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lunedì 4 giugno 2012

La memoria delle generazioni.

                                                                                                        www.cinetivu.com
Sul Corriere della Sera il professor Angelo Panebianco con l'abituale lucidità ha scritto:

"Se cerchiamo le cause profonde della crisi dell'Europa, possiamo forse identificarne una più generale e una più specifica. La più generale consiste nel «ciclo generazionale». La più specifica nell'incapacità delle élite europeiste di fare i conti con le credenze del common man, dell'uomo comune europeo.
                                                                 
 Per ciclo generazionale si intende una regolarità tante volte all'opera nella storia. A una fase di grandi disordini (guerre interstatali e civili) segue una lunga fase di pace e ordine. Coloro che hanno vissuto l'età del disordine e ricordano le morti violente e il senso di costante insicurezza, coloro che sentono ancora, se chiudono gli occhi, l'odore della paura per la sopravvivenza propria e dei propri cari, si adoperano perché quei tempi non tornino più. Ne seguiranno sforzi individuali e collettivi tesi ad assicurare una forma di «pace perpetua» (dentro le società e fra le società affini), un ordine che si spera di costruire su basi solide. I figli di coloro che hanno vissuto nell'età del disordine ne continuano l'opera. Non hanno conosciuto direttamente quella età (o erano troppo piccoli per averne un ricordo distinto) ma sono stati influenzati dai racconti dei genitori. Da quei racconti hanno appreso che l'ordine societario è una fragile cosa, che l'età del disordine potrebbe tornare spezzando di nuovo vite e progetti di vita, sogni e desideri. L'ordine si mantiene grazie allo sforzo della nuova generazione. Possono anche insorgere, qua o là, minoranze violente (terrorismo) ma verranno sconfitte. I padri sono ancora lì a ricordare a tutti l'esperienza vissuta nell'età del disordine.

Poi, a poco a poco, scompaiono tutti quelli che hanno avuto esperienza diretta di quei tragici tempi. Per i loro nipoti non c'è ormai differenza fra le guerre puniche e il nazismo o la Seconda guerra mondiale. Cose che appartengono a epoche lontane, che si studiano a scuola, irrilevanti per la loro personale esperienza. Le inibizioni che hanno condizionato le generazioni precedenti si dissolvono. Non c'è più memoria dell'antica barbarie. Il rischio di una nuova età del disordine diventa elevato".

La perdita di memoria generazionale ha un rilievo generale ed è ben nota anche al Magistero della Chiesa cattolica. Benedetto XVI, nella sua Lettera enciclica SPE SALVI, 24, ha insegnato che:

"Innanzitutto dobbiamo costatare che un progresso addizionabile è possibile solo in campo materiale. Qui, nella conoscenza crescente delle strutture della materia e in corrispondenza alle invenzioni sempre più avanzate, si dà chiaramente una continuità del progresso verso una padronanza sempre più grande della natura. Nell'ambito invece della consapevolezza etica e della decisione morale non c'è una simile possibilità di addizione per il semplice motivo che la libertà dell'uomo è sempre nuova e deve sempre nuovamente prendere le sue decisioni. Non sono mai semplicemente già prese per noi da altri – in tal caso, infatti, non saremmo più liberi. La libertà presuppone che nelle decisioni fondamentali ogni uomo, ogni generazione sia un nuovo inizio. Certamente, le nuove generazioni possono costruire sulle conoscenze e sulle esperienze di coloro che le hanno precedute, come possono attingere al tesoro morale dell'intera umanità. Ma possono anche rifiutarlo, perché esso non può avere la stessa evidenza delle invenzioni materiali".

Tale perdita di memoria si estende a situazioni e principi fondamentali dell'economia. Mentre talune generazioni sanno che non esistono pasti gratis, che per ogni pasto c'è sempre chi paga il conto, altre non acquistano consapevolezza dei necessari fattori di uno sviluppo economico durevole, vitale e benefico per molti.
Così, nella vita democratica, l'addestramento ad una libertà responsabile e la capacità, richiesta agli elettori, di manutenere adeguatamente le istituzioni rappresentative sono difficili da acquisire ed ancor più da trasmettere alle generazioni successive, essendo largamente dipendenti dall'esperienza.
Meno condivisibile pare la mancanza di fiducia nella scuola manifestata da Panebianco. Essa non riesce a contribuire alla formazione di cittadini liberi, responsabili, produttori di ricchezza diffusa, perchè contenuti e metodi educativi sono fuorvianti ed inefficaci. Senza metodi selettivi e premio del merito, senza programmi realistici e commisurati alle esigenze del lavoro e dell'impresa, senza esercizio concreto della libertà responsabile, gli obiettivi indicati restano irraggiungibili.
Anche il ruolo degli intellettuali non deve essere trascurato. La diretta o indiretta esperienza generazionale, nei termini esposti da Panebianco, è importantissima. Ma storici, giornalisti, protagonisti del dibattito pubblico che influenzano l'opinione pubblica, hanno precise responsabilità. Essi possono fornire modelli e narrazioni entro certi limiti idonei a surrogare tale esperienza, a circoscrivere i danni prodotti dalla sua mancanza. Assistiamo invece al frequente "tradimento dei chierici", sempre meno attratti dalla verità e dal suo servizio.

martedì 29 maggio 2012

Crisi. Cercare le cause per trovare le soluzioni.




Questo è il trailer di Margin Call, un film americano proprio in questi giorni nelle sale italiane.  Protagonisti, ancora una volta, banchieri senza scrupoli che per avidità ed incompetenza innescano una crisi devastante. Con opere analoghe forma ormai un vero e proprio sottogenere cinematografico, pur distinguendosi per il coinvolgente realismo e l'assenza del sovraccarico etico didascalico che caratterizza altri prodotti.
La prima fase della crisi, finanziaria, ha colpito duramente gli Stati Uniti. Qui l'attenzione dell'opinione pubblica si è subito concentrata sull'alta finanza e sulle banche. Nell'Eurozona il debito pubblico è imponente, la crescita economica insufficiente. La crisi si è estesa alle finanze pubbliche, coinvolgendo la moneta unica. Pesante è la caduta dell'occupazione, soprattutto giovanile.
Chi sono i colpevoli? Secondo l'opinione prevalente banchieri senza scrupoli, grandi investitori internazionali, tedeschi prepotenti e, in Italia, politici corrotti e sperperatori del denaro pubblico, evasori fiscali. Questa visione largamente condivisa coglie aspetti fondamentali della crisi che ci affligge, ma probabilmente  non ne individua le ragioni profonde, le radici più nascoste e lontane. Si rivela allora prezioso il lavoro degli osservatori meno preoccupati di compiacere l'opinione pubblica. Tra essi Piero Ostellino, che in lungo editoriale sul Corriere della Sera scrive:

" Siamo finiti nei guai, con la crisi del debito sovrano, non per l’evasione fiscale, la corruzione, bensì perché la spesa pubblica si è dilatata per sovvenzionare un modello di welfare «ormai morto» (copyright Mario Draghi), ubbidendo a un’istanza morale, la giustizia sociale".

"La crescita non la si produce per decreto, ma allargando i confini entro i quali si concretano l’autonomia e le capacità creative della società civile. Lo statalismo, qui, non è la soluzione, ma il problema. Si metta, dunque, mano alla riforma dello Stato— dal quale anche il liberalismo non può prescindere, anzi— partendo dalla revisione del suo Ordinamento giuridico, ripristinando lo Stato di diritto, oggi latente, non per aggiungere ai troppi divieti e regolamenti che riducono il cittadino a suddito altri divieti e altri regolamenti, bensì nel segno dell’individualismo metodologico, cioè del primato della centralità e dell’autonomia della Persona".

Ostellino chiama in causa correttamente non solo l'Ordinamento, ma la visione morale e politica che lo ha ispirato. Essa, volgarizzata e diffusa, accompagna però sempre più condotte di vita irresponsabili, contribuendo a creare e legittimando aspettative insostenibili.
Pare ragionevole dubitare che "l'autonomia e le capacità creative della società civile", non più sorrette da adeguate cultura e tradizioni, siano in grado di rendere il sistema Italia di nuovo competitivo. 
"La prevalenza del principio di realtà sul moralismo, delle «dure repliche della storia» sul dover essere" si concreta appunto, purtroppo, nella determinante perdita di competitività che contraddistingue molta produzione Italiana. Se anche il nostro consumatore potesse e volesse spendere di più, comprerebbe prevalentemente beni e servizi prodotti all'estero.
Considerazioni in parte analoghe valgono per la maggior parte delle altre democrazie occidentali. Il declino non è inevitabile. Ma l'opinione pubblica deve conseguire una visione insieme più profonda e realistica dei problemi, accettarne la complessità, comprendere l'amara asimmetria della costruzione/distruzione sociale. Tradizioni, istituzioni, corpi intermedi, capacità produttive, cultura si deteriorano non raramente in pochi anni. Ma per risorgere e rinnovarsi hanno bisogno di molto tempo.

martedì 22 maggio 2012

Economia sociale di mercato islamica.


Su AsiaNews un'attenta analisi di un fenomeno emergente: la politica economica dei movimenti islamici.

"Saliti al potere nei Paesi della Primavera araba, i partiti islamici cercano soluzioni per rilanciare l’economia degli Stati islamici. Per Fawaz A Gerges, docente di relazioni internazionali alla London School of Economics, il capitalismo liberista è il nuovo modello utilizzato dagli islamisti dopo anni di socialismo. La Turchia faro dei nuovi movimenti islamici".

"Dopo le rivolte che hanno sconvolto il mondo arabo, gli islamisti e gli attivisti religiosi stanno prendendo il potere in Nord Africa e Medio Oriente".

"I partiti islamisti stanno diventando sempre di più degli "erogatori di servizi" a conferma che la loro legittimità politica e la probabilità di rielezione si basa sulla capacità di offrire posti di lavoro, crescita economica e trasparenza. Ciò ha introdotto un enorme livello di pragmatismo nelle politiche dei movimenti di ispirazione religiosa".

"Lo sviluppo economico della Turchia ha avuto un forte impatto sugli islamisti arabi, molti dei quali vorrebbero emulare il modello turco... Il modello offerto da Ankara, che ha il suo perno nella borghesia osservante, ha fatto emergere che islamismo e capitalismo sono compatibili e si rafforzano reciprocamente".

"...ciò che distingue i gruppi di ispirazione religiosa da quelli di sinistra o nazionalisti è una spiccata sensibilità verso gli affari, compresa l'accumulazione di ricchezze e l'economia di libero mercato. L'islamismo è un movimento borghese composto in gran parte dai professionisti della classe media, uomini d'affari, negozianti, commercianti e piccoli imprenditori".

"Fra i radicali islamici, l'approccio interventista è appoggiato soprattutto dai salafiti, che chiedono con forza l'utilizzo di misure di ridistribuzione della ricchezza per ridurre la crescente povertà. Tuttavia, per la maggior parte degli islamisti l'approccio dominante all'economia, con poche variazioni, è il capitalismo di libero mercato".

Non pochi osservatori di questo importante fenomeno hanno visto analogie con l'economia sociale di mercato tedesca, teorizzata da Wilhelm Roepke.

In questa "la competizione e il gioco della domanda e dell'offerta non producono per noi tutte quelle risorse «morali» di cui abbiamo bisogno". Il mercato deve "essere controllato e «moderato» - ma, attenzione, non dallo Stato, bensì dall'etica di quanti volontariamente contribuiscono al buon funzionamento del mercato stesso".

Il disegno dei partiti islamici incontra in questa prospettiva parecchi ostacoli. Prima di tutto la grave situazione sociale e politica. La cosiddetta "Primavera araba" ha travolto regimi autoritari più o meno laici, ma il nuovo stenta a decollare. I movimenti islamici hanno sviluppato robuste reti assistenziali, radicate nel territorio. Questo impegno e la prolungata opposizione ai vecchi regimi spiegano la presa sull'elettorato. Ma la borghesia professionale e gli imprenditori urbani restano minoranza. In milioni di contadini, giovani senza lavoro, abitanti delle periferie delle grandi città convivono la richiesta di sviluppo e benessere rivolta al potere pubblico e la insufficiente consapevolezza delle difficoltà.
I principi religiosi e le tradizioni pongono seri problemi. Se il divieto di corrispondere interessi  e l'obbligo di ancorare la finanza all'economia reale rappresentano elementi compatibili con l'auspicato sviluppo, la tradizionale tendenza a far coincidere le regole religiose con le norme civili, i peccati con i reati, può determinare rigidità insostenibili. Anche il ruolo riservato alle donne dalla tradizione può ostacolare il conseguimento dei risultati sperati.
Se dunque il cosiddetto mercato sociale trova in principi morali, tradizioni e corpi sociali intermedi adeguati il presupposto della propria stessa esistenza e la condizione di un positivo ruolo e sviluppo, occorre evitare un giudizio affrettato ed acritico sulle tendenze in atto nelle variegate società islamiche.
Ma se il modello turco, pure non privo di fragilità e debolezze, si affermasse estesamente, una ulteriore importante sfida verrebbe lanciata alle economie occidentali in crisi. Un motivo in più per accelerare le riforme strutturali indispensabili per colmare un divario di competitività ogni giorno più pesante.

mercoledì 16 maggio 2012

Crisi: competitività, consumi e occupazione.


Nel febbraio 2011, quando ancora era il più autorevole candidato alla guida della BCE, Mario Draghi ha concesso un' intervista a Tobias Piller, giornalista tedesco molto noto in Italia. In questa occasione ha discusso i nodi della crisi, diventata oggi più assillante.
A più di un anno di distanza il dibattito pubblico, segnato da un miope eurocentrismo, si concentra sul rapporto tra "rigore" e crescita, senza porre in primo piano il tema della competitività. Mentre invece proprio dall'insufficiente competitività dipende la stagnazione/recessione in atto.

PILLER:

"Accanto alla disciplina di bilancio cos'è necessario per la sopravvivenza dell’unione monetaria?".

DRAGHI:

"La seconda importante condizione è che tutti i paesi conducano riforme strutturali per accelerare la crescita economica. La crescita è la seconda colonna sulla quale si costruisce la stabilità finanziaria".

PILLER:

"Se si seguono le sue idee, la Germania non dovrebbe avere paura di perdere competitività in una europeizzazione della politica economica?".

DRAGHI:

"Al contrario, noi tutti dobbiamo seguire l'esempio della Germania e questo l’ho detto apertamente in diverse occasioni. La Germania ha migliorato la propria forza di competitività portando avanti riforme strutturali. Deve essere questo il nostro modello".

La crisi attuale può essere fronteggiata con successo soltanto affiancando alla disciplina dei bilanci pubblici incisive riforme strutturali capaci di rendere più competitivi le imprese ed il sistema paese intero.
Riduzione del carico fiscale e contributivo su imprese e lavoro, riforma dello stato sociale e della pubblica amministrazione, snellimento della burocrazia, diminuzione dei costi dell'energia, liberalizzazioni, revisione delle leggi sul lavoro e riassetto delle relazioni sindacali. Tutto questo è necessario per promuovere una crescita economica sana e vitale, alimentata dalla ripresa degli investimenti privati.
Lo stesso Tobias Piller, in un suo recente intervento su Panorama del 16 maggio 2012, ha presentato la questione, che rischia di apparire astratta, in termini assai realistici :

" anche se l’Italia potesse e volesse aumentare la spesa e il debito, per sostenere i consumi, sarebbe solo un nuovo spreco. Andrebbe ad arricchire coreani, cinesi, tedeschi. Perché se dai 1.000 euro a un italiano, cosa ne farebbe? Per semplificare, si compra un iPhone Apple prodotto in Cina, un televisore Samsung dalla Corea, paga la prima rata per un’auto tedesca o coreana, o forse spende per una breve vacanza a Sharm el-Sheikh. E quanto rimane in Italia, se i prodotti italiani (o le mete turistiche) non sono competitivi neanche di fronte ai consumatori italiani? E quali sono gli effetti sull’occupazione, se i produttori di successo, quando crescono, assumono solo per nuove fabbriche fuori dall’Italia? Bisogna prima fare le riforme «supply side», per un’Italia più competitiva, poi la spinta alla domanda porta anche soldi all’Italia".

La questione della competitività nella economia globalizzata deve essere posta al centro del dibattito pubblico e compresa a fondo dai cittadini, chiamati a sacrifici che potrebbero rivelarsi altrimenti inefficaci. Del resto solo la realizzazione di tali riforme strutturali può attenuare la pressione della finanza internazionale, che non si lascia ingannare dai conigli usciti dal cappello delle banche centrali e dei governanti illusionisti.                                                                                                                                                                                                                             

mercoledì 9 maggio 2012

Crisi. Chiarezza sulle cause e sui numeri.





Adriana Cerretelli sul Sole24ore di oggi ha espresso il pensiero di molti:

"Basta Europa dei prepotenti, dei padroni che riconoscono solo la legge del più forte. Basta con l'Unione degenerata in una piramide feudale, in cima un grande Stato, l'unico davvero sovrano, e sotto la pletora di vassalli, valvassini e valvassori agli ordini. Basta con l'Europa inconcludente dei proclami: scandalosa quando la crisi economica morde, l'austerità fa il resto e il lavoro si trova sempre meno".

"Senza però una crescita economica tangibile, e non declamatoria, senza nuovi posti di lavoro, ponti e autostrade trans-europee, reti digitali ed energetiche, in breve senza l'Europa delle opportunità e della speranza al posto di quella del rigore e della disperazione, dalla palude non si esce".

La Germania è prepotente, il rigore è ottuso, l'indispensabile crescita si ottiene allentando le redini che frenano la spesa pubblica e consentendo all'Unione Europea di emettere obbligazioni per realizzare infrastrutture. Ma è davvero così? Quali sono le reali cause della crisi? E' possibile un accordo sui suoi numeri? Nei giorni scorsi Irene Tinagli, Nicola Rossi e Luca Ricolfi, squarciando il conformismo che vela lo sguardo dell'opinione pubblica, hanno individuato nella bassa produttività, nell'insufficiente competitività, nelle eccessive spesa pubblica e pressione fiscale le principali cause della crisi italiana.

Tinagli:

"Se l’Italia non è in grado di trasformare in maniera efficiente i suoi fattori produttivi in prodotti e servizi competitivi sui mercati internazionali (e farlo su larga scala, non in pochissime nicchie), non possiamo aspettarci che aumentino le retribuzioni, il Pil, i consumi e quant’altro".

Ricolfi:

"Quel che è venuto a mancare, dagli Anni 90, è invece l’hardware del Paese, ossia quell’insieme di condizioni materiali che permettono di fare impresa e competere con gli altri Paesi: buone infrastrutture, prezzi dell’energia competitivi, contributi sociali ragionevoli, basse aliquote societarie. Insomma, cose molto prosaiche, ma che fanno la differenza, ad esempio convincendo gli investitori stranieri a creare posti di lavoro nel nostro Paese".

Rossi:

"...l’obbiettivo è invece la modifica sostanziale della “way of life”, del modo di essere del settore pubblico italiano. La chiusura di parte dei programmi di spesa esistenti. La ridefinizione dell’ambito d’azione e di intervento dello Stato".

Le considerazioni di Cerretelli paiono fuorvianti. Nuove infrastrutture sono necessarie per incrementare produttività e competitività. Ma la loro realizzazione quanto incide su tali parametri? Quali altre misure sarebbero necessarie? Come ridurre la spesa pubblica e la pressione fiscale?
La crisi è internazionale e richiede risposte nazionali e sovranazionali. Direttamente o indirettamente saranno giudicate dagli elettori, che possono sfuggire all'abbraccio fatale delle illusioni solo disponendo di indicazioni chiare e di numeri condivisi. Chi professionalmente ha il compito di informare ed educare deve essere ben consapevole del proprio ruolo e delle proprie responsabilità.





martedì 1 maggio 2012

Italia in crisi. Diversamente moderni.




Ernesto Galli della Loggia (Tre giorni nella storia d'Italia, 2010, pp. 8-11) ha lucidamente osservato che:

"Pur con molti tratti particolari, l'Italia che nel 1914 si affacciava alla modernità era tutto sommato - nel suo impianto civile, amministrativo e di governo, nei suoi ideali - un paese molto simile agli altri della parte d'Europa che era la sua. Anche perchè, essendo arrivato all'Unità quasi spoglio di tradizioni e di un passato statale significativo, esso aveva dovuto prendere a prestito da altri paesi e trapiantarli in casa propria istituzioni, leggi, modelli organizzativi".
"... avevamo "copiato" da Francia e Germania soprattutto: e ci era riuscito senza troppe difficoltà".
"Dopo il primo conflitto mondiale, invece, inizia un'esperienza novecentesca che sempre più farà dell'Italia un paese con caratteristiche proprie e distinte".

"...essa produce e vede in un ruolo centrale, nel Novecento, alcune culture politiche delle quali, prese nel loro insieme, sarebbe difficile trovare un corrispettivo altrove: il nazionalfascismo, un certo cattolicesimo politico, il socialismo massimalista, il comunismo gramsciano; alle quali non sarebbe forse improprio aggiungere il berlusconismo, che pure si presenta come, e in certo senso è, il superamento di tutte le precedenti".
"...per l'intero arco del Novecento italiano...tutte le culture della nostra tradizione politica... hanno condiviso...un progetto di modernizzazione ideologicamente mobilitante e guidato pedagogicamente dalla politica e dalle sue élite in nome di forti esigenze di carattere collettivo (vuoi nazionale, vuoi sociale, vuoi religioso)".

A questa evoluzione corrispondono l'affermazione del regime mussoliniano, la Resistenza egemonizzata dal partito comunista, la nascita della Repubblica dei partiti, che per lunghi decenni hanno gestito direttamente una parte importante dell'economia italiana, la democrazia bloccata. A tale evoluzione sono pure connessi la distribuzione geografica della popolazione sul territorio e il tessuto produttivo imprenditoriale. Su La Stampa Irene Tinagli sottolinea le peculiarità italiane: 

" Il 66,4% degli italiani vive in città piccole o medie, con meno di 50.000 abitanti, e solo il 22,8% vive nelle 45 città italiane con oltre 100.000 abitanti.

Non solo, ma questo dato fa parte di un trend che va rafforzandosi. I Comuni di dimensione medio-piccola (tra 5 mila e 20 mila abitanti) hanno aumentato la popolazione dell’8,1% (un valore quasi doppio rispetto a quello nazionale).

Quelli di medie dimensioni del 5,2%, mentre nei Comuni grandi la popolazione è rimasta pressoché stazionaria (0,2%). Le grandi città, in sostanza, perdono abitanti mentre sono quelle medie e piccole ad attrarne.

Questi dati colpiscono molto perché sono in controtendenza con quanto avviene nel resto del mondo. Da diversi anni ormai molti osservatori internazionali hanno evidenziato una forte crescita delle grandi città. Un fenomeno trainato non solo dallo sviluppo dell’Asia e di altri Paesi emergenti con le loro megalopoli da decine di milioni di abitanti, ma anche dalla rinascita di molte città occidentali, americane ed europee.

Una rinascita legata sostanzialmente a due fenomeni. Da un lato alla trasformazione del sistema economico globale, che ha visto l’emergere di nuovi settori industriali legati ai servizi avanzati, alla creatività, l’innovazione e al design – tutte cose che non solo non hanno bisogno di grandi fabbriche nelle periferie, ma che anzi traggono beneficio dalla prossimità a servizi, aziende, professionisti e attività «complementari» alle proprie. Dall’altro lato al parallelo cambiamento nella struttura occupazionale di molti Paesi, con l’aumento del peso di professionisti, manager, designer, ingegneri ed altre professionalità altamente qualificate. Persone che, come mostrano molti studi, tendono a preferire uno stile di vita «urbano», con più servizi e con maggiori attività ricreative e culturali a disposizione".

Nel  nostro paese i servizi avanzati e le professionalità altamente qualificate non hanno trovato un ambiente favorevole. Ciò ha concorso a frenare la crescita economica e civile. Ma si deve rilevare che, negli altri paesi con cui ci misuriamo, tali servizi e professionalità non hanno rappresentato una valida e durevole soluzione dei problemi occupazionali se ad essi non è stata collegata una forte produzione manifatturiera di qualità.
Come nei primi decenni dopo la sua unificazione l'Italia può e deve guardare fuori dei propri confini per correggere i propri errori e non ripetere quelli commessi da altri. I rigurgiti nazionalisti e le ossessioni identitarie sono da respingere, ma vanno coltivate le attività non delocalizzabili e le esistenti reti manifatturiere capaci di rispondere alla sfida della globalizzazione.
La Germania ha saputo coniugare lo sviluppo di servizi e professionalità avanzati con una solida e competitiva industria manifatturiera di qualità. Come già nell'Italia giolittiana il sistema tedesco rappresenta  per il paese in larga misura un modello da imitare.


domenica 22 aprile 2012

Crisi. La via delle illusioni.



Dopo Francia e Austria anche l'Olanda appare in qualche affanno sotto i colpi della crisi. Il salotto buono dei paesi più virtuosi dell'Eurozona è sempre meno frequentato. La Germania resta ormai in compagnia soltanto di Finlandia e Lussemburgo. Cosi Vito Lops sul Sole 24 Ore:

"La Tripla A dell'Olanda è a rischio. Il debito elevato e le difficoltà nel tenere sotto controllo il deficit potrebbero portare i Paesi Bassi fuori dal prestigioso club dei Paesi più affidabili dell'Eurozona".

"Nella lounge della Triple A rimarrebbero solo tre posti: Germania, Lussemburgo e Finlandia"

"...la congiuntura economica ha voltato le spalle anche alla virtuosa Olanda, entrata ufficialmente in recessione nel secondo semestre del 2011. Senza dimenticare, come ricorda il Wall Street Journal, che sul Paese incombe la spada di Damocle dei debiti ipotecari, balzati oltre il 100% del Prodotto interno lordo. Una preoccupazione non di poco conto dato che i prezzi delle case hanno imboccato la strada al ribasso dal 2008".

Complessivamente il PIL dei tre paesi primi della classe citati è circa un terzo del PIL dell'intera Eurozona. La Germania è ormai vicina al pareggio di bilancio, ma lo stock del debito pubblico rimane imponente. Il suo valore assoluto è superiore a quello italiano. Includendo passività da considerare pubbliche, è ormai oltre il 90% del PIL. Si consideri inoltre che paesi come Francia, Austria e Olanda non hanno intere regioni devastate dalla criminalità organizzata e non offrono il tragicomico spettacolo italiano dello sperpero del denaro pubblico e di una pubblica amministrazione gravemente inefficiente. Evidentemente soffrono gli effetti di un welfare insostenibile.
Se questi sono i termini quantitativi e qualitativi della crisi finanziaria europea, paiono illusorie le terapie oggi invocate da molti. Mutualizzazione dei debiti, eurobond, eliminazione dei vincoli imposti alla Banca Centrale Europea renderebbero agli occhi degli investitori internazionali più debole la Germania, solida ma troppo piccola per caricare sulle proprie spalle il fardello finanziario europeo, senza migliorare apprezzabilmente le prospettive di crescita delle economie del resto dell' area, appesantite dall'insufficiente competitività, non compensata davvero neppure da un indebolimento dell'euro. Basti pensare all'aumento conseguente dei costi delle materie prime, energetiche e non, dei semilavorati e dei prodotti tecnologici di ampio consumo che non vogliamo o non sappiamo più produrre.
In una recente intervista la cancelliera tedesca Angela Merkel ha chiarito la propria visione:

"L’Europa ha bisogno di più crescita e più occupazione: anche in futuro deve potersi affermare nella concorrenza mondiale. Io voglio che l’Europa, anche fra venti anni, sia apprezzata per il suo potenziale innovativo e per i suoi prodotti. Si tratta di come noi riusciremo ad affermarci in futuro nell’era della globalizzazione, e quindi a garantire anche in futuro il nostro benessere".

"Noi siamo solidali, non dobbiamo però neppure dimenticare la responsabilità propria. Sono due lati della stessa medaglia. Non ha senso promettere sempre più soldi, senza combattere contro le cause della crisi".

"Con tutti gli aiuti miliardari ed i meccanismi salva stati, noi in Germania dobbiamo fare attenzione che alla fine, neppure a noi, vengano a mancare le forze, perché neanche le nostre possibilità sono infinite, e questo non servirebbe a nessuno in Europa".

"...non sarebbe utile a nessuno se la Germania si indebolisse. Ovviamente, col tempo dobbiamo correggere gli squilibri in Europa, per raggiungere questa meta sono gli altri Paesi che devono aumentare di nuovo la loro competitività e non la Germania che deve diventare più debole".

"Non voglio un’Europa museo di tutto ciò che una volta era valido, bensì un’Europa in cui con successo si creano novità. So che per molti questo comporta un cambiamento molto, molto grande, dobbiamo quindi sostenerci a vicenda. Ma se ci tiriamo indietro dinanzi a questi sforzi, siamo solo gentili tra di noi e annacquiamo ogni tentativo di riforma, allora sicuramente rendiamo un pessimo servizio a l’Europa".

Merkel chiama l'Europa intera ad incrementare competitività e innovazione, a riformare welfare e legislazione del lavoro. Un richiamo severo che ai nostri orecchi poco avvezzi al discorso realistico può sembrare pura espressione di una teutonica inclinazione a dominare. Ma fortunatamente ci sono anche intellettuali italiani capaci di indicare all'opinione pubblica percorsi non illusori di uscita dalla crisi.
Tra questi:

Nicola Rossi

"... l’attuale modo di essere del settore pubblico italiano ammette solo due possibilità: moderata crescita ed alto debito (come negli anni ottanta) o finanze pubbliche in ordine, elevata pressione fiscale e nessuna crescita. La prima strada è per fortuna preclusa. La seconda è quella scelta dai governi degli ultimi quindici anni. Incluso l’attuale. Auguri!".

"l’obbiettivo è invece la modifica sostanziale della “way of life”, del modo di essere del settore pubblico italiano. La chiusura di parte dei programmi di spesa esistenti. La ridefinizione dell’ambito d’azione e di intervento dello Stato".

"Come può non essere pronto a regole vere di responsabilità fiscale un paese soffocato da una pressione fiscale nominale del 45% e reale del 55% a fronte della quale si fatica a trovare i corrispondenti servizi pubblici?".

Luca Ricolfi

"Spiace dovere battere così spesso sul medesimo ferro, ma mi pare davvero una generosa illusione quella di pensare che per uscire dalla stagnazione l’Italia abbia oggi bisogno innanzitutto di cambiare il suo software (il suo modo di pensare), e non sia invece il suo hardware (la macchina della sua economia) che è diventato un ferrovecchio. L’Italia è sempre stata priva di spirito civico, o capitale sociale, ma questo fragile software - fino a venti anni fa - non le ha impedito di crescere di più delle altre economie avanzate, fino a conquistare il benessere che ora stiamo cominciando a perdere. Quel che è venuto a mancare, dagli Anni 90, è invece l’hardware del Paese, ossia quell’insieme di condizioni materiali che permettono di fare impresa e competere con gli altri Paesi: buone infrastrutture, prezzi dell’energia competitivi, contributi sociali ragionevoli, basse aliquote societarie. Insomma, cose molto prosaiche, ma che fanno la differenza, ad esempio convincendo gli investitori stranieri a creare posti di lavoro nel nostro Paese".

"È vero, i mercati sono diventati «animali molto sensibili», e i segnali, gli umori, le emozioni, sono diventate cose sempre più importanti nel mondo di oggi. Ma non tutta l’economia è finanza (per fortuna) e, alla fine, quel che conta davvero - quel che sposta i capitali e fa vincere sui mercati - sono i costi di produzione. Da un governo tecnico, per di più pieno di economisti, non mi sarei mai aspettato tanta attenzione alle impalpabili vicissitudini dell’animo umano, e tanto poca considerazione per la dura, concreta, pietrosa, realtà di chi produce e cerca di stare sul mercato".

Maurizio Ferrera

"Più di due milioni di lavoratori disoccupati, quasi tre di scoraggiati, crescita sotto zero: l'Italia non sta bene. I governi dell'Unione Europea stanno consegnando a Bruxelles i nuovi Programmi nazionali di riforma (Pnr). La distanza dai Paesi con cui ci confrontiamo è enorme. I nostri punti di partenza erano già molto bassi due anni fa, quando fu lanciata la Strategia «Europa 2020» per rendere l'Unione competitiva. Da allora non abbiamo fatto altro che peggiorare".

"...serve una politica esplicita e coerente per l'inclusione di quanti sono rimasti fuori dal mondo del lavoro. Altrimenti si corre il rischio che, se e quando la crescita arriverà, i suoi effetti si facciano sentire solo all'interno delle tradizionali cittadelle. Nell'agenda del Pnr manca una riforma (migliorativa) che sarebbe essenziale: quella dell'assistenza, delle politiche e dei servizi alla persona. La spending review , la revisione della spesa, il riordino del fisco e la revisione dell'Isee (lo strumento che seleziona i beneficiari delle agevolazioni in base alla situazione economica) potrebbero fornire le risorse necessarie".

Irene Tinagli

"Il vero problema, come indicava Draghi e come ha ribadito un paio di giorni fa l’attuale governatore Visco, risiede nella produttività. Proprio la Banca d’Italia in uno studio sui primi dieci anni di Unione Monetaria (1998-2008) ha mostrato come la produttività sia aumentata del 18% in Francia, del 22% in Germania e del 3% in Italia.
Se l’Italia non è in grado di trasformare in maniera efficiente i suoi fattori produttivi in prodotti e servizi competitivi sui mercati internazionali (e farlo su larga scala, non in pochissime nicchie), non possiamo aspettarci che aumentino le retribuzioni, il Pil, i consumi e quant’altro".

Gian Maria Gros-Pietro

"ciò non vuol dire che i mercati finanziari si regolino sulla bussola dell'economia reale; ad essi interessano primariamente gli inevitabili effetti finanziari, che cercano di prevedere e anticipare nelle quotazioni: in questo caso scontano un'ulteriore flessione dell'attività in Europa, un conseguente appesantimento delle finanze pubbliche locali, quindi un minor valore dei titoli di Stato di cui si sono imbottite le banche europee, che pertanto sono le più bersagliate dalle vendite".

"È sempre più intollerabile assistere alla continua aggiunta di pesi – imposte, accise, adempimenti – e riduzione di trasferimenti verso la parte del Paese che produce e compete, mentre nessun sacrificio tocca a chi non compete, non è misurato nel suo sforzo, non è controllato negli adempimenti. Qui sì che occorre una svolta decisa, dalle privatizzazioni alle liberalizzazioni alla riduzione della sfera pubblica nel senso più ampio. Se lo si facesse, si scoprirebbe che i mercati finanziari sanno tradurre in valore le aspettative, come accadde sul finire dello scorso anno".

La via delle illusioni conduce al declino, ma non è inevitabile.


venerdì 13 aprile 2012

Soldi e politica. Dal finanziamento illecito dei partiti all'appropriazione indebita.

In questo interessante video, relativo al processo Cusani, Bettino Craxi risponde alle domande del pubblico ministero Antonio Di Pietro.



Ha scritto il professor Ernesto Galli della Loggia in Tre giorni nella storia d'Italia, 2010, pp. 108 e segg.:

"Nella Prima Repubblica, insomma, la politica diviene erogatrice, amministratrice e intermediaria di imponenti flussi finanziari dalla natura così varia e a così tanti livelli istituzionali da sfuggire ad ogni realistica possibilità di controllo".

"Per tutta la durata della Prima Repubblica, attraverso il sistema delle partecipazioni statali, la politica, nel nostro paese, era stata la proprietaria diretta di oltre un terzo dell'economia".

"Complessivamente, dal 1973 al 1979, secondo la documentazione sovietica esaminata da Victor Zaslavsky, arriva al Pci, da Mosca, la bella somma di 32-33 milioni di dollari".

"Dall'America giungono alla Democrazia cristiana, nel periodo 1948-68, secondo una commissione d' indagine Usa, 65 milioni di dollari (sono circa tre milioni l'anno)".

"Nell'Italia della Prima Repubblica, insomma, intorno all'attività politica gira molto denaro. Soprattutto perché la politica costa: giornali, sedi di partito, funzionari, feste, congressi, e soprattutto le elezioni inghiottono un mare di soldi".

Con il dichiarato fine di porre un freno ad abusi ed irregolarità nel 1974 il Parlamento votò la legge sul finanziamento pubblico ai partiti, con la previsione di pene severe per la sua inosservanza. Gli interventi della Magistratura furono rarissimi fino alla primavera del 1992, quando iniziarono le inchieste di Mani Pulite. Nel 1989 era caduto il Muro di Berlino. Al 1990 risale l'amnistia dei finanziamenti illeciti ai partiti. Nel 1991 si sciolse l'Unione Sovietica. Mentre la Democrazia cristiana ed il Partito socialista si dissolsero per effetto di tali inchieste, l'ex Partito comunista restò sostanzialmente indenne.
Un referendum popolare abrogò nel 1993 il finanziamento pubblico ai partiti ma il Parlamento, con interventi legislativi ripetuti dallo stesso 1993 ad oggi, disponendo l'erogazione di imponenti "rimborsi elettorali", ha di fatto reintrodotto tale finanziamento.
Queste le vicende che conducono alla situazione attuale segnata, rispetto alla cosiddetta Prima Repubblica, dalla riduzione del settore dell'economia direttamente gestito dalla politica, dalla persistente rilevante ingerenza della politica stessa nelle attività economiche, dal bipolarismo sgangherato che ha preceduto l'attuale governo "tecnico", dal discredito in cui sono caduti i partiti e i movimenti politici.
Non più consolidati dalla situazione internazionale e dal cemento ideologico, la loro credibilità è ogni giorno più lesa dagli scandali e dall'incapacità di fronteggiare la crisi economica. I trasferimenti di denaro pubblico alla politica sono oggi avversati radicalmente dall'opinione pubblica, che chiede tagli drastici. E' difficile dare una nuova efficiente disciplina alla materia sotto la pressione degli eventi. Ma, come sempre, i risultati migliori sono prodotti da un attento approccio comparativo. La legislazione delle altre democrazie occidentali deve ispirare la riforma. Senza dimenticare che anche le buone leggi hanno bisogno di un adeguato livello di osservanza spontanea.






domenica 8 aprile 2012

Una grande politica per il nostro tempo.

Oggi il professor Ernesto Galli della Loggia, sul Corriere della Sera, ha commentato le recenti vicende politiche italiane con queste parole:

"Ma così ancora una volta il Nord, quel Nord che ho definito sopra «ideologico», ha dimostrato la sua antica, direi storica, difficoltà a fare politica, la sua incapacità a rappresentare un soggetto politico all'altezza dei suoi propositi.
Difficoltà e incapacità che hanno una sola origine: l'idea, condivisa tanto dalla Lega che dal berlusconismo, che al dunque la politica possa essere, e di fatto sia, solo rappresentanza di interessi (inclusi quelli di coloro che la fanno...), e nulla più. Non già, come invece è, visione generale, indicazione di traguardi collettivi e di strumenti adeguati, impulso autonomo mosso da valori, e su queste basi, poi, ma solo poi, anche mediazione creativa tra esigenze diverse".

Senza "visione generale, indicazione di traguardi collettivi e di strumenti adeguati, impulso autonomo mosso da valori", superamento della mera rappresentanza di interessi, non c'è grande politica capace di risolvere problemi. Si tratta di considerazioni condivisibili ma ovvie e non prive di una certa astrattezza, non toccando le condizioni, i presupposti, i limiti e i pericoli di ogni politica che guardi oltre gli interessi particolari tentando di dar corpo a visioni generali e soluzione a grandi problemi.
Molti pensano che sia soprattutto necessaria la disponibilità di statisti adeguati per ingegno e integrità. Ma forse è ancora più importante la ricettività dell'elettorato, la capacità degli elettori di cogliere l'essenza dei problemi, di premiare con il voto politiche ampie, lungimiranti. Elettori così non si ottengono facilmente. Presuppongono tradizioni e clima colturale idonei, spesso con vicende storiche impressionanti per intensità e tragicità come catalizzatori.
Si deve poi sottolineare il pericolo insito in ogni approccio esteso, in ogni visione generale dalla forte connotazione etica. Il rischio è quello di tentare di sottrarsi alla critica ed al giudizio, di continuare a percorrere con ostinazione vie che si sono rivelate sbagliate, di non riuscire a correggere gli errori. La grande politica corre sul filo del rasoio. Possono talvolta essere inaccettabili i suoi grandi obiettivi e/o intollerabili i suoi strumenti, i suoi metodi. Ma di essa non si può fare a meno, anche negli anni in cui la vita è meno difficile.
Le democrazie occidentali hanno conosciuto statisti lungimiranti come:


Churchill


De Gasperi


   Adenauer   


De Gaulle


Reagan


I video proposti mostrano l'ammirazione dei sostenitori ed il rispetto degli avversari. Ma non possiamo non indagare le condizioni e i limiti dei loro successi, le ragioni dei loro insuccessi, le tradizioni, i valori, le idee che hanno reso possibile e sorretto la loro opera.


martedì 3 aprile 2012

Riforma elettorale.

In uno dei suoi più recenti interventi nel dibattito pubblico Karl Popper riaffermò la sua visione della democrazia (La lezione di questo secolo - Intervista di Giancarlo Bosetti, 1992, Appendice, pp. 84 -87):

"La parola "democrazia" che significa "dominio del popolo" è purtroppo un pericolo. Ogni membro del popolo sa di non comandare, perciò sente che la democrazia è una truffa. E' qui che sta il pericolo. E' importante che si impari fin dalla scuola che "democrazia", a partire dalla democrazia ateniese, è il nome tradizionale che si dà a una costituzione che deve impedire una dittatura, una tyrannis".

"... non tutti noi possiamo governare e dirigere, ma tutti possiamo partecipare al giudizio sul governo, possiamo avere la funzione di giurati".

"Proprio questo dovrebbe essere...il giorno delle elezioni, non un giorno che legittima il nuovo governo, ma un giorno in cui noi sediamo a giudizio sul vecchio governo. Il giorno in cui il governo deve rendere conto del suo operato".


"...la differenza fra la democrazia come dominio del popolo e la democrazia come giudizio del popolo ha anche effetti pratici: non è affatto solo verbale. Lo si vede dal fatto che l'idea del dominio del popolo porta ad approvare una rappresentanza popolare proporzionale".

"Considero una disgrazia la proliferazione dei partiti e quindi anche la legge elettorale proporzionale. La frammentazione dei partiti infatti porta a governi di coalizione in cui nessuno si assume la responsabilità di fronte al tribunale del popolo perchè tutto è un inevitabile compromesso. Inoltre diviene molto incerto riuscire a liberarsi di un governo, perchè gli basterebbe trovare un nuovo piccolo partner nella coalizione per poter continuare a governare".

Il grande filosofo austriaco descrive correttamente la "democrazia" possibile e, insieme, capace di risolvere problemi. Del resto l'avversione per il proporzionalismo appartiene al miglior pensiero liberale. Basti leggere, per l'Italia, quanto lucidamente scritto da Luigi Einaudi.
Ma, come paventato da Popper, l'illusione della democrazia come governo del popolo è largamente diffusa. Da ciò la pressochè generale richiesta di maggiore "partecipazione" e di una rappresentanza politica a tal punto "specchio del popolo" da realizzare un genuino "governo popolare".
A questa visione comune a molti si aggiunge l'oggettiva difficile condizione in cui si trova l'Italia odierna, afflitta da problemi strutturali che possono essere affrontati con qualche speranza di successo solo prendendo misure impopolari.
Chi si accinge a riformare la legge elettorale deve fare i conti con queste due esigenze: venire incontro alla domanda di "partecipazione", di legittimazione popolare della rappresentanza politica, e consentire la formazione anche di governi di coalizione al di fuori della logica bipolare.
Tale situazione può condurre, qualora si giunga ad una riforma, ad una legge elettorale più proporzionale della attuale, con una attenuazione dei tratti bipolari del sistema. Una sciagura per il paese? Non necessariamente. L'Italia non può sopportare oltre un conflitto politico distruttivo. Sembra necessario accentuare la flessibilità del sistema, anche al provvisorio prezzo di rendere meno diretta l'efficacia del voto popolare.
Vale forse la pena di tollerare, esaminando i tentativi di riforma in atto, qualche distanza dai buoni principi della tradizione liberale. Con il proposito di giudicare severamente alla prossima occasione i politici che abbiano fatto cattivo uso di tale deviazione dalle migliori regole.



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