Translate

giovedì 18 ottobre 2012

Italia: il merito e il bisogno.


Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, due tra i più lucidi intellettuali liberali italiani, hanno più volte denunciato i gravi difetti dello Stato sociale italiano che "si è trasformato in una macchina che tassa le classi medio-alte e fornisce servizi non solo ai meno abbienti (com'è giusto che sia) ma anche alle stesse classi a reddito medio-alto. Questo giro di conto, con aliquote alte, scoraggia il lavoro e la produzione".
"Che senso ha tassare metà del reddito delle fasce più alte per poi restituire loro servizi gratuiti? Meglio che li paghino e contemporaneamente che le loro aliquote vengano ridotte. Aliquote alte scoraggiano il lavoro e l'investimento" (Corriere della Sera, 23 settembre 2012).
La pressione fiscale italiana resta altissima, ostacolando una adeguata crescita economica,  per finanziare un welfare che manca il suo obiettivo essenziale: sostenere chi non ce la fa da solo, dare agli indigenti un aiuto adeguato. La gravità della situazione è rappresentata con chiarezza nel Rapporto 2012 su povertà ed esclusione sociale in Italia della Caritas Italiana ed è stata ben delineata dallo stesso Corriere della Sera:

"C'è una «evidente incapacità» dell'attuale sistema di welfare a farsi carico delle nuove forme di povertà, delle nuove emergenze sociali derivanti dalla crisi economico-finanziaria".

"Negli ultimi 3 anni, dall'esplosione della crisi economica, si legge nel Rapporto, c'è stata un'impennata degli italiani che si sono rivolti ai centri Caritas: aumentano casalinghe (+177,8%), anziani (+51,3%) e pensionati (+65,6%)".

I liberali aspirano a una società libera, grande, buona. Non possono rimanere indifferenti davanti alla sofferenza umana. Tale indifferenza non appartiene al miglior pensiero liberale. Ha scritto Karl Popper ne La Società aperta e i suoi nemici (vol. II, capitolo ventiquattresimo, 3):

"La richiesta politica di metodi gradualistici (in opposizione ai metodi utopistici) corrisponde alla decisione che la lotta contro la sofferenza dev'essere considerata un dovere, mentre il diritto di preoccuparsi della felicità degli altri dev'essere considerato un privilegio limitato al ristretto cerchio dei propri amici".

"La pena, la sofferenza, l'ingiustizia e la loro prevenzione, questi sono gli eterni problemi di morale pubblica, gli "agenda" della politica pubblica... I valori "superiori" dovrebbero essere in larghissima misura considerati come "non agenda" e dovrebbero rientrare nell'ambito del laissez-faire".

In Italia il merito non è premiato. La difesa di corporazioni e privilegi blocca la crescita e preclude una sufficiente mobilità sociale. La concorrenza regolata da norme chiare, semplici e ragionevoli spesso non è neppure auspicata. Mentre il bisogno non trova adeguato sollievo. Occorre che merito e bisogno si incontrino e si comprendano, riportando sulla via dello sviluppo un paese oggi in declino.

giovedì 11 ottobre 2012

Cina e Giappone. Una contesa con esclusione di colpi.



Sono tuttora aperte controversie tra Giappone, Russia, Corea del Sud e Cina sulla sovranità di alcune isole. Il Giappone contende le Curili/Kiril alla Russia, le Dokdo/Takeshima alla Corea del Sud, le Senkaku/Diaoyu alla Cina. Quest'ultima disputa desta oggi le maggiori preoccupazioni.
Sulla questione è disponibile un interessante articolo de La Voce della Russia, che ha sostituito la Radio Mosca dell'Unione Sovietica.
Scrive Vasilij Kašin della redazione online:

"La crisi attorno alle isole Senkaku, conosciute in Cina come isole Diaoyutai, ha scatenato nei media cinesi e giapponesi pubblicazioni che inneggiano alla forza.
In realtà, però, siamo molto lontani da un conflitto armato. Le parti stanno facendo il possibile per escludere uno sviluppo della situazione in questo senso".

"In Cina si ritiene che il Giappone sia legato da un accordo di sicurezza agli Usa, i quali hanno confermato di essere pronti a sostenere il Giappone in caso di conflitto. Accanto alle condizioni politiche, la Cina non ha al momento le possibilità militari per stabilire un controllo sulle isole Senkaku".

"Se la disputa intorno alle isole passerà alla fase calda, per la flotta e l’aeronautica cinese sarà una umiliante sconfitta. Secondo la maggior parte degli esperti, al momento, i giapponesi godono di una grande superiorità materiale e una enorme superiorità per quanto riguarda la preparazione del personale. I cinesi non hanno ancora approvato i nuovi sistemi, il grado di preparazione dell’equipaggio lascia aperte molte questioni.
Non bisogna nemmeno esagerare il ruolo di ricostruzione della portaerei Varjag. La nave non avrà nel breve periodo un ruolo militare. L’esperienza di costruzione della flotta oceanica sovietica negli anni 1960-70 dimostra che si tratta di un lavoro che bisogna portare avanti senza interruzione per alcuni anni, prima di ottenere dei risultati. La Cina ha bisogno di una Flotta importante per la difesa delle comunicazioni marine e delle proprie acque territoriali, ma non bisogna aspettarsi risultati immediati".

Si tratta di valutazioni tutto sommato condivisibili. Probabilmente i dirigenti cinesi perseguono prima di tutto obiettivi di politica interna. Il regime ha oggi bisogno di ravvivare i già forti sentimenti nazionalisti. Ma è presente anche l'intenzione di mettere alla prova l'alleanza USA - Giappone, alla cui solidità e vitalità guardano con attenzione gli altri alleati asiatici degli Stati Uniti.
Sullo sfondo il tema della tecnologia militare e della esportazione di armi. In questo settore la Cina è ormai diventata il più abile e spregiudicato competitore della Russia. La consultazione del fondamentale database di SIPRI.org consente di individuare consolidate tendenze nella esportazione mondiale di armi. Perfino in Iran e Zimbabwe l'industria degli armamenti cinese  ha trovato sbocchi. Un punto di frizione tra le due potenze destinato a diventare sempre più importante.                                                                            

giovedì 4 ottobre 2012

Piero Melograni. Totalitarismi reazionari e potenti impotenti.




 Il 27 settembre 2012 è morto a Roma, dove era nato, il professor Piero Melograni. Eminente storico dell'età contemporanea, ha insegnato a lungo all'Università di Perugia. Uscito dal Partito comunista italiano dopo la sanguinosa repressione della Rivoluzione ungherese compiuta dai Sovietici nel 1956, è diventato uno dei più brillanti intellettuali liberali italiani. Nel 1996 è stato eletto in Parlamento come indipendente nelle liste di Forza Italia.
I suoi studi sulla Prima guerra mondiale e sul Ventennio mussoliniano hanno contribuito incisivamente al progresso della storiografia italiana. Ma sono da ricordare anche i suoi saggi che costituiscono il frutto di una riflessione di largo respiro sulla storia, in particolare sul passaggio dalla civiltà agricola a quella industriale, dalla società chiusa alla società aperta. 
In Fascismo, comunismo e rivoluzione industriale (1984)  Melograni pone in evidenza i tratti reazionari di fascismo e comunismo:

"...il fascismo, il comunismo e la rivoluzione industriale. Fra questi tre fenomeni esiste un nesso molto stretto. La rivoluzione industriale è la rivoluzione più sconvolgente del nostro tempo: comunismo e fascismo costituiscono due forme di reazione contro di essa" (pag. 1).

"Le società capitalistico-industriali hanno offerto un grado superiore  di libertà. Ma lo hanno offerto grazie agli elementi di instabilità e disordine in esse presenti. Occorre riconoscere che proprio da questa interdipendenza fra disordine e libertà sono scaturiti i problemi più drammatici per il mondo nuovo" (pag. 6).

"Le masse apprezzano i vantaggi materiali offerti dal mondo nuovo, ma temono di pagare un prezzo troppo alto in termini esistenziali. In realtà le masse, e anche le élites, non possiedono ancora una cultura che le aiuti a vivere nel mondo nuovo".

"Il mondo nuovo vorrebbe il paradiso in terra, e non lo trova" (pag. 7).

Sono considerazioni in larga misura riconducibili alla più ampia teorizzazione esposta da Karl Popper nella Società aperta e i suoi nemici già durante la Seconda guerra mondiale:

nella Grecia del sesto secolo avanti Cristo "troviamo i primi sintomi di un nuovo disagio. Si cominciò a sentire l'effetto stressante  della civiltà. Questo effetto stressante, questo disagio, è una conseguenza del collasso della società chiusa. Esso è avvertito anche ai nostri giorni, specialmente in periodi di mutamenti sociali. E' l'effetto stressante prodotto dallo sforzo che la vita in una società aperta e parzialmente astratta richiede continuamente da noi - con l'esigenza di essere razionali, di rinunziare ad alcuni almeno dei nostri bisogni sociali emozionali, di badare a noi stessi  e di accettare le responsabilità"  (ed. 1973, rist. 1981, vol. I, cap. decimo, pp. 248 e 249).

Con Popper Melograni rileva il carattere reazionario dei totalitarismi del Novecento, che rappresentano una reazione alla società aperta incipiente. 
Un'altra opera dello storico romano mostra l'ampiezza e la profondità della sua riflessione storica. Nel Saggio sui potenti Melograni offre una visione realistica della storia:

"Ma in tutti i luoghi l'assetto politico-sociale è il risultato di tendenze e di forze numerose e complesse, materiali e spirituali, razionali e irrazionali, difficilmente controllabili. Nel continuo, intricato, ondeggiante accavallarsi di tutte queste forze e tendenze deve essere cercata la spiegazione delle diverse situazioni storiche nelle quali gli individui e le collettività si trovano concretamente ad operare. Gli stessi capi... sono profondamente condizionati e spesso addirittura travolti dalla circostante realtà" (ed.1977, pag. 123).

Come spesso accade durante i periodi di crisi, anche oggi le teorie del complotto e della cospirazione fuorviano l'attenzione, distogliendola da problemi ed errori sotto gli occhi di tutti. La lezione del Saggio sui potenti rappresenta un antidoto contro questa tendenza irrazionale che affligge l'opinione pubblica proprio quando la lucidità appare più necessaria.

giovedì 27 settembre 2012

Un nuovo welfare per tornare a crescere.



"Ci sono voluti decenni prima che ci accorgessimo che occorreva adeguare l'età di pensionamento all'allungarsi della vita media: nel frattempo la spesa per pensioni è cresciuta dall'8 per cento del Prodotto interno lordo (Pil) nel 1970 a quasi il 17 per cento oggi.
L'allungamento della vita ha anche prodotto un aumento delle spese per la salute. Un anziano oltre i 75 anni costa al sistema sanitario ordini di grandezza superiori rispetto a persone di mezza età. Risultato, la nostra spesa sanitaria oggi sfiora il 10 per cento del Pil. Insieme, sanità e pensioni costano il 27 per cento, 10 punti più di quanto costavano quando il nostro Stato sociale italiano fu concepito".

"A questo aumento straordinario non abbiamo fatto fronte riducendo altre spese (ad esempio quella per dipendenti pubblici, che era il 10 per cento del Pil 30 anni fa ed è rimasta il 10 oggi), bensì solo con un aumento della pressione fiscale: dal 33 per cento quarant'anni fa al 48 oggi.
È questo uno dei motivi per cui abbiamo smesso di crescere. Avevamo uno Stato calibrato per una popolazione relativamente giovane; poi la vita si è allungata, le spese sono salite, ma lo Stato è rimasto sostanzialmente lo stesso, richiedendo una pressione fiscale di 15 punti più elevata".

"Dobbiamo ripensare più profondamente alla struttura del nostro Stato sociale. Per esempio, non è possibile fornire servizi sanitari gratuiti a tutti senza distinzione di reddito. Che senso ha tassare metà del reddito delle fasce più alte per poi restituire loro servizi gratuiti? Meglio che li paghino e contemporaneamente che le loro aliquote vengano ridotte".

"Insomma, il nostro Stato sociale si è trasformato in una macchina che tassa le classi medio-alte e fornisce servizi non solo ai meno abbienti (com'è giusto che sia) ma anche alle stesse classi a reddito medio-alto. Questo giro di conto, con aliquote alte, scoraggia il lavoro e la produzione".

Alesina e Giavazzi sul Corriere della Sera del 23 settembre 2012 affrontano così una questione decisiva: lo Stato sociale italiano è sostenibile e compatibile con una crescita economica non irrilevante? I numeri davvero spaventano. La spesa pubblica italiana ammonta  a circa 800 miliardi di euro, oltre la metà di un PIL che ormai non supera 1.500 miliardi di euro. Se non viene abbattuta, dovendosi raggiungere il pareggio del bilancio la pressione fiscale reale non potrà scendere molto sotto il 50% del PIL.
E' del tutto evidente che la cessione di parte del patrimonio pubblico, con la destinazione del corrispettivo alla riduzione dello stock del debito pubblico, non appare risolutiva. Tale misura non solo è irrealizzabile in breve tempo, ma soprattutto incide sulla spesa corrente diminuendo, forse, il peso del servizio del debito pubblico. Un risparmio certamente insufficiente. Per abbattere la spesa pubblica e quindi abbassare adeguatamente la pressione fiscale bisogna ristrutturare i suoi settori più ampi, che corrispondono appunto al welfare e alla spesa per dipendenti pubblici.
Ridisegnare il welfare italiano nel senso indicato dai professori Alesina e Giavazzi consentirebbe assai probabilmente di ridurre e redistribuire il carico fiscale, in modo da ripristinare una delle necessarie premesse della crescita. Ma si rivelerebbe vantaggioso anche in un' altra fondamentale prospettiva. La scelta diretta dei fornitori di servizi da parte dei fruitori, con un' ampia e variegata offerta pubblica e privata, premiando il merito e la qualità, contribuirebbe significativamente a incrementare l' efficienza degli operatori e la competitività dell' intero sistema paese.
Ci sono ostacoli che si frappongono all' attuazione di questa riforma epocale. Essa collide con la consolidata mentalità statalista, conservatrice e illiberale di una parte rilevante del ceto medio italiano. Bisogna poi menzionare la tradizionale incapacità di far emergere ed accertare i redditi reali. Se  non si pone rimedio a questa inadeguatezza il progetto è destinato a provocare resistenze in larga misura condivisibili e a determinare conseguenze inaccettabili.
E' inoltre necessaria un' attenta disciplina pubblica dell' offerta previdenziale ed assicurativa  privata. Basti pensare all' assicurazione sanitaria di chi già è affetto da gravi malattie o è portatore di importanti fattori di rischio. In questi casi bisogna rendere sempre possibile l' accesso allo strumento assicurativo privato, con la previsione di un premio sostenibile.
Si deve infine accennare a un' altra questione fondamentale. Occorre fare in modo che la tutela pubblica di chi per reddito ottiene servizi gratuiti si estenda alla dignità che accomuna tutti i cittadini secondo la Costituzione. Si deve costruire uno Stato sociale capace di garantire i diritti costituzionali dei più svantaggiati.

mercoledì 19 settembre 2012

Mitt Romney su Palestina e sostenitori di Obama. Ruvide verità?

Il 17 maggio Mitt Romney, candidato alla presidenza degli Stati Uniti, ha pronunciato un discorso durante una cena organizzata per raccogliere fondi a Boca Raton in FloridaDue punti meritano particolare attenzione. Romney considera assai improbabile la pace tra Israeliani e Palestinesi, il cui vero obiettivo sarebbe l'eliminazione di Israele. Duro anche il giudizio sugli elettori che, a suo parere, non pagano le tasse e non si assumono la responsabilità della propria vita. Essi rappresenterebbero il 47% dell'elettorato ed il loro sostegno a Obama sarebbe per tali ragioni irreversibile.
Le parole del candidato alla presidenza trattano temi rilevanti. La questione palestinese rappresenta il grande alibi dei fondamentalisti islamici, destinato verosimilmente a durare a lungo. Infatti nessun dirigente palestinese, neppure il più moderato, può riconoscere il diritto ad esistere di Israele come stato ebraico. Generazioni di bambini palestinesi sono state cresciute nell'odio per gli ebrei ed abituate a considerare legittimo ed irrinunciabile il proposito del rientro in Israele di tutti i profughi. Inoltre nessun musulmano, anche dalla tiepida fede, può accettare sinceramente e definitivamente che una terra musulmana sia lasciata alla sovranità degli infedeli.
Dunque tutti i dirigenti palestinesi, nessuno escluso, sia pure con formule ed atti diversi, rifiuteranno le richieste israeliane sul carattere ebraico dello stato israeliano. Accettandole rinunzierebbero definitivamente al progetto, per loro irrinunciabile, di riprendere la lotta per l'estinzione dello stato ebraico quando i rapporti di forza, anche solo per ragioni demografiche, risultassero favorevoli.
Romney prende dunque brutalmente atto della realtà. Diversissimo l'approccio dell'amministrazione Obama. Il 20 agosto 2010 il segretario di stato Hillary Clinton formulò una previsione sulle trattative tra Palestinesi e Israeliani: entro un anno avrebbero prodotto risultati decisivi. Che purtroppo sono mancati.
Assai importanti anche le considerazioni sugli elettori di Obama. C'è in esse una parte della strategia elettorale del candidato repubblicano, che sa di non poter recuperare quel segmento dell'opinione pubblica americana. Ma c'è anche un abbozzo di analisi socio-culturale che merita di essere sviluppato attentamente. Le ripetute ristrutturazioni che segnano l'economia USA hanno incrementato produttività e competitività, senza ridurre apprezzabilmente la disoccupazione e la non occupazione. Molti, che non possono o non vogliono  adattarsi alla nuova situazione, confidano sempre più nel sostegno pubblico. E' un'America lontana da quella che il Tea Party ha riproposto all'attenzione del mondo. Quale prevarrà? Presto gli elettori statunitensi sceglieranno tra due visioni distanti e contrapposte quella che guiderà gli USA verso il futuro.


mercoledì 12 settembre 2012

Salvare l'euro non basta. La nuova normalità.





Su Il Sole 24 Ore del 7 settembre 2012 Jean-Claude Trichet, ex presidente della Banca centrale europea, ha così delineato i caratteri ed i problemi dell'Eurozona:

"Come gli individui di una società, i paesi dell’Eurozona sono indipendenti e interdipendenti, e possono incidere gli uni sugli altri in modo sia positivo che negativo. Una buona governance implica che gli Stati membri e le istituzioni UE adempiano alle proprie responsabilità. Unione economica e monetaria significa, innanzitutto, proprio questo: due unioni, una sul piano monetario, l’altra su quello economico".

"... l'euro da solo non spiega perché l'Eurozona sia diventata il grande malato dell'economia globale. Per comprendere il vero motivo, occorre riflettere sulla debolezza dell'unione economica dell'Europa".

"Tanto per cominciare, il Patto di stabilità e di crescita, teso a garantire politiche fiscali efficaci all'interno della zona euro, non è mai stato attuato in modo corretto".

"In aggiunta, la governance dell'Eurozona non includeva il monitoraggio e la sorveglianza degli indicatori di competitività, vale a dire andamento dei prezzi nominali e dei costi negli Stati membri, e squilibri esterni dei paesi nell'ambito della zona euro".

"Una terza fonte di debolezza è che, con l'entrata in vigore dell'euro, non furono previsti strumenti per la gestione delle crisi".

"Infine, l'alta correlazione tra la capacità di credito delle banche commerciali di un dato Paese e quella del suo governo crea un'ulteriore causa di vulnerabilità, che nell'Eurozona è particolarmente dannosa".

Porre rimedio a questi errori scioglierà tutti i maggiori nodi della crisi? Sembra proprio di no. Trichet pecca di eurocentrismo, trascurando quegli aspetti che possono trovare spiegazione soltanto esaminando la cosiddetta globalizzazione ed i suoi effetti.

Discutendo le vicende dell'Alcoa Luca Ricolfi, su La Stampa dell' 11 settembre 2012, ammette:

 "La realtà è che produrre in Europa è sempre meno conveniente". 

Gli indicatori di competitività e gli squilibri esterni sono rilevanti non solo nell'ambito dell'Eurozona ma anche nei confronti delle economie extraeuropee. Gianni Riotta, su La Stampa del 12 settembre 2012, presenta la nuova normalità con queste parole:

"Raghuram Rajan, professore dell’università di Chicago e ora consigliere economico principale del governo indiano, in un colloquio sull’ultimo numero della rivista Arcvision, spiega perché non si placa lo stress da crisi: abbiamo compreso, infine, che non viviamo quella che negli anni del boom i giornali chiamavano «congiuntura», ciclo effimero di recessione. E’ piuttosto un «new normal», una nuova realtà, i sussidi su cui contavamo per tenere su aziende e agricolture improduttive, la burocrazia che si poteva sempre dilatare per assumere raccomandati poco qualificati, la spesa pubblica che nutriva città e regioni, la svalutazione che piazzava i nostri elettrodomestici all’estero e le dogane che imponevano in Italia prodotti scadenti ma di monopolio, sono finiti, per sempre.
Auto, servizi, cure mediche, scuola, assicurazioni e pensioni, beni di lusso e confezioni del supermercato, ogni momento del nostro lavoro, dall’arte, alla scienza, al cibo, vivrà di regole e standard mondiali. O siamo capaci di dargli la stessa qualità top che il mercato richiede, e di produrlo nei tempi e ai prezzi che il mondo pagherà, o semplicemente quel bene non sarà più prodotto in Italia (o Francia, India, Messico) e i lavoratori che se ne occupavano resteranno a mani vuote".

Si prospetta dunque un lungo periodo di difficoltà. Tanto più lungo quanto più risulterà arduo metabolizzare culturalmente e politicamente il cambiamento. Intellettuali, politici, sindacalisti e agenzie educative sono chiamati ad uno straordinario esercizio di responsabilità e lungimiranza. Mentre una risoluta lotta ai privilegi ed alle rendite di posizione ingiustificate deve accompagnare le indispensabili riforme strutturali, destinate a creare allarme sociale.




venerdì 31 agosto 2012

I liberali e l'Europa.


Non pochi liberali italiani giudicano negativamente l'Unione Europea e la sua moneta unica, l'euro. Criticano la burocrazia europea, le istituzioni e le regole farraginose, la carenza di legittimazione democratica, l'inefficiente allocazione delle risorse direttamente o indirettamente realizzata, il ruolo della Germania, il peso costituito da una valuta che considerano commisurata ai bisogni dei paesi più influenti e meno fragili sotto il profilo economico. Carlo Stagnaro, dell'Istituto Bruno Leoni, su L'Occidentale (intervista di Edoardo Ferrazzani)  indica invece buone ragioni che dovrebbero indurre i liberali a difendere la moneta unica e a sostenere l'integrazione europea:

"Non credo che la crisi sia necessariamente fatale per l'euro. Anzi, per certi versi la crisi è segno del fatto che l'euro funziona e costringe i paesi che vi aderiscono a rispettare una disciplina finanziaria che precedentemente era sconosciuta a molti di loro. Il malumore anti-euro è spesso figlio di una sorta di "blame game" dei politici europei, che scaricano sulla moneta unica la colpa di un fallimento che invece è tutto delle nostre classe dirigenti: l'incapacità di garantire nei rispettivi paesi un pareggio strutturale di bilancio e la tendenza ad alimentare una spesa pubblica incontrollata, finanziata in buona parte a debito".

"L'Europa per uscire dalla crisi ha un'unica strada, cioè ridurre la spesa pubblica. In questa fase non è tanto una questione di cultura quanto una questione di necessità. Le conseguenze dell'operazione dipendono molto da quanto e come si taglia, ma che si debba farlo almeno un po' è, credo, indiscutibile e chiaro a tutti (inclusi quelli che opportunisticamente vi si oppongono). Sarebbe utile che questo intervento necessario fosse metabolizzato culturalmente, ma non è affatto detto e se accadrà dipende molto dalla maturità del dibattito politico nei vari paesi".

"...se il modello di business di molte imprese è basato anche sull'evasione, difficilmente esse possono crescere, perché crescendo diventano visibili e devono strutturarsi e ciò rende complicato mantenere una parte dei loro ricavi sommersa. Ma l'evasione è a sua volta conseguenza di un fisco troppo oneroso e troppo complicato. Lo stesso vale per lo scarso rispetto di molte norme e regolamenti: per essere davvero rispettati, dovrebbero anzitutto essere rispettabili..."

"Le infrastrutture non servono in assoluto: servono quando sono utili. Generalmente, lo Stato finanzia cattedrali nel deserto. L'Italia dovrebbe lasciare ai privati il compito di investire in infrastrutture, scegliendo quali siano prioritarie, e concentrarsi sull'infrastruttura più importante: creare un quadro giuridico stabile e favorevole agli investimenti".

Nelle parole di Stagnaro si ravvisa il nucleo di un'alternativa liberale per uscire dalla crisi. Tale alternativa dovrebbe comprendere una riforma in senso produttivistico del welfare. "Tre sono gli ingredienti principali di questo modello: priorità all'istruzione e alla formazione; regolazione pubblica (ad esempio, obbligo di assicurazione medica o previdenziale), ma fornitura di prestazioni da parte di soggetti privati, tramite i canali del mercato; copertura gratuita solo per i più poveri (Maurizio Ferrera, Corriere della Sera, 10 maggio 2004)".

E i diritti costituzionali? Leggiamo davvero la Costituzione italiana:

"La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti" (art. 32).

L'Europa e l'Italia in particolare sono di fronte a un bivio. La via sbagliata conduce al declino. Tempi e modi devono essere scelti con attenzione, ma la direzione deve essere quella giusta. 

venerdì 24 agosto 2012

La Chiesa cattolica e gli Ebrei alla vigilia della Seconda guerra mondiale. Enrico Caviglia.

Periodicamente si riaccende la polemica sull'atteggiamento della Chiesa cattolica nei confronti degli Ebrei  e del regime nazista. Nei convulsi anni che precedettero la Seconda guerra mondiale la Chiesa cattolica si oppose fermamente all'ideologia e ai crimini del regime nazista tedesco. Sono da ricordare in particolare l'enciclica Mit brennender Sorge di papa Pio XI e l'eroico comportamento del vescovo Clemens August von Galen, poi cardinale.









La posizione della Chiesa era ben chiara ai contemporanei. Enrico Caviglia, uno dei più brillanti generali del Ventesimo secolo, colto e lucido osservatore, scrisse nel suo diario (I dittatori, le guerre e il piccolo re - Diario 1925 - 1945, 2009, pp. 226 e 227):


10 febbraio 1939

"E' morto il Santo Padre Pio XI...In generale la morte del Pontefice è sentita. Il suo atteggiamento in favore degli ebrei ha fatto un'ottima impressione in tutto il mondo, e l'autorità morale della Santa Sede ha acquistato influenza anche presso le altre religioni.
Oggi il Re è andato verso le 19 a visitare la salma. Mussolini non è andato: forse non ha voluto dare un dispiacere a Hitler".

2 marzo 1939

"In questi ultimi tempi l'autorità della Chiesa è accresciuta in tutto il mondo per aver difeso a viso aperto gli ebrei e la religione. Impressione enorme ha fatto il vecchio Papa, quasi morente, che dà per radio un messaggio a tutto il mondo in difesa degli ebrei. Pacelli fu il suo segretario e consigliere".


L' autorevole giudizio di Caviglia era allora largamente condiviso. Solo dopo la Seconda guerra mondiale, nell'ambito della durissima battaglia politico ideologica, si pose in dubbio ciò che non era dubbio.

mercoledì 15 agosto 2012

La cattiva proposta politica.


In un editoriale sul Corriere della Sera Sergio Romano ha scritto:

" In tempi di crisi economiche e forte conflittualità politica la zona intermedia si è ristretta e le soluzioni più radicali, di destra o di sinistra, esercitano una maggiore attrazione.

Potremmo consolarci pensando che i vincitori saranno costretti a tenere conto della realtà e ad annacquare i loro programmi. Nessuno oggi, nemmeno il presidente degli Stati Uniti, può fare una politica economica che prescinda da una pluralità di incontrollabili fattori esterni, dal futuro dell’euro a quello del sistema politico cinese. Ma un governo che non mantiene le promesse elettorali avrà l’effetto, soprattutto in questo momento, di esasperare le delusioni degli elettori che a quelle promesse avevano creduto e di alimentare i movimenti dell’anti-politica, oggi presenti in tutti i Paesi occidentali. Abbiamo già una grave crisi dell’economia e corriamo il rischio di avere domani, di questo passo, una crisi peggiore: quella della democrazia".

Romano qui pone in evidenza un tema importante. La proposta e la propaganda politiche possono danneggiare durevolmente il processo democratico, possono contribuire a determinare la crisi della democrazia liberale rappresentativa.
Ma il danno si verifica non, come sembra sostenere l'editorialista del Corriere, per la radicalità delle soluzioni proposte o semplicemente quando le promesse elettorali non vengono mantenute. Bisogna essere ben consapevoli del ruolo e delle possibilità della democrazia rappresentativa. Il suo fondamento resta il principio enunciato da Pericle nell'Atene democratica, poi ripreso e teorizzato da Karl Popper nella Società aperta e i suoi nemici : "Benchè soltanto pochi siano in grado di dar vita a una politica, noi siamo tutti in grado di giudicarla". Non tutti possiamo governare, ma tutti possiamo giudicare chi governa.
In una democrazia liberale efficiente l'elettorato non può e non deve contribuire a formulare la politica futura. E' invece giudice della politica realizzata, contribuisce a manutenere tale democrazia mandando a casa i cattivi governi senza spargimento di sangue. "Dar vita a una buona politica" vuol dire fronteggiare rischi ed eventi imprevisti, prendere misure impopolari, compiere scelte che presuppongono conoscenze non diffuse, tener conto della complessità dei problemi e delle normali conseguenze impreviste degli atti di governo. Un governo democratico non può e non deve essere vincolato dalle promesse elettorali. La sua democraticità si esprime nella soggezione al giudizio popolare successivo.
Neppure la radicalità della proposta politica di per sè pone a rischio la libera democrazia. Semmai si rivelano pericolosi i piani troppo estesi, per questo insuscettibili di ripensamenti e correzioni di rotta efficaci. Basti pensare a uno dei principali problemi che affliggono le democrazie occidentali contemporanee: quello di un welfare costoso, insostenibile e deresponsabilizzante.
Il professor Maurizio Ferrera, uno dei migliori esperti italiani di comparazione dei welfare, nel 2011 sul Corriere della Sera ha scritto:

"I diritti sono una cosa seria, ma proprio per questo bisogna riconoscere che non sono tutti uguali. Alcuni (quelli civili e politici) tutelano libertà e facoltà dei cittadini e sulla loro certezza non si può transigere. I diritti sociali sono diversi: conferiscono spettanze, ossia titoli a partecipare alla spartizione del bilancio pubblico, che a sua volta dipende dal gettito fiscale e dal funzionamento dell'economia. Dato che al mondo non esistono pasti gratis, i diritti sociali non possono essere considerati come delle garanzie immodificabili nel tempo. Il loro contenuto deve essere programmaticamente commisurato alle dimensioni della torta di cui si dispone e all'andamento dell'economia e della demografia.
Purtroppo il welfare italiano è stato costruito ignorando questa elementare verità".

Lo stesso Ferrera, sempre sul Corriere, già nel 2004, con lungimiranza ed  esaminando il welfare cinese ha osservato che:

"Se è vero che il fiume dello sviluppo economico porterà il welfare state anche in Asia, non è detto però che si tratti di un welfare all' europea. Non è detto, in altre parole, che le economie asiatiche vedano in futuro esaurirsi il proprio vantaggio comparativo sotto questo profilo. Ciò che sta emergendo in Corea, Taiwan e Singapore è un sistema diverso dal nostro, molto più strettamente integrato con il mercato, tanto che la letteratura specialistica ha coniato il nuovo termine di «welfare state produttivistico». Tre sono gli ingredienti principali di questo modello: priorità all' istruzione e alla formazione; regolazione pubblica (ad esempio, obbligo di assicurazione medica o previdenziale), ma fornitura di prestazioni da parte di soggetti privati, tramite i canali del mercato; copertura gratuita solo per i più poveri. Anche la Cina sembra avviata in queste direzioni: in molti settori è stato ad esempio recentemente introdotto l' obbligo di copertura sanitaria, ma attraverso forme assicurative semi-private. La scelta di una via «produttivistica» al welfare ha in parte motivazioni ideologico-culturali: l' influenza dell' etica confuciana, la tradizione del paternalismo autoritario, oggi gli entusiasmi iperliberisti. In parte si tratta però di motivazioni prettamente economiche: a differenza dei Paesi europei, che hanno storicamente costruito il welfare all' interno di economie protette verso l' esterno, i Paesi asiatici devono incamminarsi verso la protezione sociale in un mondo di scambi e competizione globali".

Esiste una stretta correlazione tra struttura del welfare e attitudine alla crescita di un sistema paese. Un buon governo di fronte a una profonda crisi strutturale del welfare deve intraprendere riforme radicali. Se si sottraesse a questo dovere compromettendo le possibilità di crescita del sistema porrebbe a rischio la democrazia stessa.
Dunque quando la proposta politica diventa cattiva, quando danneggia il processo democratico? Quando rende durevolmente cattiva la domanda politica, quando diseduca l'elettore, lo spinge a non accettare la complessità e la globalità dei problemi, ingenera la convinzione che possano esistere pasti gratis, fuorvia il giudizio sui problemi della finanza pubblica nascondendo i suoi aspetti strutturali insieme più semplici ed importanti, induce ad aspettative insostenibili e tra loro inconciliabili, quando insomma contribuisce a ridurre la capacità dell'elettore di manutenere la democrazia valutando la condotta dei governi che si sottopongono al suo giudizio. Una proposta politica moderatamente demagogica può fare più danni di una proposta saggiamente e responsabilmente radicale. 



domenica 5 agosto 2012

La Russia di Putin e l'Occidente.


Russia OGGI, tramite la Rossiyskaya Gazeta, è uno strumento di informazione e analisi controllato dal governo russo. Il 4 marzo 2012 Vladimir Putin è stato eletto per la terza volta presidente della Federazione Russa. Su Russia Oggi Dmitri Babich ha pochi giorni dopo proposto una lettura della politica estera russa diversa da quella che prevale sui media occidentali. Babich cita il leader comunista Sergej Udalcov, secondo il quale:

"Putin è il politico russo più filo-occidentale...Ha fatto chiudere le basi miliari sovietiche a Cuba e in Vietnam, ha permesso alla Nato di estendersi sui territori dell’ex blocco sovietico con l’adesione delle Repubbliche baltiche nei primi anni del 2000, e infine ha investito i soldi del bilancio del Paese in buoni del tesoro americani”.

L'analisi di Babich continua così:

"Con grande dispiacere dei nazionalisti russi, le parole di Udalcov corrispondono alla realtà. Le altre mosse “amichevoli” di Putin nei confronti dell’Occidente comprendono l’autorizzazione allo schieramento di basi americane in Asia Centrale nel 2001 e la cooperazione con i Paesi Occidentali nella lotta contro i talebani in Afghanistan".

"Ma allora perché la politica di Putin è definita anti-occidentale? “I media stanno alimentando un mito che hanno creato loro stessi”, scrive il giornalista russo Stanislav Belkovskij, che critica Putin per ciò che egli chiama la sua “posizione nazional-democratica”. “Putin è tutto fuorché un nazionalista. Sotto la sua direzione, la Russia è passata dall’essere una potenza mondiale a un Paese tranquillo che ha solo ambizioni politiche a livello regionale, e persino queste non sono aggressive. È stata l’insistenza dei mezzi di comunicazione occidentali che, con il passare degli anni, ha fatto sì che la gente pensasse inconsciamente a Putin come a una figura bellicosa".

"La “nuova Russia di Putin” non cercherà di entrare in conflitto con l’Occidente. La “nuova Russia di Putin” vuole solo diventare un Paese normale e noioso con un’opposizione non radicale, senza “un’alternativa rivoluzionaria” e intrattenere relazioni di buon vicinato con i Paesi circostanti. I rapporti con l’Occidente si guasteranno solo qualora l’Occidente cerchi di imporre sulla Russia “un’alternativa rivoluzionaria”".

Recenti sviluppi sembrano, nella sostanza, in qualche misura corroborare la visione di Babich. Si rifletta, in particolare, sull'incremento della presenza americana nelle repubbliche ex sovietiche dell'Asia centrale. " L'Uzbekistan ha deciso di uscire dall'Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva (Csto), alleanza militare difensiva guidata da Mosca, per dare nuovo impulso alla cooperazione militare con gli Stati Uniti (Analisi Difesa)". Ciò senza apparentemente far lievitare l'irritazione del governo russo. Significativo, in questo senso, l'atteggiamento di un'altra fonte di informazione governativa, La Voce della Russia, che supporta la campagna per la rielezione di Obama. E' infine di questi giorni la notizia della concessione alla NATO di un "corridoio" sul territorio russo.
Tutto risolto dunque nei rapporti Russia - Occidente? Certamente no. Tra i punti di attrito sono da segnalare per importanza le situazioni di crisi in Medio Oriente, la questione dei diritti umani in Russia e lo scudo antimissile europeo. Ma senza il retaggio della propaganda dell'era sovietica, che ancora segna le rispettive opinioni pubbliche, e senza le insufficienti prestazioni del modello socio - economico occidentale, che spaventano i leaders russi, potrebbe meglio emergere ed esercitare la propria influenza la comunanza di interessi fondamentali. La potenza cinese e il fondamentalismo islamico sono destinati, con buona probabilità, a riavvicinare Occidente e Russia, in passato resi nemici dall'ideologia marxista leninista.


Visite