolte condussero dunque l'Europa alla tragedia. La Grande guerra aprì la via al fascismo, al nazismo e al regime sovietico. Essa costituì il punto di avvio del "Secolo breve" chiuso dalla caduta del Muro di Berlino (1989).
L'effettiva portata di tale immane tragedia sfuggì anche ai suoi più influenti protagonisti. Il più brillante generale italiano del Ventesimo secolo, Enrico Caviglia, ha terminato il suo libro sulla battaglia di Vittorio Veneto, con queste parole:

"Ma ora la nazione ha acquistato maggior fiducia in sé, nella sua forza economica, nella sua capacità organizzatrice, nella possibilità di diventare una potenza industriale: nella sua resistenza alle lotte d'ogni genere. Infine l'Italia ha dato al mondo una sicura prova che non è una nazione effimera, ma un edificio di profonde e sicure basi,  di forze morali intellettuali e materiali solide e resistenti..." (Enrico CAVIGLIA, Vittorio Veneto, 1920, p. 121).

Non era vero. Il regime mussoliniano, l'8 settembre 1943, la difficile democratizzazione e l'inadeguata modernizzazione che hanno seguito la Seconda guerra mondiale affondano le loro radici in quell'"inutile strage".

venerdì 16 maggio 2014

Urge ristrutturazione. Del debito pubblico o della spesa pubblica?




Sul Corriere della Sera del 14 maggio 2014 Lucrezia Reichlin esamina la questione dell'imponente debito pubblico italiano, suggerendo una sua ristrutturazione "creativa", sotto l'egida dell'Unione Europea:

"In una unione monetaria un Paese non può unilateralmente creare inflazione e svalutare, inoltre la crisi del debito in una nazione contagia gli altri perché mette a repentaglio la sopravvivenza stessa della divisa comune. Va costruito quindi un meccanismo di risoluzione a livello federale che renda legittima la ristrutturazione".

Le risponde Giampaolo Galli su Il Sole 24 ORE del 15 maggio 2014:

"...ritengo di dover argomentare che la ristrutturazione del debito non sarebbe affatto una catarsi liberatoria e non è comunque un'alternativa all'austerity. Essa sarebbe invece una forma parossistica di austerity concentrata in un brevissimo periodo di tempo e produrrebbe una desertificazione del paese, delle sue imprese, del suo capitale umano e tecnologico".

"È infatti del tutto evidente che una ristrutturazione, di necessità forzosa, deve essere nell'ordine di varie decine di punti di Pil, diciamo fra i 30 e i 50 punti, in modo da abbattere in modo decisivo il rapporto debito su Pil. Se fosse più modesta, il debito continuerebbe a non essere credibile e il Tesoro non riuscirebbe più a rifinanziarlo sul mercato".

"Gli italiani - per lo più famiglie ma anche banche e imprese - si vedrebbero quindi più o meno dimezzato il valore dei loro titoli di Stato". 

" In sostanza si tratterebbe di una tassa straordinaria e straordinariamente elevata nell'ordine di svariate decine di punti di Pil. Per confronto la stretta fiscale operata dal governo Monti nel 2012 è stata di 2,5 punti di Pil. Appare evidente che crollerebbe, ben più di quanto non sia accaduto sino a oggi, la domanda interna con effetti devastanti sulle imprese e sull'occupazione. Un'altra conseguenza sarebbe il default delle banche, con connessa esigenza di operare massicci salvataggi che costringerebbero a emettere nuovo debito pubblico. È difficile immaginare come l'economia possa riprendersi dopo questo shock, anche perché non esistono precedenti in epoca moderna di ristrutturazioni di questa entità in un paese caratterizzato, come è l'Italia, da una diffusione di massa del risparmio e dei titoli di Stato. È però certo che ci vorrebbero molti anni segnati da sofferenze sociali mai sperimentate prima".

Alle condivisibili considerazioni di Galli si deve aggiungere un rilievo di fondamentale importanza: la ristrutturazione del debito non sanerebbe i gravi problemi che precludono la crescita economica.
Accanto a profondi fattori socio-culturali resterebbe infatti elevatissima la pressione fiscale, maggiore responsabile della stagnazione/recessione economica. Ormai supera il 50% del PIL, consentendo una intermediazione pubblica di più della metà della ricchezza prodotta nel paese. Tale insostenibile prelievo fiscale è necessario per fronteggiare l'enorme spesa pubblica, che ormai ammonta a più di ottocento miliardi. Dunque la spesa pubblica italiana, non il debito pubblico, deve essere ristrutturata. Nessun settore sia sottratto alla riforma, guidata dal principio di sussidiarietà. Meno tasse per ceti medi e imprenditori, chiamati in cambio ad assumersi maggiori responsabilità.

venerdì 9 maggio 2014

Costituzione cinese. Il welfare produttivistico.




  Ian Holliday insegna scienze politiche all'Università di Hong Kong. In un articolo di qualche anno fa ha delineato il concetto di welfare produttivistico, riferito allo stato sociale di alcuni paesi dell'Estremo Oriente:  Giappone, Hong Kong, Singapore, Corea del Sud e Taiwan (Ian HOLLIDAY, Productivist Welfare Capitalism: Social Policy in East Asia, in Political Studies, Volume 48, 2000, pagg. 706-723).
I paesi con un welfare produttivistico hanno una spesa pubblica sociale contenuta, una politica sociale finalizzata alla crescita economica, attribuiscono un ruolo fondamentale alla famiglia e compiti di regolazione allo stato. Il welfare è costruito pezzo per pezzo, pragmaticamente, senza un significativo riferimento alla cittadinanza e a diritti a questa connessi.  
Al modello produttivistico è riconducibile anche il welfare della Cina (Repubblica Popolare Cinese).
L' art. 14 della Costituzione cinese dispone che:

"The State properly apportions accumulation and consumption, concerns itself with the interests of the collective and the individual as well as of the State and, on the basis of expanded production, gradually improves the material and cultural life of the people.
The State establishes a sound social security system compatible with the level of economic development".

Lo stato fissa le quote di consumo e risparmio. Istituisce un sostenibile sistema di sicurezza sociale "compatibile con il livello dello sviluppo economico". L'estensione dei diritti sociali è espressamente fatta dipendere dall'aumento della produzione.
Finora la Cina ha mantenuto un welfare che copre poco e costa poco. Tale limitata copertura è determinata dal diverso trattamento riservato a campagna e città, a immigrati, residenti temporanei e residenti permanenti. Lo stato sociale produttivistico è evidentemente fattore di  competitività del sistema nella competizione economica globale. Con questa potenza le economie  occidentali sono chiamate a misurarsi.

venerdì 2 maggio 2014

Risparmio e moneta. I problemi dell'economia USA.


  Su Il Sole 24 ORE Stephen S. Roach, ex presidente di Morgan Stanley Asia, con un'analisi fuori del coro individua i principali problemi dell'economia USA: il risparmio e la competitività insufficienti.

Scrive Roach:

"Lo yuan, la moneta cinese, negli ultimi mesi si è indebolito riportando in auge le accuse contro la Cina di manipolazione della moneta e svalutazione competitiva ai danni degli altri Paesi. A metà aprile, il Tesoro Usa ha espresso «timori particolarmente seri», sottolineando che la questione rappresenta da tempo uno dei problemi di politica economica più spinosi nei rapporti tra Usa e Cina.
È un dibattito ispirato da ragioni politiche e basato su tesi sbagliate. Se portate all'estremo, le accuse americane rischiano di far scivolare le due maggiori economie mondiali lungo una china pericolosa di attriti commerciali, protezionismo o peggio".

"L'ossessione americana per il tasso di cambio con la Cina è un classico caso di negazione politica. I lavoratori americani rimangono sotto pressione, sia dal punto di vista dei salari reali che dal punto di vista del rischio disoccupazione, e i politici di conseguenza si trovano costretti a dare una risposta e lo fanno prendendo di mira la componente cinese di un disavanzo commerciale che è in crescita da tempo, e sostenendo che la colpa dei mali ormai incancreniti della classe media americana è la manipolazione del tasso di cambio da parte di Pechino. Il disavanzo commerciale degli Usa è uno squilibrio multilaterale con un gran numero di Paesi - 102 in totale - non un problema bilaterale con la Cina. E non nasce dalla manipolazione dello yuan, ma dal fatto che gli Usa non risparmiano abbastanza".

"Ci sono due visioni sul futuro delle relazioni tra Stati Uniti e Cina: una che vede solo rischi e un'altra che vede opportunità. L'ossessione per lo yuan ricade nella prima categoria: non tiene conto del riequilibrio e delle riforme già in corso in Cina e distoglie l'attenzione dell'America dalla necessità di affrontare il suo problema macroeconomico più serio sul lungo termine, la carenza di risparmi. Al contrario, vedere la Cina come un'opportunità mette in luce la necessità, per l'America, di occuparsi dei suoi squilibri, ricostruendo la competitività del Paese e dandosi da fare per accaparrarsi una quota significativa del boom prossimo venturo della domanda interna cinese".

Bisogna che gli USA smettano di consumare al di sopra delle loro possibilità. Occorre riprendere a risparmiare. Sono sbagliati e fuorvianti gli approcci monetaristi. 
Le misure devono mirare a ricostruire il capitale umano, l'etica del lavoro e della responsabilità, la competitività delle imprese. Questo è quello che non ha fatto l'Amministrazione Obama. All'incremento del PIL corrisponde un netto aumento del credito al consumo. Gli americani riprendono a indebitarsi.
Analoghe considerazioni sono opponibili alle proposte demagogiche che affollano il dibattito pubblico italiano. L'euro e la linea tedesca sono alibi a cui ricorrono politici ed intellettuali in cerca di facili consensi. In realtà  l'Italia può evitare il declino solo migliorando il capitale umano, rendendo più efficiente la pubblica amministrazione, conseguendo una ragionevole certezza del diritto, ampliando la concorrenza, abbassando la pressione fiscale e aumentando la competitività strutturale delle imprese.
Come negli Stati Uniti, ai ceti medi e agli impenditori occorre parlare con franchezza: in cambio di una minore pressione fiscale devono assumersi maggiori responsabilità.

venerdì 25 aprile 2014

Luca Ricolfi. L'enigma della crescita.


Il professor Luca Ricolfi insegna analisi dei dati all'Università di Torino. Nel suo recentissimo L'enigma della crescita espone un'analisi profonda e per molti aspetti originale dello stato delle economie avanzate.
Ricolfi  rileva che tali economie erano ormai stagnanti o tendevano alla stagnazione già prima della crisi in corso, mentre le economie dei paesi emergenti crescevano, con l'importante differenza che i paesi con buoni fondamentali si sarebbero arrestati su un reddito alto. Questo perchè:

"La crescita fa aumentare il benessere, ma l'aumento del benessere fa lievitare  i costi di produzione e riduce gli incentivi a migliorare la propria condizione. Così la crescita prima rallenta, poi diventa stagnazione, e infine si arresta. E'  questo il meccanismo per cui, a parità di altre condizioni, i paesi più poveri crescono di più dei paesi più ricchi" (op. cit., 2014, p. 9).

"...le società avanzate producono benessere, e il benessere contiene in sé le forze che rallentano la spinta al suo incremento" (op. cit, p. 8).

Ora però "Si può pensare che la crisi abbia abbassato il reddito di equilibrio di tutti i paesi, o di molti di essi. Ma si può anche pensare che, nel lungo periodo, il ruolo frenante del benessere si attenui" (op. cit., p. 164).
La crescita è un obiettivo ancora largamente desiderabile. Allora che fare? "Un paese può fare investimenti in istruzione, può ridurre le tasse, può migliorare le proprie istituzioni di mercato" (op. cit., p. 166).

L'enigma della crescita è una lettura davvero utile per capire il mondo contemporaneo. Ha il grande merito di individuare fattori e tendenze fondamentali della crescita economica senza accogliere acriticamente le fuorvianti spiegazioni/ricette macroeconomiche e monetariste oggi tanto diffuse.
La attuale frenata di alcuni dei principali paesi emergenti in realtà non smentisce ma conferma le tesi dell'autore, essendo in larga misura determinata dalle aspettative dei nuovi ceti prodotti dallo sviluppo economico. Si tratta di individui e famiglie dalla posizione economica e sociale migliorata ma ancora precaria, gravati da pesanti debiti personali. Le loro attese sono rivolte soprattutto allo stato ed hanno per oggetto l'allargamento del welfare, che minerebbe la competitività del sistema.
Qualche riserva si deve invece avanzare sulle misure proposte. Ricolfi si è detto convinto che un paese con una pressione fiscale complessivamente alta possa continuare a crescere purchè restino adeguatamente basse le imposte sulle imprese e che un ampio stato sociale non sia incompatibile con la crescita. Ma osservatori "esterni" hanno sottolineato che proprio il tradizionale welfare occidentale frena lo sviluppo.



 Lo stesso welfare, considerato insostenibile,  è ormai in via di demolizione o profonda ristrutturazione  proprio nelle democrazie del Nord Europa.



Occorre insomma più coraggio nel ridurre i confini dello stato e nel ridare maggiori responsabilità agli individui, alle famiglie e alle formazioni sociali, creando così le condizioni per una ripresa dell'etica del lavoro e della responsabilità.

sabato 19 aprile 2014

SIPRI. Spese militari 2013.

Per  il SIPRI di Stoccolma Carina Solmirano e Sam Perlo-Freeman hanno redatto un efficace resoconto delle spese militari rilevate nel 2013. A fronte di una diminuzione in quasi tutti i paesi occidentali, risulta una tendenza all'aumento nelle restanti aree.



E' significativa la spesa russa, sette volte minore rispetto a quella degli Stati Uniti, meno della metà di quella cinese e non molto più grande della francese. Il dato, sia pure con una tendenza alla crescita, riflette la debolezza economica della compagine statale erede dell'URSS e concorre a delineare i tratti di potenza regionale che ormai la contraddistinguono.
Da sottolineare anche i dati relativi a Germania e Giappone. I due grandi sconfitti della Seconda guerra mondiale continuano a spendere poco per le forze armate, in rapporto al PIL e in termini assoluti.
Si noti infine l'incremento della spesa di quasi tutti i paesi cosiddetti emergenti, mediorientali e africani soprattutto. Una tendenza inquietante, di cui devono essere considerati largamente responsabili i notabili locali. 

venerdì 11 aprile 2014

La Chiesa cattolica e la crisi economica.




Già nei primi mesi del suo pontificato papa Francesco ha denunciato la grave condizione dei poveri, in aumento a causa della crisi economica. Nelle parole del pontefice anche una dura condanna del modello sociale e culturale che è prevalso in Occidente.
Nulla di nuovo e inaspettato per i fedeli cattolici che conoscono il Vangelo e il magistero della Chiesa. Ma, soprattutto negli USA, non pochi conservatori hanno criticato il papa, considerato ostile alla libertà economica e al mercato. In realtà il successore di Benedetto XVI  ha ripresentato  in termini diretti  e coinvolgenti il tradizionale insegnamento della Chiesa cattolica,  riassunto dallo stesso Ratzinger nella sua enciclica Deus caritas est:

"27. Il marxismo aveva indicato nella rivoluzione mondiale e nella sua preparazione la panacea per la problematica sociale: attraverso la rivoluzione e la conseguente collettivizzazione dei mezzi di produzione — si asseriva in tale dottrina — doveva improvvisamente andare tutto in modo diverso e migliore. Questo sogno è svanito. Nella situazione difficile nella quale oggi ci troviamo anche a causa della globalizzazione dell'economia, la dottrina sociale della Chiesa è diventata un'indicazione fondamentale, che propone orientamenti validi ben al di là dei confini di essa: questi orientamenti — di fronte al progredire dello sviluppo — devono essere affrontati nel dialogo con tutti coloro che si preoccupano seriamente dell'uomo e del suo mondo" .

"28. Per definire più accuratamente la relazione tra il necessario impegno per la giustizia e il servizio della carità, occorre prendere nota di due fondamentali situazioni di fatto:

a) Il giusto ordine della società e dello Stato è compito centrale della politica. Uno Stato che non fosse retto secondo giustizia si ridurrebbe ad una grande banda di ladri, come disse una volta Agostino: « Remota itaque iustitia quid sunt regna nisi magna latrocinia? » [18]. Alla struttura fondamentale del cristianesimo appartiene la distinzione tra ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio (cfr Mt 22, 21), cioè la distinzione tra Stato e Chiesa o, come dice il Concilio Vaticano II, l'autonomia delle realtà temporali [19]. Lo Stato non può imporre la religione, ma deve garantire la sua libertà e la pace tra gli aderenti alle diverse religioni; la Chiesa come espressione sociale della fede cristiana, da parte sua, ha la sua indipendenza e vive sulla base della fede la sua forma comunitaria, che lo Stato deve rispettare. Le due sfere sono distinte, ma sempre in relazione reciproca.
La giustizia è lo scopo e quindi anche la misura intrinseca di ogni politica. La politica è più che una semplice tecnica per la definizione dei pubblici ordinamenti: la sua origine e il suo scopo si trovano appunto nella giustizia, e questa è di natura etica. Così lo Stato si trova di fatto inevitabilmente di fronte all'interrogativo: come realizzare la giustizia qui ed ora? Ma questa domanda presuppone l'altra più radicale: che cosa è la giustizia? Questo è un problema che riguarda la ragione pratica; ma per poter operare rettamente, la ragione deve sempre di nuovo essere purificata, perché il suo accecamento etico, derivante dal prevalere dell'interesse e del potere che l'abbagliano, è un pericolo mai totalmente eliminabile.
In questo punto politica e fede si toccano. Senz'altro, la fede ha la sua specifica natura di incontro con il Dio vivente — un incontro che ci apre nuovi orizzonti molto al di là dell'ambito proprio della ragione. Ma al contempo essa è una forza purificatrice per la ragione stessa. Partendo dalla prospettiva di Dio, la libera dai suoi accecamenti e perciò l'aiuta ad essere meglio se stessa. La fede permette alla ragione di svolgere in modo migliore il suo compito e di vedere meglio ciò che le è proprio. È qui che si colloca la dottrina sociale cattolica: essa non vuole conferire alla Chiesa un potere sullo Stato. Neppure vuole imporre a coloro che non condividono la fede prospettive e modi di comportamento che appartengono a questa. Vuole semplicemente contribuire alla purificazione della ragione e recare il proprio aiuto per far sì che ciò che è giusto possa, qui ed ora, essere riconosciuto e poi anche realizzato.
La dottrina sociale della Chiesa argomenta a partire dalla ragione e dal diritto naturale, cioè a partire da ciò che è conforme alla natura di ogni essere umano. E sa che non è compito della Chiesa far essa stessa valere politicamente questa dottrina: essa vuole servire la formazione della coscienza nella politica e contribuire affinché cresca la percezione delle vere esigenze della giustizia e, insieme, la disponibilità ad agire in base ad esse, anche quando ciò contrastasse con situazioni di interesse personale. Questo significa che la costruzione di un giusto ordinamento sociale e statale, mediante il quale a ciascuno venga dato ciò che gli spetta, è un compito fondamentale che ogni generazione deve nuovamente affrontare. Trattandosi di un compito politico, questo non può essere incarico immediato della Chiesa. Ma siccome è allo stesso tempo un compito umano primario, la Chiesa ha il dovere di offrire attraverso la purificazione della ragione e attraverso la formazione etica il suo contributo specifico, affinché le esigenze della giustizia diventino comprensibili e politicamente realizzabili.
La Chiesa non può e non deve prendere nelle sue mani la battaglia politica per realizzare la società più giusta possibile. Non può e non deve mettersi al posto dello Stato. Ma non può e non deve neanche restare ai margini nella lotta per la giustizia. Deve inserirsi in essa per la via dell'argomentazione razionale e deve risvegliare le forze spirituali, senza le quali la giustizia, che sempre richiede anche rinunce, non può affermarsi e prosperare. La società giusta non può essere opera della Chiesa, ma deve essere realizzata dalla politica. Tuttavia l'adoperarsi per la giustizia lavorando per l'apertura dell'intelligenza e della volontà alle esigenze del bene la interessa profondamente.

b) L'amore — caritas — sarà sempre necessario, anche nella società più giusta. Non c'è nessun ordinamento statale giusto che possa rendere superfluo il servizio dell'amore. Chi vuole sbarazzarsi dell'amore si dispone a sbarazzarsi dell'uomo in quanto uomo. Ci sarà sempre sofferenza che necessita di consolazione e di aiuto. Sempre ci sarà solitudine. Sempre ci saranno anche situazioni di necessità materiale nelle quali è indispensabile un aiuto nella linea di un concreto amore per il prossimo [20]. Lo Stato che vuole provvedere a tutto, che assorbe tutto in sé, diventa in definitiva un'istanza burocratica che non può assicurare l'essenziale di cui l'uomo sofferente — ogni uomo — ha bisogno: l'amorevole dedizione personale. Non uno Stato che regoli e domini tutto è ciò che ci occorre, ma invece uno Stato che generosamente riconosca e sostenga, nella linea del principio di sussidiarietà, le iniziative che sorgono dalle diverse forze sociali e uniscono spontaneità e vicinanza agli uomini bisognosi di aiuto. La Chiesa è una di queste forze vive: in essa pulsa la dinamica dell'amore suscitato dallo Spirito di Cristo. Questo amore non offre agli uomini solamente un aiuto materiale, ma anche ristoro e cura dell'anima, un aiuto spesso più necessario del sostegno materiale. L'affermazione secondo la quale le strutture giuste renderebbero superflue le opere di carità di fatto nasconde una concezione materialistica dell'uomo: il pregiudizio secondo cui l'uomo vivrebbe « di solo pane » (Mt 4, 4; cfr Dt 8, 3) — convinzione che umilia l'uomo e disconosce proprio ciò che è più specificamente umano".

Non a caso le società più aperte e libere, anche sotto il profilo economico, sono cresciute nell'Europa cristiana e grazie alla sua influenza. Una società e una economia libere sono infatti sostenibili solo se la responsabilità individuale raggiunge un livello adeguato, soltanto quando i costumi e le istituzioni liberi si accompagnano all'etica della responsabilità. Ogni nuova generazione ha bisogno dell'educazione alla responsabilità che il cristianesimo tradizionalmente offre.
Chi negli Stati Uniti si richiama alle tradizioni di libertà non può non vedere nel magistero dei pontefici, Francesco compreso, un solido baluardo della libertà e della dignità umane. Così Sarah Palin su Facebook il 14 novembre 2013:

"Just to clarify my comment to Jake Tapper about Pope Francis, it was not my intention to be critical of Pope Francis. I was reminding viewers that we need to do our own homework on news subjects, and I hadn't done mine yet on the Pope's recent comments as reported by the media. Knowing full well how often the media mischaracterizes a person’s comments (especially a religious leader’s), I don’t trust them to get it right when it comes to reporting on the Vatican. I do, however, trust my many Catholic friends and family, including some excellent Catholic writers, who have since assured me that Pope Francis is as sincere and faithful a shepherd of his church as his two predecessors whom I admired. I apologize for not being clearer in my response, thus opening the door to critical media that does what it does best in ginning up controversy".

Resta il pericolo che siano segmenti della stessa cattolicità a fraintendere il magistero cattolico ed il messaggio evangelico, riducendo il cristianesimo a ideologia e privandolo in questo modo della sua forza universale, della sua capacità di purificare le coscienze e di realizzare così la necessaria premessa di una società migliore. Sarebbero i poveri le prime vittime di un siffatto nuovo integralismo cattolico.

venerdì 4 aprile 2014

Gli obiettivi della Russia di Putin.




Mentre le diplomazie ad alto livello e non le forze armate si confrontano, dopo le recenti vicende dell'Ucraina, torna in primo piano una questione non nuova, ma oggetto di insufficiente analisi.
Quali sono i reali obiettivi della Russia post-sovietica? Dove vuole arrivare Putin? Qual'è la portata della caduta dell'ideologia marxista-leninista? Regge l'analogia tra la crisi odierna e quella segnata dagli accordi di Monaco, che condusse alla Seconda guerra mondiale?
Sembra necessario preliminarmente accennare al pressoché misconosciuto ruolo dell'ideologia marxista-leninista nello sviluppo della strategia dell'Unione Sovietica. Ha scritto il compianto professor Victor Zaslavsky, uno dei più autorevoli studiosi del regime sovietico:

"...è indispensabile studiare il ruolo svolto dall'ideologia marxista-leninista nella formulazione della politica estera e nella formazione della mentalità della leadership staliniana e, soprattutto, dello stesso Stalin".

"L'idea che il mondo fosse diviso in due blocchi la cui coesistenza pacifica risultava impossibile e che le guerre, sia tra paesi capitalisti sia, soprattutto, tra il blocco socialista e quello capitalista, fossero inevitabili ha origine nella...formulazione di Lenin "kto kogo" (chi vince contro chi), in cui è sintetizzata l'essenza della concezione bolscevica delle relazioni internazionali" (Victor ZASLAVSKY, Storia del sistema sovietico, 2009, p. 133 e seg.).

Soltanto l'attenzione a questo contesto ideologico-strategico, caratterizzato dall'idea dell'inevitabilità della guerra tra i blocchi e del trionfo finale del socialismo, consente una buona comprensione della politica estera sovietica, che ancora Zaslavsky delinea  così:

"Fino alla morte Molotov, ha giudicato sempre con orgoglio principale risultato della politica estera sovietica del dopoguerra tagliare l'Europa a fette pezzo dopo pezzo, la cosiddetta  "tattica del salame"" (V. ZASLAVSKY, op. cit., p. 135).

La Russia post-sovietica trova la sua origine nell'implosione dell' URSS, compagine nata dalla Rivoluzione d'Ottobre, senza ereditarne l'impronta ideologica. I problemi della nuova Federazione russa sembrano piuttosto presentare qualche analogia con le difficoltà dell'Impero tedesco costituito con la vittoria prussiana su quelli austriaco e francese, che Bismarck saggiamente considerava saturo di territori e in ritardo sulla via della modernizzazione. Si tratta non di espandere il territorio e l'influenza esistenti, ma di conservarli. E' necessario fronteggiare le tendenze demografiche in atto, segnate dal crescente peso della componente islamica. Bisogna ristrutturare l'economia, gravata dalla bassa produttività e dipendente dalla esportazione di materie prime e armi.
La fragile potenza eurasiatica erede dell'URSS, anche con la sua recente condotta in Ucraina e Siria, sembra insomma inseguire l'obiettivo della conservazione dello statu quo, non dell'espansione. La sua leadership pare consapevole delle condizioni e dei limiti in cui è chiamata ad operare. Putin, ex ufficiale del KGB a lungo di stanza nella Germania orientale, verosimilmente  conosce bene le difficoltà incontrate  dall'Unione Sovietica nel "tenere" regioni dove non prevale l'elemento russo. Con ogni probabilità non ripeterà lo stesso errore.
La Monaco che vide le controproducenti concessioni delle democrazie occidentali a Hitler è lontana non solo temporalmente, ma soprattutto concettualmente. Sembrano invece cogliere nel segno gli analisti che vedono il rischio di una nuova Monaco nel più lontano Oriente. Così Chase Carter su The National Interest del 2 aprile 2014:

"After all, there is real Munich moment on the horizon, much further to the East".




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