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venerdì 3 gennaio 2014

Mazzini e il fascismo italiano. Una contiguità da esplorare.



Bertrand Russell, nato nel 1872 e morto nel 1970, pur avendo esercitato una profonda influenza sulla filosofia del Ventesimo secolo, per educazione e formazione intellettuale è da considerare un uomo del secolo precedente. Conosceva a fondo le idee del Diciannovesimo secolo. Ne diede conto in una delle sue migliori opere divulgative: Freedom and Organization (1934), in italiano Storia delle idee del secolo XIXRussell, che soggiornò in Italia e sapeva l'italiano, qui delineò il pensiero di Giuseppe Mazzini, uno dei padri del Risorgimento italiano:

""La nazionalità" diceva "è per me santa, perchè io vedo in essa  lo strumento del lavoro per il bene di tutti, pel progresso di tutti".
"Dio ha scritto una linea del suo pensiero al di sopra d'ogni culla di Popolo...interessi speciali, attitudini speciali, e, soprattutto, speciali funzioni, una speciale missione da compiere, uno speciale lavoro da fare, per la causa del progresso dell'umanità, sembrano a me le vere caratteristiche della nazionalità".
Una nazione era per lui non un puro aggregato di individui, ma una entità mistica con un'anima sua.
"...il semplice voto di una maggioranza non costituisce sovranità, se avversi evidentemente le norme morali supreme... la volontà del popolo è santa, quando interpreta e applica la legge morale...". Queste dottrine sono state accolte e attuate da Mussolini." (op. cit., 1968, pp. 513, 514 e 517)
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Russell intuì la contiguità tra la visione di Mazzini ed il fascismo italiano. Significativi in questo senso gli scritti autobiografici di due dei principali esponenti del movimento fascista e  del regime mussoliniano: Giuseppe Bottai, padre della dottrina corporativa, ministro delle corporazioni e dell'educazione nazionale, e Dino Grandi, ministro degli esteri e della giustizia, ambasciatore a Londra.

Giuseppe Bottai:

"In casa mia si parlava spesso di repubblica, di Mazzini..." (Diario 1935 -1944, 1994, p. 38).

Dino Grandi:

"Mio padre si proclamava monarchico, ma adorava Mazzini... Credo di essere... uno dei pochi italiani della mia generazione che abbia letto, o per lo meno sfogliato, per intero i moltissimi volumi delle opere di Mazzini" (Il mio paese. Ricordi autobiografici, 1985, p. 21).

"Da principio ho venerato Mazzini, ma poi, a 30 anni, mi sono innamorato di Cavour e ciò per tutta la vita" (25 luglio. Quarant'anni dopo, a cura di Renzo DE FELICE, 1984, p. 141).

I due più lucidi, colti e intelligenti gerarchi fascisti ricordano la loro formazione mazziniana. Per Grandi arriva presto il consapevole passaggio ad un sostanziale, a lungo clandestino, liberalismo. Esso è segnato appunto dall'innamoramento per Cavour e dalla fine della venerazione di Mazzini.
Con la caduta del regime mussoliniano Mazzini non solo resta tra i padri della patria ma viene collocato tra quelli della nuova democrazia. Una democrazia purtroppo senza influenti e genuini padri liberali.

venerdì 27 dicembre 2013

India. Amore, tradizione e modernità.




In un articolo su Foreign Affairs, L'amore ai tempi di Bollywood, Ira Trivedi dà conto della faticosa rivoluzione dei costumi che segna l'India. Sempre più giovani rifiutano i matrimoni combinati dalle famiglie e vivono, più o meno clandestinamente, relazioni guidate dai sentimenti e aperte alla sessualità. Ma la tradizione e le difficoltà economiche frappongono pesanti ostacoli. I suicidi tra i giovani sono numerosi e i delitti d'onore molto diffusi.
Trivedi individua analogie con l'evoluzione dei costumi negli Stati Uniti d'America degli ultimi due secoli: dal matrimonio d'amore alla libertà sessuale. Sembra con questo suggerire una spiegazione imperniata sulla successione di fasi della modernizzazione, applicabile non solo alle società occidentali. In realtà non tutte le religioni sono uguali, così come diverse sono le tradizioni in ambito familiare e sessuale. 
Sulle religioni cristiana e islamica disponiamo di fonti documentali significative. Il  professor Bernard Lewis, uno dei più autorevoli studiosi dell'Islam e del Medio Oriente del Novecento, nel suo I musulmani alla scoperta dell'Europa ha raccolto le testimonianze di musulmani che hanno visitato l'Europa cristiana dal nono al diciannovesimo secolo. Scrive il grande islamista britannico:

"Dall'esame dei libri di viaggio tramandatici, possiamo asserire che, fino al XIX secolo, i visitatori musulmani in Europa furono tutti, senza eccezione, uomini. Tuttavia, la maggior parte di essi esprime qualche osservazione sul tema della donna e del suo ruolo nella società...: l'istituzione cristiana del matrimonio monogamico, l'assenza di norme sociali che limitino in modo sostanziale la libertà della donna e la considerazione in cui sono tenute anche dalle persone di elevato rango destano immancabilmente meraviglia, sebbene mai ammirazione, nei visitatori provenienti dalle terre islamiche".

"Un fatto che non poteva lasciare indifferenti gli osservatori musulmani sia dell'età medievale che dell'età moderna era, per esprimerci con i loro termini, la licenziosa libertà delle donne e la straordinaria mancanza di virile gelosia negli uomini"

"C'era un connotato della società cristiana che puntualmente sconcertava gli stranieri musulmani: il rispetto con cui venivano trattate le donne in pubblico. Evliya osserva:
In quel paese vidi una cosa straordinaria. Se l'imperatore incontra una donna per strada ed è a cavallo, si ferma e cede il passo alla donna. Se, invece, egli è a piedi e incontra una donna, si ferma in atteggiamento cortese. Poi la donna saluta l'imperatore ed egli si leva il cappello e si rivolge alla donna con deferenza e riprende il cammino solo dopo che ella sia passata. E' uno spettacolo straordinario.
In questo paese, come pure in altre terre degli infedeli, l'ultima parola spetta alle donne, che vengono onorate e riverite per amore di Madre Maria" (op. cit., 2004, p. 351 e segg.).

Emergono chiare le differenti premesse che in Occidente consentiranno il passaggio tutto sommato agevole alla attuale libertà familiare e sessuale.

venerdì 20 dicembre 2013

Energia shale USA. Il caso e la necessità.




In due recenti articoli su Il Sole 24 ORE (11 e 12 dicembre 2013) Leonardo Maugeri ritorna sulle  vicende e sulle prospettive dell' energia shale statunitense. 
Scrive Maugeri:

"In realtà, la rinascita degli idrocarburi a stelle e strisce si è compiuta per caso, senza un piano e nella disattenzione dei più, e ancora oggi non ha prodotto uno straccio di strategia per gestirla al meglio".

 "Tutto continua a essere affidato al caso, cioè alla determinazione dei singoli, mentre le autorità pubbliche non riescono a risolvere nemmeno i tanti problemi infrastrutturali che hanno accompagnato la rinascita energetica degli Usa. Il paese sembra una comunità di stati indipendenti, ciascuno segnato da differenti  approcci ambientali che disegnano un panorama a macchia di leopardo ricco di incongruenze. Un po' come l'Europa".

"...la più grande potenza del mondo sembri incapace di godere in modo uniforme o di sfruttare appieno la rivoluzione energetica che sta vivendo o di utilizzarla in chiave di politica internazionale...".

"Tutti i produttori di gas americani vorrebbero esportare quanto più gas possibile per trarre vantaggio dai prezzi molti più alti del metano vigenti sui mercati internazionali; peraltro, i prezzi statunitensi attuali, in molti casi, non coprono i costi di molte produzioni, riducendo il potenziale di sviluppo del metano. Ma qui entra in gioco una lobby trasversale e potente - costituita dall'industria a alta intensità energetica e dalla stessa popolazione. Questa lobby si oppone a una politica spinta di esportazioni che farebbe aumentare i prezzi interni diminuendo i vantaggi di cui gode oggi l'America".

Maugeri delinea una situazione tutto sommato sorprendente. La rivoluzione costituita dal rapido incremento della produzione di shale gas/oil si sviluppa in modo inefficiente. Potrebbe rivelarsi uno stimolo alla crescita inferiore alle aspettative.
Occorrono nuove adeguate infrastrutture. Bisogna riscrivere norme e ridisegnare un assetto federale nei termini attuali difficilmente sostenibile. E' necessario trovare un diverso punto di equilibrio tra doverosa tutela ambientale ed esigenze della produzione. Certo un "vasto programma", ma diretto a fronteggiare problemi fondamentali.
Cosa ha fatto l'Amministrazione Obama per determinare una positiva svolta in questo settore vitale per il paese? Qui si pongono le premesse di una crescita che si estenda alla manifattura. Può darsi che tra qualche anno, valutando queste vicende, si possa concludere che gli Stati Uniti sono cresciuti nonostante Obama e la sua politica economica. Ma con le misure opportune diventerebbero conseguibili anche obiettivi ambiziosi.

venerdì 13 dicembre 2013

Crisi. Cosa teme la Germania.




 Jens Weidmann è il presidente della Bundesbank. Su Il Sole 24 Ore dell' 8 dicembre 2013 Alessandro Merli cita i più  importanti passaggi della sua intervista concessa al quotidiano:

"L'Italia ha avviato alcune riforme importanti. In base alla nostra stima, l'economia uscirà dalla recessione entro fine anno. Sono fiducioso che con le giuste misure addizionali, in particolare per riformare il settore pubblico, compreso il sistema giudiziario, migliorare la flessibilità del mercato del lavoro e aumentare la concorrenza nel mercato dei prodotti, l'Italia può superare l'attuale crisi e raggiungere un percorso di crescita sostenibile".

 "...le sfide future per la Germania. Ci sono quattro importanti aree da affrontare. Primo, la Germania deve vedersela con una demografia sfavorevole, che si farà sempre più sentire nei prossimi anni. Secondo, a causa della globalizzazione, anche per prodotti ad alta tecnologia, le imprese saranno sotto crescente pressione da concorrenti dei mercati emergenti. Terzo, la politica fiscale dovrà ridurre l'alto debito pubblico. Quarto, deve cambiare completamente la politica energetica. Questa inversione a U sull'energia avrà un impatto profondo sulla competitività dell'industria e il potere d'acquisto delle famiglie". 

Weidmann, con considerazioni largamente condivise dai governanti tedeschi, delinea le principali insidie che non solo il suo, ma tutti i paesi dell'Unione Europea devono fronteggiare. La tendenza demografica, segnata dal calo delle nascite e dall'aumento della vita media, rende difficilmente sostenibile il welfare europeo nella sua attuale configurazione. Anche la manifattura di qualità, ad alto valore aggiunto, subisce sempre più la pressione delle economie emergenti. Il costo dell'energia nell'Unione Europea e soprattutto in Italia è ormai così alto da scoraggiare gli investimenti e i consumi. Il peso eccessivo del debito pubblico e della pressione fiscale soffoca, o può soffocare, le economie europee.
Dalle parole del presidente della Bundesbank emerge ancora una volta un tratto pressochè peculiare della classe dirigente tedesca: la precisa, lucida consapevolezza della portata della globalizzazione, delle cause della crisi e delle misure auspicabili. Senza tale consapevolezza l'uscita dalle attuali difficoltà è impossibile.
L'assoluta inadeguatezza del dibattito pubblico italiano non lascia ben sperare. Gli spacciatori di illusioni prevalgono, anche fra i politici sedicenti liberali. Non mancano perfino tra gli imprenditori in cerca di scorciatoie. Ma ci sono voci fuori del coro. Recentemente Lorenzo Bini Smaghi ha mostrato che la cosiddetta austerità è sì un ostacolo alla crescita, ma è stata  resa inevitabile dall'assenza di adeguate riforme strutturali. Queste devono diventare l'obiettivo di chi, a ragione, pensa che populismo e demagogia danneggino particolarmente i più colpiti dalla crisi.

venerdì 6 dicembre 2013

Brasile. Il populismo non giova a chi resta indietro.




Mario Giro, membro della Comunità di Sant' Egidio,  è sottosegretario al Ministero degli Affari esteri. Su Il Sole 24 ORE del 5 dicembre 2013 ha commentato la situazione e le prospettive del Brasile:

"...venti anni di politiche macroeconomiche coerenti hanno prodotto un decennio di crescita, assieme a un nuovo welfare inclusivo. Oggi il Brasile è uno dei protagonisti mondiali: la sesta potenza geopolitica globale". 

 "Tutto ciò ha permesso l'uscita dalla povertà in dieci anni di circa 40 milioni di brasiliani. Tale nuova fascia sociale non coincide con la tradizionale classe media e ha un'identità ancora non definita. Sono persone appena uscite dalla povertà per le quali il soddisfacimento dei bisogni essenziali ha cessato di essere una priorità, ma che per quasi il 70% vive ancora nelle favelas e che si è indebitata comprando a rate. Economicamente ancora vulnerabile, questo nuovo gruppo rivendica condizioni e servizi sociali migliori e chiede politiche pubbliche che ne favoriscano il consolidamento".

"L' "inverno brasiliano delle proteste" richiede dunque un nuovo contratto sociale. Ma chi dovrebbe rinegoziarlo sono istituzioni vecchie. Alla crescita di questi anni non si è infatti ancora accompagnata la riforma delle riforme: quella dello Stato. Il cantiere dello stato-nazione è indietro".

Il futuro del Brasile non è senza insidie. Nuova potenza economica emersa grazie alla globalizzazione, deve proseguire sulla via dell' inclusione sociale  e della liberazione dalla povertà non riducendo ma incrementando i vantaggi competitivi.
Il welfare europeo, ampio e costoso, non può essere riprodotto senza rendere insostenibile la pressione fiscale, attualmente  al 30% PIL contro il 45 - 50% PIL di molti paesi dell' Unione Europea. Occorre dare allo stato sociale un assetto produttivistico, secondo i principi di sussidiarietà e responsabilità, lasciando largo spazio alle assicurazioni private.
Ciò risulta accettabile soltanto se accompagnato da una risoluta lotta al capitalismo clientelare, alla corruzione, ai privilegi odiosi. E' insomma necessario uno sforzo largamente condiviso diretto ad abbandonare da un lato le tendenze populiste, dall' altro manifestazioni di avidità, rapacità e cinismo che una classe dirigente lungimirante deve combattere con fermezza.  Una stretta strada che porta a una economia competitiva, a una società inclusiva, all' alleanza del merito con il bisogno.
Decisivo pare l' atteggiamento degli intellettuali. Mario Vargas Llosa ha recentemente dichiarato:

 «L’Europa ha accantonato le proprie idee per applicare ricette sudamericane. Populismo, corruzione, sprechi, vivere al di sopra delle proprie possibilità, cinismo nei confronti della politica, sono caratteristiche del sottosviluppo, eppure hanno avuto il sopravvento in molti Paesi europei. Non tutti, per fortuna. Quelli virtuosi, come la Germania, non hanno sofferto la crisi».
 «Credo sia un problema culturale. Spendere più di ciò che si guadagna è un’irresponsabilità figlia del populismo, che, a sua volta, significa sacrificare il futuro per il presente. Invece di cercare la causa nel mondo esterno, l’Europa farebbe bene a capire come ha incubato il male che ora la strangola".

Questa consapevolezza deve essere proposta a un grande paese che merita un grande futuro.

venerdì 29 novembre 2013

Austerità. Così si può evitare.




Lorenzo Bini Smaghi è stato membro del comitato esecutivo della Banca centrale europea dal giugno 2005 al 10 novembre 2011. E' autore di Morire di austerità (2013).  Alcuni passaggi fondamentali del libro sono riassunti in un suo lucido articolo su lavoce.info (5 novembre 2013).
Scrive Bini Smaghi:

"Non è l’austerità che ha causato la bassa crescita, è la bassa crescita che ha causato l’austerità. In altri termini, i paesi che hanno sperimentato una bassa crescita potenziale, a causa di profondi problemi strutturali, nel tentativo di sostenere il loro standard di vita e il loro sistema di welfare hanno accumulato, prima della crisi, un eccesso di debito pubblico e privato, che poi, quando la crisi è scoppiata, si è rivelato insostenibile e ha richiesto un brusco aggiustamento.
L’austerità ha certamente prodotto una bassa crescita, ma essa stessa può essere il risultato di una crescita scarsa e squilibrata, a causa della mancanza di riforme strutturali. Il rinvio di riforme che migliorassero il potenziale di crescita ha lasciato i paesi con un’unica soluzione, l’austerità. L’austerità è così il risultato dell’incapacità dei politici di prendere decisioni nel momento giusto, in altre parole è il risultato della loro miopia – e della stupidità.
La via di uscita dall’austerità non passa allora dalla riduzione delle misure di austerità, ma da profonde riforme strutturali che aumentino il potenziale di crescita e creino spazi di manovra per un aggiustamento fiscale più graduale".

Le condivisibili considerazioni di Bini Smaghi inducono a riflettere sulle cattive prestazioni di molte democrazie occidentali. I governanti non hanno adottato tempestivamente le misure necessarie, riforme strutturali della pubblica amministrazione, della scuola, del welfare, delle relazioni industriali, della legislazione del lavoro e del fisco capaci di ripristinare le condizioni della crescita economica.
Probabilmente  sono mancati leader adeguati al compito. Ma gravi responsabilità hanno anche gli elettori, che non hanno saputo ben giudicare. Istituzioni ed economia libere hanno bisogno di uomini e donne  responsabili, educati alla libertà e alla complessità, capaci di perseguire i propri obiettivi con lungimiranza. Ogni nuova generazione parte da zero. Chiede alle agenzie educative gli strumenti morali e culturali per esercitare responsabilmente la libertà e fronteggiare efficacemente problemi complessi.
 La preoccupazione educativa non è affatto estranea al grande pensiero liberale. Tocqueville, Roepke, Popper hanno più volte sottolineato l'importanza dell'educazione. Questi autorevoli richiami conservano oggi piena corrispondenza alle esigenze dell'Occidente in declino.

venerdì 22 novembre 2013

John F. Kennedy. L'assassinio, il complotto e lo stato profondo.




Su The National Interest del 21 novembre 2013   Andranik Migranyan propone un attento riesame della morte del presidente degli Stati Uniti John F. Kennedy, a cinquanta anni dal suo assassinio.  Richiamando le tesi del giornalista del New York Times  Philip Shenon non esclude la responsabilità di Fidel Castro, mentre non ritiene plausibile la pista sovietica. Sottolinea soprattutto l'occultamento delle prove compiuto dalle agenzie di intelligence americane. Si tratta, in sostanza,  di una ricostruzione già autorevolmente divulgata.  Il professor Christopher Andrew, uno dei massimi storici dell'intelligence del Ventesimo secolo, l'ha così delineata:

"Proprio il giorno dell'assassinio di Kennedy, la CIA aveva fornito a un agente un'arma omicida da usare contro Castro".
"Anche J. Edgar Hoover si era tenuto per sé informazioni importanti.  Aveva scoperto con orrore che il nome di Oswald non era stato incluso nell'archivio dell'FBI sui cittadini potenzialmente sleali, nonostante egli avesse scritto una lettera minatoria dopo il suo ritorno dalla Russia e in seguito avesse fissato un appuntamento per incontrare un ufficiale del KGB a Città del Messico. Dopo aver letto una relazione sulle "lacune investigative nel caso Oswald", Hoover concluse che se la relazione fosse stata resa pubblica avrebbe distrutto la reputazione dell'FBI". (Christopher ANDREW con Vasilij MITROKHIN, L'Archivio Mitrokhin, 1999, p. 293).

Come ben rileva Migranyan, anche durante la presidenza Kennedy esisteva un "deep state", una formazione non visibile e non responsabile costituita da agenzie governative o parti di esse. Si tratta di una presenza che non deve sorprendere. Una deriva siffatta è in qualche misura connaturale ad organizzazioni chiamate ad operare nel segreto o comunque  con riservatezza. E' però indispensabile ricondurle nell'alveo dello stato di diritto e delle istituzioni democratiche.
Gli ordinamenti liberaldemocratici occidentali tradizionalmente a tal fine apprestano commissioni parlamentari di controllo e attribuiscono compiti di direzione ai governi gravati della responsabilità politica. Ma occorre un approccio equilibrato e realista. L'intelligence è uno strumento a cui anche le democrazie non possono rinunciare. Resterebbero altrimenti disarmate di fronte a nemici implacabili. La ricetta è sempre la stessa: buone istituzioni, buoni difensori. Gli strumenti istituzionali di controllo devono essere migliorati e resi più efficaci. I compiti più delicati devono essere affidati a uomini e donne capaci, che conservino amore per il loro paese e per la libertà.

sabato 16 novembre 2013

Assicurazione pubblica. Un elefante fuori controllo.




Ludger Schuknecht é il direttore generale della sezione “Politica Fiscale Generale e Politica Finanziaria e Monetaria Internazionale” del Ministero delle Finanze tedesco. Si deve a lui una brillante analisi della struttura, della portata e della sostenibilità del welfare che contraddistingue ormai quasi tutte le democrazie occidentali, oggi facilmente  reperibile per iniziativa dell' Istituto Bruno Leoni.
Scrive Schuknecht:

" Pochi osservatori hanno riconosciuto che l’impegno per la sicurezza sociale, la stabilizzazione della domanda e i nuovi tipi di assicurazione pubblica è stato superiore a quanto il governo fosse in grado di sostenere, mettendo così in pericolo la stabilità fiscale e monetaria a livello nazionale e globale (Rother et al., 2010). Pochi, forse nessuno, hanno saputo vedere nel ruolo dell’assicurazione pubblica la radice dell’attuale crisi fiscale e sovrana".
"Oggi, nella maggior parte delle economie avanzate, le assicurazioni sociali assorbono circa il 60% della spesa pubblica".

"Con l’imporsi di politiche keynesiane, l’assicurazione pubblica è stata estesa per “stabilizzare” la domanda aggregata. In base a questo concetto, recentemente applicato anche oltre i confini nazionali, i Paesi con “carenze di domanda” adottano misure di stimolo coordinate per sostenere la domanda, non solo in patria ma anche all’estero".

"Il ruolo crescente dell’assicurazione pubblica è strettamente legato all’enorme espansione dello Stato nell’ultimo secolo e mezzo: la spesa pubblica è aumentata di almeno quattro volte, superando il 40%, o addirittura il 50%, del PIL nei Paesi più industrializzati".

"Negli ultimi anni, solo pochi Paesi possono ancora vantare rapporti di spesa pubblica prossimi alle medie degli Stati avanzati del 1960. Solamente Svizzera, Australia e Nuova Zelanda hanno mantenuto un’incidenza della spesa pubblica pari a circa il 35% del PIL. E anche la spesa di questi governi è significativamente superiore a quella dei concorrenti asiatici, come la Corea o Singapore. In queste nazioni fiorenti, la spesa pubblica è pari a solo a un quinto o un quarto della produzione economica".
"...le dinamiche economie dell’Asia presentano settori pubblici che sono in genere molto più piccoli rispetto ai Paesi avanzati: la differenza principale è rappresentata dall’inferiore spesa per l’assicurazione sociale".

Si tratta di una coraggiosa e condivisibile analisi, che davvero mette il dito sulla piaga. Anche in Italia ben più della metà della spesa pubblica è costituita dalla spesa sociale. E' del tutto illusoria ogni ipotesi di diminuzione della pressione fiscale che non abbia come necessaria premessa la ristrutturazione di tale spesa sociale. Una incisiva sua riforma secondo il principio di sussidiarietà determinerebbe anche un netto aumento della produttività e della qualità dei servizi.
Politici e protagonisti dei media devono presentare con chiarezza questa situazione agli elettori, accompagnando l' amaro calice con una evidente rinuncia a insopportabili privilegi, nella consapevolezza che questa rappresenta l' ultima possibilità di riabilitazione.

sabato 9 novembre 2013

Russia. La Mezzaluna sul Cremlino?



Il rapporto tra Russia e Islam è da sempre conflittuale. La monarchia ortodossa ha realizzato la propria espansione imperiale verso Oriente e oltre il Caucaso in larga misura a spese di potentati islamici. Il regime sovietico ha "conculcato la religione islamica nell'Asia centrale e nelle repubbliche transcaucasiche, dove solo duecento moschee erano autorizzate a soddisfare le esigenze religiose di 50 milioni di musulmani" (Bernard LEWIS, La crisi dell' Islam, 2004, p. 85).
Tuttavia l'Islam fondamentalista contemporaneo individua negli Stati Uniti d'America e nelle democrazie occidentali il Grande Satana. La Società aperta occidentale è disprezzata e odiata. Ciò ha determinato l'uso di due pesi e due misure nel giudizio sulle vicende che hanno segnato il Novecento. Nulla è stato perdonato agli USA e ai loro alleati. Neppure dall'invasione sovietica dell'Afghanistan è seguita una diversa valutazione fondamentale. Dopo il collasso e lo scioglimento dell'Unione Sovietica le guerre in Cecenia e gli attentati di matrice islamica hanno impresso una svolta alle relazioni tra Russia e Islam. Ma un altro fattore acquista sempre maggiore rilevanza: migrazione e diverso tasso di natalità tendono a modificare significativamente il rapporto tra islamici e resto della popolazione. Sul sito DanielPipes.org  l'analista statunitense espone una situazione che deve allarmare non solo il governo russo. Scrive Pipes:

"L'omicidio avvenuto il 10 ottobre scorso di Yegor Shcherbakov, un giovane russo di 25 anni, a quanto pare accoltellato da un musulmano azero, ha causato a Mosca una serie di disordini anti-immigrati, atti di vandalismo e aggressioni, ha condotto all'arresto di 1200 persone e ha portato alla ribalta forti tensioni nella vita russa.
Non solo in Russia si registra la presenza di 21-23 milioni di musulmani, che costituiscono il 15 per cento della popolazione totale che ammonta a 144 milioni di persone, ma la loro percentuale è in rapida crescita. I russi afflitti dalla piaga dell'alcolismo hanno tassi di natalità pari a quelli europei (con 1,4 figli per ogni donna) e tassi di mortalità che eguagliano quelli dei Paesi africani (l'aspettativa di vita per gli uomini ha raggiunto una media di 60 anni). A Mosca, le donne cristiane hanno in media 1,1 figli.
Al contrario, le donne musulmane hanno in media 2,3 figli e tra di esse si registra un minor numero di aborti rispetto alle loro omologhe russe. A Mosca, le donne tartare hanno in media 6 figli mentre quelle cecene e ingusce ne hanno 10. Inoltre, circa 3-4 milioni di musulmani si sono trasferiti in Russia provenienti dalle ex repubbliche sovietiche, soprattutto dall'Azerbaijan e dal Kazakistan, e qualche russo si è convertito all'Islam".

"Nel giro di pochi anni, i musulmani costituiranno la metà dei coscritti nell'esercito russo. Joseph A. D'Agostino del Population Research Institute chiede: "Un esercito del genere sarà in grado di operare in modo efficace, considerata la rabbia che molti musulmani presenti nel Paese provano verso le tattiche utilizzate dall'esercito russo nella regione musulmana della Cecenia? E se le altre regioni musulmane della Russia – alcune delle quali contengono enormi riserve petrolifere – si ribellassero a Mosca? I soldati musulmani combatteranno e uccideranno per continuare a tenerle unite alla madrepatria russa?"".

"Ma come fa notare Ilan Berman dell'American Foreign Policy Council, "il Cremlino ha discriminato la sua minoranza musulmana e ha ignorato (e perfino spalleggiato) l'affermazione della xenofobia corrosiva fra i suoi cittadini. Tutto questo ha causato risentimento e isolamento fra i musulmani residenti in Russia – sentimenti che i gruppi islamici radicali sono fin troppo impazienti di sfruttare". E se aggiunto ai già esistenti atteggiamenti islamici suprematisti, ciò avrà per risultato una minoranza musulmana sempre più insofferente.
I dibattiti sull'Islam in Europa tendono a concentrarsi su luoghi come la Gran Bretagna e la Svezia, ma la Russia, il Paese con la più grande comunità musulmana in termini relativi e assoluti, è soprattutto il luogo verso cui puntare l'attenzione. Agli episodi di violenza anti-immigrati di questa settimana sicuramente faranno seguito problemi ben peggiori".

Sulla Russia incombe una vera e propria bomba demografica e culturale. Una eventuale deflagrazione sarebbe devastante non solo entro i confini dell'Impero.

sabato 2 novembre 2013

Economia reale USA. Il vero stimolo è l'energia a buon mercato.





 Su La Stampa del 1 novembre 2013 Francesco Rigatelli dà conto di importanti dichiarazioni del presidente dell'ENI Giuseppe Recchi sul nuovo assetto energetico USA e sulle prospettive europee:

"Il cruccio dell’America, per il presidente Eni, è riuscire a restare leader in un mondo non più bipolare. La soluzione principale è avere energia a costo basso". 

"«Ora mettendo in pista una tecnologia non nuova ma di cui fino a cinque anni fa non si parlava neppure rivoluziona gli equilibri energetici. E’ successo per l’alzarsi del prezzo degli idrocarburi, che rende conveniente estrarli col fracking. Tradizionalmente si pompano da pozzi profondi anche 3 mila metri. Col fracking si scende mille metri e poi si procede orizzontalmente iniettando acqua e poi isolando petrolio e gas. Una tecnica molto fruttuosa»".

"Recchi torna al basso prezzo dell’energia da fonte interna americana, «tanto che il gas costa tre volte meno dell’Europa, l’elettricità due. Dunque fare industria conviene più di pochi anni fa e molte imprese delocalizzate tornano in America. Più è pesante la produzione, manifattura ad alta intensità di energia come nel settore della plastica o degli elettrodomestici, più ne beneficiano. E sono posti di lavoro»".

"«L’impatto sull’ambiente? L’acqua che si infiltra col fracking ha degli additivi dunque si pensa inquini le falde acquifere, ma in realtà è un’idea superficiale. Basta trivellare lontano. E non è che negli Stati Uniti siano meno rispettosi dell’ambiente di qui. Ad oggi non ci sono casi di inquinamento. E intanto l’America da nazione in declino è tornata al vertice»".

Grazie al rapido incremento della produzione di shale gas/oil nel « 2015 gli Stati Uniti saranno il primo produttore di gas al mondo, superando la Russia. E nel 2020 otterranno lo stesso risultato con il petrolio, battendo l’Arabia saudita» (Recchi). Un determinante fattore di competitività, tanto più importante quanto più gli Stati Uniti sapranno migliorare gli altri (pressione fiscale, qualità della scuola, efficienza della pubblica amministrazione, infrastrutture).
Non si dimentichi che, sia pure in un contesto molto diverso, l'energia a basso costo e le esportazioni energetiche altre volte non sono riuscite a compensare il deficit di produttività e competitività, non impedendo una fatale crisi strutturale del sistema. Ciò è avvenuto nella vecchia Unione Sovietica, ma anche la Russia di oggi non raggiunge una sufficiente competitività.
Gli Stati Uniti hanno un patrimonio culturale e istituzionale tale da far ritenere probabile un buon uso delle nuove risorse. Senza però escludere serie difficoltà, che potrebbero arrivare da una classe politica sempre più incline alla demagogia e dalla caduta dell'etica del lavoro e della responsabilità, un tempo punto di forza della società statunitense.
E l'Europa? Cultura diffusa e ordinamenti rendono difficilmente replicabile la rivoluzione energetica USA. Un peso in più sulle spalle di economie già arrancanti. Ma la cautela in paesi che ospitano monumenti, città d'arte e territori di bellezza incomparabile se non giustificata è almeno comprensibile. Belli ma poveri? 


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