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venerdì 6 dicembre 2013

Brasile. Il populismo non giova a chi resta indietro.




Mario Giro, membro della Comunità di Sant' Egidio,  è sottosegretario al Ministero degli Affari esteri. Su Il Sole 24 ORE del 5 dicembre 2013 ha commentato la situazione e le prospettive del Brasile:

"...venti anni di politiche macroeconomiche coerenti hanno prodotto un decennio di crescita, assieme a un nuovo welfare inclusivo. Oggi il Brasile è uno dei protagonisti mondiali: la sesta potenza geopolitica globale". 

 "Tutto ciò ha permesso l'uscita dalla povertà in dieci anni di circa 40 milioni di brasiliani. Tale nuova fascia sociale non coincide con la tradizionale classe media e ha un'identità ancora non definita. Sono persone appena uscite dalla povertà per le quali il soddisfacimento dei bisogni essenziali ha cessato di essere una priorità, ma che per quasi il 70% vive ancora nelle favelas e che si è indebitata comprando a rate. Economicamente ancora vulnerabile, questo nuovo gruppo rivendica condizioni e servizi sociali migliori e chiede politiche pubbliche che ne favoriscano il consolidamento".

"L' "inverno brasiliano delle proteste" richiede dunque un nuovo contratto sociale. Ma chi dovrebbe rinegoziarlo sono istituzioni vecchie. Alla crescita di questi anni non si è infatti ancora accompagnata la riforma delle riforme: quella dello Stato. Il cantiere dello stato-nazione è indietro".

Il futuro del Brasile non è senza insidie. Nuova potenza economica emersa grazie alla globalizzazione, deve proseguire sulla via dell' inclusione sociale  e della liberazione dalla povertà non riducendo ma incrementando i vantaggi competitivi.
Il welfare europeo, ampio e costoso, non può essere riprodotto senza rendere insostenibile la pressione fiscale, attualmente  al 30% PIL contro il 45 - 50% PIL di molti paesi dell' Unione Europea. Occorre dare allo stato sociale un assetto produttivistico, secondo i principi di sussidiarietà e responsabilità, lasciando largo spazio alle assicurazioni private.
Ciò risulta accettabile soltanto se accompagnato da una risoluta lotta al capitalismo clientelare, alla corruzione, ai privilegi odiosi. E' insomma necessario uno sforzo largamente condiviso diretto ad abbandonare da un lato le tendenze populiste, dall' altro manifestazioni di avidità, rapacità e cinismo che una classe dirigente lungimirante deve combattere con fermezza.  Una stretta strada che porta a una economia competitiva, a una società inclusiva, all' alleanza del merito con il bisogno.
Decisivo pare l' atteggiamento degli intellettuali. Mario Vargas Llosa ha recentemente dichiarato:

 «L’Europa ha accantonato le proprie idee per applicare ricette sudamericane. Populismo, corruzione, sprechi, vivere al di sopra delle proprie possibilità, cinismo nei confronti della politica, sono caratteristiche del sottosviluppo, eppure hanno avuto il sopravvento in molti Paesi europei. Non tutti, per fortuna. Quelli virtuosi, come la Germania, non hanno sofferto la crisi».
 «Credo sia un problema culturale. Spendere più di ciò che si guadagna è un’irresponsabilità figlia del populismo, che, a sua volta, significa sacrificare il futuro per il presente. Invece di cercare la causa nel mondo esterno, l’Europa farebbe bene a capire come ha incubato il male che ora la strangola".

Questa consapevolezza deve essere proposta a un grande paese che merita un grande futuro.

venerdì 29 novembre 2013

Austerità. Così si può evitare.




Lorenzo Bini Smaghi è stato membro del comitato esecutivo della Banca centrale europea dal giugno 2005 al 10 novembre 2011. E' autore di Morire di austerità (2013).  Alcuni passaggi fondamentali del libro sono riassunti in un suo lucido articolo su lavoce.info (5 novembre 2013).
Scrive Bini Smaghi:

"Non è l’austerità che ha causato la bassa crescita, è la bassa crescita che ha causato l’austerità. In altri termini, i paesi che hanno sperimentato una bassa crescita potenziale, a causa di profondi problemi strutturali, nel tentativo di sostenere il loro standard di vita e il loro sistema di welfare hanno accumulato, prima della crisi, un eccesso di debito pubblico e privato, che poi, quando la crisi è scoppiata, si è rivelato insostenibile e ha richiesto un brusco aggiustamento.
L’austerità ha certamente prodotto una bassa crescita, ma essa stessa può essere il risultato di una crescita scarsa e squilibrata, a causa della mancanza di riforme strutturali. Il rinvio di riforme che migliorassero il potenziale di crescita ha lasciato i paesi con un’unica soluzione, l’austerità. L’austerità è così il risultato dell’incapacità dei politici di prendere decisioni nel momento giusto, in altre parole è il risultato della loro miopia – e della stupidità.
La via di uscita dall’austerità non passa allora dalla riduzione delle misure di austerità, ma da profonde riforme strutturali che aumentino il potenziale di crescita e creino spazi di manovra per un aggiustamento fiscale più graduale".

Le condivisibili considerazioni di Bini Smaghi inducono a riflettere sulle cattive prestazioni di molte democrazie occidentali. I governanti non hanno adottato tempestivamente le misure necessarie, riforme strutturali della pubblica amministrazione, della scuola, del welfare, delle relazioni industriali, della legislazione del lavoro e del fisco capaci di ripristinare le condizioni della crescita economica.
Probabilmente  sono mancati leader adeguati al compito. Ma gravi responsabilità hanno anche gli elettori, che non hanno saputo ben giudicare. Istituzioni ed economia libere hanno bisogno di uomini e donne  responsabili, educati alla libertà e alla complessità, capaci di perseguire i propri obiettivi con lungimiranza. Ogni nuova generazione parte da zero. Chiede alle agenzie educative gli strumenti morali e culturali per esercitare responsabilmente la libertà e fronteggiare efficacemente problemi complessi.
 La preoccupazione educativa non è affatto estranea al grande pensiero liberale. Tocqueville, Roepke, Popper hanno più volte sottolineato l'importanza dell'educazione. Questi autorevoli richiami conservano oggi piena corrispondenza alle esigenze dell'Occidente in declino.

venerdì 22 novembre 2013

John F. Kennedy. L'assassinio, il complotto e lo stato profondo.




Su The National Interest del 21 novembre 2013   Andranik Migranyan propone un attento riesame della morte del presidente degli Stati Uniti John F. Kennedy, a cinquanta anni dal suo assassinio.  Richiamando le tesi del giornalista del New York Times  Philip Shenon non esclude la responsabilità di Fidel Castro, mentre non ritiene plausibile la pista sovietica. Sottolinea soprattutto l'occultamento delle prove compiuto dalle agenzie di intelligence americane. Si tratta, in sostanza,  di una ricostruzione già autorevolmente divulgata.  Il professor Christopher Andrew, uno dei massimi storici dell'intelligence del Ventesimo secolo, l'ha così delineata:

"Proprio il giorno dell'assassinio di Kennedy, la CIA aveva fornito a un agente un'arma omicida da usare contro Castro".
"Anche J. Edgar Hoover si era tenuto per sé informazioni importanti.  Aveva scoperto con orrore che il nome di Oswald non era stato incluso nell'archivio dell'FBI sui cittadini potenzialmente sleali, nonostante egli avesse scritto una lettera minatoria dopo il suo ritorno dalla Russia e in seguito avesse fissato un appuntamento per incontrare un ufficiale del KGB a Città del Messico. Dopo aver letto una relazione sulle "lacune investigative nel caso Oswald", Hoover concluse che se la relazione fosse stata resa pubblica avrebbe distrutto la reputazione dell'FBI". (Christopher ANDREW con Vasilij MITROKHIN, L'Archivio Mitrokhin, 1999, p. 293).

Come ben rileva Migranyan, anche durante la presidenza Kennedy esisteva un "deep state", una formazione non visibile e non responsabile costituita da agenzie governative o parti di esse. Si tratta di una presenza che non deve sorprendere. Una deriva siffatta è in qualche misura connaturale ad organizzazioni chiamate ad operare nel segreto o comunque  con riservatezza. E' però indispensabile ricondurle nell'alveo dello stato di diritto e delle istituzioni democratiche.
Gli ordinamenti liberaldemocratici occidentali tradizionalmente a tal fine apprestano commissioni parlamentari di controllo e attribuiscono compiti di direzione ai governi gravati della responsabilità politica. Ma occorre un approccio equilibrato e realista. L'intelligence è uno strumento a cui anche le democrazie non possono rinunciare. Resterebbero altrimenti disarmate di fronte a nemici implacabili. La ricetta è sempre la stessa: buone istituzioni, buoni difensori. Gli strumenti istituzionali di controllo devono essere migliorati e resi più efficaci. I compiti più delicati devono essere affidati a uomini e donne capaci, che conservino amore per il loro paese e per la libertà.

sabato 16 novembre 2013

Assicurazione pubblica. Un elefante fuori controllo.




Ludger Schuknecht é il direttore generale della sezione “Politica Fiscale Generale e Politica Finanziaria e Monetaria Internazionale” del Ministero delle Finanze tedesco. Si deve a lui una brillante analisi della struttura, della portata e della sostenibilità del welfare che contraddistingue ormai quasi tutte le democrazie occidentali, oggi facilmente  reperibile per iniziativa dell' Istituto Bruno Leoni.
Scrive Schuknecht:

" Pochi osservatori hanno riconosciuto che l’impegno per la sicurezza sociale, la stabilizzazione della domanda e i nuovi tipi di assicurazione pubblica è stato superiore a quanto il governo fosse in grado di sostenere, mettendo così in pericolo la stabilità fiscale e monetaria a livello nazionale e globale (Rother et al., 2010). Pochi, forse nessuno, hanno saputo vedere nel ruolo dell’assicurazione pubblica la radice dell’attuale crisi fiscale e sovrana".
"Oggi, nella maggior parte delle economie avanzate, le assicurazioni sociali assorbono circa il 60% della spesa pubblica".

"Con l’imporsi di politiche keynesiane, l’assicurazione pubblica è stata estesa per “stabilizzare” la domanda aggregata. In base a questo concetto, recentemente applicato anche oltre i confini nazionali, i Paesi con “carenze di domanda” adottano misure di stimolo coordinate per sostenere la domanda, non solo in patria ma anche all’estero".

"Il ruolo crescente dell’assicurazione pubblica è strettamente legato all’enorme espansione dello Stato nell’ultimo secolo e mezzo: la spesa pubblica è aumentata di almeno quattro volte, superando il 40%, o addirittura il 50%, del PIL nei Paesi più industrializzati".

"Negli ultimi anni, solo pochi Paesi possono ancora vantare rapporti di spesa pubblica prossimi alle medie degli Stati avanzati del 1960. Solamente Svizzera, Australia e Nuova Zelanda hanno mantenuto un’incidenza della spesa pubblica pari a circa il 35% del PIL. E anche la spesa di questi governi è significativamente superiore a quella dei concorrenti asiatici, come la Corea o Singapore. In queste nazioni fiorenti, la spesa pubblica è pari a solo a un quinto o un quarto della produzione economica".
"...le dinamiche economie dell’Asia presentano settori pubblici che sono in genere molto più piccoli rispetto ai Paesi avanzati: la differenza principale è rappresentata dall’inferiore spesa per l’assicurazione sociale".

Si tratta di una coraggiosa e condivisibile analisi, che davvero mette il dito sulla piaga. Anche in Italia ben più della metà della spesa pubblica è costituita dalla spesa sociale. E' del tutto illusoria ogni ipotesi di diminuzione della pressione fiscale che non abbia come necessaria premessa la ristrutturazione di tale spesa sociale. Una incisiva sua riforma secondo il principio di sussidiarietà determinerebbe anche un netto aumento della produttività e della qualità dei servizi.
Politici e protagonisti dei media devono presentare con chiarezza questa situazione agli elettori, accompagnando l' amaro calice con una evidente rinuncia a insopportabili privilegi, nella consapevolezza che questa rappresenta l' ultima possibilità di riabilitazione.

sabato 9 novembre 2013

Russia. La Mezzaluna sul Cremlino?



Il rapporto tra Russia e Islam è da sempre conflittuale. La monarchia ortodossa ha realizzato la propria espansione imperiale verso Oriente e oltre il Caucaso in larga misura a spese di potentati islamici. Il regime sovietico ha "conculcato la religione islamica nell'Asia centrale e nelle repubbliche transcaucasiche, dove solo duecento moschee erano autorizzate a soddisfare le esigenze religiose di 50 milioni di musulmani" (Bernard LEWIS, La crisi dell' Islam, 2004, p. 85).
Tuttavia l'Islam fondamentalista contemporaneo individua negli Stati Uniti d'America e nelle democrazie occidentali il Grande Satana. La Società aperta occidentale è disprezzata e odiata. Ciò ha determinato l'uso di due pesi e due misure nel giudizio sulle vicende che hanno segnato il Novecento. Nulla è stato perdonato agli USA e ai loro alleati. Neppure dall'invasione sovietica dell'Afghanistan è seguita una diversa valutazione fondamentale. Dopo il collasso e lo scioglimento dell'Unione Sovietica le guerre in Cecenia e gli attentati di matrice islamica hanno impresso una svolta alle relazioni tra Russia e Islam. Ma un altro fattore acquista sempre maggiore rilevanza: migrazione e diverso tasso di natalità tendono a modificare significativamente il rapporto tra islamici e resto della popolazione. Sul sito DanielPipes.org  l'analista statunitense espone una situazione che deve allarmare non solo il governo russo. Scrive Pipes:

"L'omicidio avvenuto il 10 ottobre scorso di Yegor Shcherbakov, un giovane russo di 25 anni, a quanto pare accoltellato da un musulmano azero, ha causato a Mosca una serie di disordini anti-immigrati, atti di vandalismo e aggressioni, ha condotto all'arresto di 1200 persone e ha portato alla ribalta forti tensioni nella vita russa.
Non solo in Russia si registra la presenza di 21-23 milioni di musulmani, che costituiscono il 15 per cento della popolazione totale che ammonta a 144 milioni di persone, ma la loro percentuale è in rapida crescita. I russi afflitti dalla piaga dell'alcolismo hanno tassi di natalità pari a quelli europei (con 1,4 figli per ogni donna) e tassi di mortalità che eguagliano quelli dei Paesi africani (l'aspettativa di vita per gli uomini ha raggiunto una media di 60 anni). A Mosca, le donne cristiane hanno in media 1,1 figli.
Al contrario, le donne musulmane hanno in media 2,3 figli e tra di esse si registra un minor numero di aborti rispetto alle loro omologhe russe. A Mosca, le donne tartare hanno in media 6 figli mentre quelle cecene e ingusce ne hanno 10. Inoltre, circa 3-4 milioni di musulmani si sono trasferiti in Russia provenienti dalle ex repubbliche sovietiche, soprattutto dall'Azerbaijan e dal Kazakistan, e qualche russo si è convertito all'Islam".

"Nel giro di pochi anni, i musulmani costituiranno la metà dei coscritti nell'esercito russo. Joseph A. D'Agostino del Population Research Institute chiede: "Un esercito del genere sarà in grado di operare in modo efficace, considerata la rabbia che molti musulmani presenti nel Paese provano verso le tattiche utilizzate dall'esercito russo nella regione musulmana della Cecenia? E se le altre regioni musulmane della Russia – alcune delle quali contengono enormi riserve petrolifere – si ribellassero a Mosca? I soldati musulmani combatteranno e uccideranno per continuare a tenerle unite alla madrepatria russa?"".

"Ma come fa notare Ilan Berman dell'American Foreign Policy Council, "il Cremlino ha discriminato la sua minoranza musulmana e ha ignorato (e perfino spalleggiato) l'affermazione della xenofobia corrosiva fra i suoi cittadini. Tutto questo ha causato risentimento e isolamento fra i musulmani residenti in Russia – sentimenti che i gruppi islamici radicali sono fin troppo impazienti di sfruttare". E se aggiunto ai già esistenti atteggiamenti islamici suprematisti, ciò avrà per risultato una minoranza musulmana sempre più insofferente.
I dibattiti sull'Islam in Europa tendono a concentrarsi su luoghi come la Gran Bretagna e la Svezia, ma la Russia, il Paese con la più grande comunità musulmana in termini relativi e assoluti, è soprattutto il luogo verso cui puntare l'attenzione. Agli episodi di violenza anti-immigrati di questa settimana sicuramente faranno seguito problemi ben peggiori".

Sulla Russia incombe una vera e propria bomba demografica e culturale. Una eventuale deflagrazione sarebbe devastante non solo entro i confini dell'Impero.

sabato 2 novembre 2013

Economia reale USA. Il vero stimolo è l'energia a buon mercato.





 Su La Stampa del 1 novembre 2013 Francesco Rigatelli dà conto di importanti dichiarazioni del presidente dell'ENI Giuseppe Recchi sul nuovo assetto energetico USA e sulle prospettive europee:

"Il cruccio dell’America, per il presidente Eni, è riuscire a restare leader in un mondo non più bipolare. La soluzione principale è avere energia a costo basso". 

"«Ora mettendo in pista una tecnologia non nuova ma di cui fino a cinque anni fa non si parlava neppure rivoluziona gli equilibri energetici. E’ successo per l’alzarsi del prezzo degli idrocarburi, che rende conveniente estrarli col fracking. Tradizionalmente si pompano da pozzi profondi anche 3 mila metri. Col fracking si scende mille metri e poi si procede orizzontalmente iniettando acqua e poi isolando petrolio e gas. Una tecnica molto fruttuosa»".

"Recchi torna al basso prezzo dell’energia da fonte interna americana, «tanto che il gas costa tre volte meno dell’Europa, l’elettricità due. Dunque fare industria conviene più di pochi anni fa e molte imprese delocalizzate tornano in America. Più è pesante la produzione, manifattura ad alta intensità di energia come nel settore della plastica o degli elettrodomestici, più ne beneficiano. E sono posti di lavoro»".

"«L’impatto sull’ambiente? L’acqua che si infiltra col fracking ha degli additivi dunque si pensa inquini le falde acquifere, ma in realtà è un’idea superficiale. Basta trivellare lontano. E non è che negli Stati Uniti siano meno rispettosi dell’ambiente di qui. Ad oggi non ci sono casi di inquinamento. E intanto l’America da nazione in declino è tornata al vertice»".

Grazie al rapido incremento della produzione di shale gas/oil nel « 2015 gli Stati Uniti saranno il primo produttore di gas al mondo, superando la Russia. E nel 2020 otterranno lo stesso risultato con il petrolio, battendo l’Arabia saudita» (Recchi). Un determinante fattore di competitività, tanto più importante quanto più gli Stati Uniti sapranno migliorare gli altri (pressione fiscale, qualità della scuola, efficienza della pubblica amministrazione, infrastrutture).
Non si dimentichi che, sia pure in un contesto molto diverso, l'energia a basso costo e le esportazioni energetiche altre volte non sono riuscite a compensare il deficit di produttività e competitività, non impedendo una fatale crisi strutturale del sistema. Ciò è avvenuto nella vecchia Unione Sovietica, ma anche la Russia di oggi non raggiunge una sufficiente competitività.
Gli Stati Uniti hanno un patrimonio culturale e istituzionale tale da far ritenere probabile un buon uso delle nuove risorse. Senza però escludere serie difficoltà, che potrebbero arrivare da una classe politica sempre più incline alla demagogia e dalla caduta dell'etica del lavoro e della responsabilità, un tempo punto di forza della società statunitense.
E l'Europa? Cultura diffusa e ordinamenti rendono difficilmente replicabile la rivoluzione energetica USA. Un peso in più sulle spalle di economie già arrancanti. Ma la cautela in paesi che ospitano monumenti, città d'arte e territori di bellezza incomparabile se non giustificata è almeno comprensibile. Belli ma poveri? 

sabato 26 ottobre 2013

Crisi. Prigionieri del presente.




Su Il Sole24ORE del 25 ottobre 2013 Alessandro Plateroti chiude il suo ampio esame della situazione con un rilievo meritevole di approfondimento:

"Ormai è chiaro a tutti che ci muoviamo in uno scenario in cui la globalizzazione impedisce misure unilaterali, ma interessi divergenti condannano alla paralisi. Il vecchio sistema di regole e certezze sta crollando, il nuovo nessuno lo intravvede o tenta di costruirlo perché tutto si intreccia con la crisi e la minaccia di un aggravamento finanziario o dell'economia reale. Tutti vivono alla giornata - operatori, governi, istituzioni soprannazionali - e hanno paura di progettare il futuro. Sembra che nel mondo si sia diffusa una nuova malattia che si credeva soltanto italiana: inseguire il presente rimanendone prigionieri. E allora si spiega quel che sta succedendo sui mercati".

Come un buco nero il presente attrae ogni risorsa materiale ed intellettuale. Ciò pare determinante e ineluttabile nell'Occidente democratico, con poche eccezioni. Perfino la retorica obamiana conferma l'assunto: apparentemente guarda al futuro, in realtà tende a perpetuare l'alleanza tra l'illusione ed il bisogno che ha consentito l'elezione del presidente USA.
Per quasi tutte le società occidentali è molto difficile spezzare le catene del presente. E' venuto meno il supporto della memoria generazionale e le principali agenzie educative hanno fallito. Alla diffusa inadeguatezza degli strumenti di analisi si accompagna quella di valori e tradizioni, che può rivelarsi fatale per la democrazia liberale. Montesquieu è spesso citato a sproposito sulla cosiddetta separazione dei poteri, mentre restano memorabili le sue osservazioni sui presupposti di una democrazia libera e vitale:

"E' nel governo repubblicano che si ha bisogno di tutta la potenza dell'educazione...la virtù politica è una rinuncia a sè, cosa che è sempre molto penosa. Si può definire questa virtù, l'amore delle leggi e della patria. Quest'amore, richiedendo una preferenza continua verso l'interesse pubblico in confronto al proprio, conferisce tutte le virtù particolari: esse non sono altro che tale preferenza. Quest'amore è particolarmente legato alle democrazie. Soltanto in esse il governo è affidato ad ogni cittadino" (MONTESQUIEU, Lo spirito delle leggi, Capitolo quinto).
Tale patrimonio morale dà lungimiranza ai governanti, chiamati a non pensare soltanto al consenso elettorale, ed agli elettori che li giudicano. Esso caratterizzava i più notevoli esponenti dell'Italia che seppe tenere il passo dell'Europa migliore, statisti come Cavour, Giolitti, De Gasperi ed Einaudi, ma anche uno dei più brillanti generali del Ventesimo secolo, Enrico Caviglia, che nel suo diario annotò la seguente riflessione:

"L'uomo politico deve tenere conto delle grandi correnti di interessi e di sentimenti e saper distinguere le correnti transitorie da quelle che additano ai popoli la via da seguire a scadenza di generazioni.
Deve conoscere la situazione morale, politica ed economica generale per valutare con tranquilla coscienza gli elementi e i fattori che interessano il suo popolo.
Se sarà invece assorbito completamente dalla situazione interna del proprio Paese e da interessi immediati che premono ad ogni piè sospinto, egli non guiderà il suo popolo, ma andrà con quello alla deriva" (Enrico CAVIGLIA, I dittatori, le guerre e il piccolo re - Diario 1925-1945 - A cura di Pier Paolo Cervone, pag.39).


venerdì 18 ottobre 2013

Cina. Il ruolo della memoria generazionale.



Su Asianews del 5 ottobre 2013 Paul Wong riassume un'intervista che He Weifang, professore di diritto all'Università di Pechino (Beida), ha concesso al South China Morning Post.
Secondo il giurista cinese, autore di un microblog molto seguito, "il Partito comunista cinese deve fare dei passi per ridurre il suo monopolio sulla società, garantendo anzitutto l'indipendenza della magistratura e la libertà di stampa e passando poi alla libertà dei sindacati e delle organizzazioni sociali".
"Negli ultimi mesi" - scrive ancora Wong - "sulle pubblicazioni del Partito si è combattuto con forza l'idea del costituzionalismo, cioè il mettere la costituzione al di sopra del Partito. Secondo alcuni articoli, questa mossa fa perdere potere al Partito e rischia di portare la Cina al collasso, come è avvenuto per l'ex Unione sovietica".
Lo scontro verte dunque sul governo costituzionale e lo stato di diritto. Quali sarebbero le conseguenze sociali ed economiche dell'adesione della Cina al modello di stato che prevale in Occidente? In Cina il regime autocratico controlla investimenti e salari, decide il tasso di risparmio, conserva un welfare corto che copre e costa poco, impone le esternalità negative della produzione. Tutto ciò si risolve in un rilevante vantaggio competitivo rispetto ai concorrenti occidentali. Ancora oggi, mentre la crisi continua, l'economia cinese rallenta ma non si arresta.
Ma perchè il peso dell'autocrazia e l'assenza di genuine garanzie dei diritti delle persone e dei corpi sociali intermedi non provocano rivolte in grado di rovesciare il regime? Uno dei principali fattori che frenano le tendenze eversive è rappresentato dalla memoria generazionale. Molti cinesi ricordano la drammatica povertà e la crudele repressione subite durante i lunghi decenni che seguirono la nascita della Repubblica Popolare, raggiungendo livelli intollerabili durante la Rivoluzione culturale. I giovani che non erano ancora nati ascoltano i loro padri e i loro nonni. Quando la memoria generazionale non rappresenterà più un efficace fattore di sopportazione, il regime dovrà fronteggiare un'opposizione più robusta, determinata e diffusa.
L'attuale mercato socialista cinese presenta chiare analogie con la NEP sovietica. In entrambi una limitata e vigilata libertà di impresa è accompagnata da un rigido monopolio del potere detenuto dal partito comunista. La NEP sovietica lasciò rapidamente il posto alla stretta staliniana perché le promesse della Rivoluzione erano ancora sufficientemente credibili ed attraenti, perché il vicolo cieco dell'utopia non era stato esplorato fino in fondo. Quando le nuove generazioni cinesi non ricorderanno l'orrore e non crederanno più ai racconti degli anziani le sirene rivoluzionarie, tuttora operanti, ritorneranno ad affascinare e a suggestionare. La distanza e il conflitto tra ideologia e realtà rappresenteranno di nuovo un potente fattore rivoluzionario.

venerdì 11 ottobre 2013

Destra radicale. Nostalgia della libertà o del suo contrario.


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Sul Corriere della Sera dell'11 ottobre 2013 Antonio Polito scrive:

" Come dimostrano i Tea Party, capaci di prendere in ostaggio il Grand Old Party repubblicano spingendo l'America fino al limite del default, o i sondaggi di Marine Le Pen in Francia, o l'affermarsi di partiti antieuro in Austria e in Germania, il vento della storia non soffia certo oggi nelle vele dei moderati".
Ma negli USA, come si ricava dai verbali di una recente riunione dei membri della Federal Reserve, "i progressi del mercato del lavoro ... «sono deludenti» e la crescita è ancora «debole»". Su questo sfondo va collocato l'attuale duro scontro tra Democratici e Repubblicani. Chi pone a rischio la tenuta finanziaria degli Stati Uniti senza ottenere risultati apprezzabili? Obama, con la sua politica economica "accomodante", o i Tea Party, che chiedono di ripristinare condizioni favorevoli per investimenti, impresa e lavoro richiamandosi alla tradizione?
E' sbagliato riferire le stesse espressioni di condanna a realtà molto diverse tra loro. Ciò che fa la differenza tra "conservatori"  e distingue un "reazionario" dall'altro è appunto ciò che si intende conservare o a cui si vuole ritornare. Evidentemente non è la stessa cosa guardare alla Dichiarazione di Indipendenza USA del 1776, al regime mussoliniano o alla Francia che si riconobbe nella visione del maresciallo Petain.
Oggi i cosiddetti moderati sono chiamati a scelte radicali in tema di welfare, concorrenza, lavoro e fisco. Sono queste indispensabili ma spesso impopolari riforme a contraddistinguere la buona politica. Viene in primo piano così la necessità di trovare a tali riforme un adeguato consenso. Occorre una evidente ed efficace lotta agli sprechi, ai privilegi intollerabili, allo sperpero del denaro pubblico. Altrimenti i tentativi di riforma consegneranno il potere proprio ai movimenti populisti e illiberali che destano la preoccupazione di chi sui media esamina gli sviluppi della crisi.

giovedì 3 ottobre 2013

Italia. Destra e libertà.




Su La Stampa del 3 ottobre 2013 Luigi La Spina ritorna su una questione a lungo dibattuta: perchè l'Italia non ha una genuina destra liberale, paragonabile ai partiti liberalconservatori che esercitano un importante ruolo nelle altre democrazie occidentali?
Tra le recenti opere che hanno affrontato anche questo interrogativo si distingue Tre giorni nella storia d'Italia di Ernesto Galli della Loggia, che qui scrive lucidamente: la "...democrazia illiberale - illiberale nella sostanza, nel modo concreto di funzionare, nella cultura generale della società - è stato il volto autentico della modernità politica italiana" (op.cit., 2010, p.18). Ma questo esito non era inevitabile.
 In vista delle elezioni del 1913 i liberali del cattolico Giovanni Giolitti conclusero un accordo con l'Unione Elettorale Cattolica Italiana (UECI), un'associazione laicale diretta da Vincenzo Gentiloni, alla quale lo stesso papa Pio X affidò il compito di far partecipare i cattolici italiani alla vita politica. L'informale Patto Gentiloni ebbe grande successo. Con il suffragio universale maschile nel 1913 i liberali di Giolitti ottennero il 51% dei voti e 260 eletti su 508, 228 dei quali avevano sottoscritto gli impegni previsti dall'accordo. Giolitti era riuscito a far entrare i cattolici nelle istituzioni nate dal Risorgimento, nel segno di un liberalismo pragmatico e rispettoso di ogni libertà, religiosa compresa.
 Questa compagine liberale, contraddistinta dalla presenza di numerosi cattolici, era maggioritaria e poteva evolversi in quel movimento moderato, liberale e aperto alla partecipazione dei cattolici che oggi molti auspicano. Ma altri esponenti del Cattolicesimo italiano tentavano di costituire un partito di cattolici, che fu fondato nel 1919 da don Luigi Sturzo. Il Partito Popolare di Sturzo si ispirava alla Dottrina sociale della Chiesa, con il programma di rinnovare a fondo la politica e la società italiane. Perseguendo questo ambizioso obiettivo si oppose al ritorno al governo del vecchio ma esperto Giolitti, solo statista italiano in grado di precludere a Mussolini la conquista del potere. Dino Grandi, forse il più intelligente gerarca fascista, ha espresso un duro giudizio sull'operato di Sturzo:

 "Il veto di Sturzo al ritorno di Giolitti fu in effetti il più grande servizio che il prete di Caltagirone avrebbe potuto rendere al movimento fascista per cui, non a torto, Sturzo è stato paradossalmente definito da taluni come uno dei padri della marcia su Roma" (Dino GRANDI, Il mio paese. Ricordi Autobiografici, ed.1985, pag. 157).

Con il regime mussoliniano si rafforzò la deriva illiberale della società e della cultura italiane, che  non riuscì a trovare poi un argine efficace. Tale non si rivelò l'opera di De Gasperi, pur segnata dalla collaborazione con uno dei pochi grandi liberali italiani, Luigi Einaudi,  a cui lo statista trentino affidò l'economia dell'Italia distrutta e sconfitta. De Gasperi era guidato da sincere convizioni liberali, mentre il secondo presidente della Repubblica era cattolico. Il liberalismo einaudiano, lontano da ogni astratto dogmatismo, guardava alla tradizione e alle istituzioni liberali delle democrazie occidentali.
Ma Einaudi non ottenne un secondo mandato come presidente della Repubblica e De Gasperi dovette lasciare la guida del governo. Ad essi va principalmente riconosciuto il merito della rapida ricostruzione del paese, eppure la loro influenza sulle istituzioni e sulla politica italiane non fu durevole. Nel 1942 Einaudi recensì sulla Rivista di storia economica (giugno, pp. 49-72)  Die Gesellschaftskrisis der Gegenwart di Wilhelm Röpke, il padre dell'economia sociale di mercato tedesca. La corrispondenza di idee e valori lascia intravedere ciò che sarebbe potuto avvenire e non è avvenuto. Röpke fornì il supporto teorico a un robusto movimento liberale e moderato, capace di dare un apporto decisivo alla costruzione di una ricca e libera democrazia, mentre quelle di Luigi Einaudi restarono Prediche inutili.
Tuttora il nostro paese, prigioniero di una cultura illiberale e statalista, è incapace di esprimere un partito conservatore non delle anomalie che hanno condotto al declino, ma dei valori e delle tradizioni che hanno rese grandi le democrazie occidentali.

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