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mercoledì 20 aprile 2011

Il tema musicale della Follia dal Seicento a Stanley Kubrick.


Il tema musicale della Follia ha attraversato i secoli. Probabilmente di origine portoghese, dal Rinascimento ai nostri giorni ha continuato a segnare la musica occidentale. Con esso si sono cimentati i più grandi compositori. La sua versione di Handel è entrata a far parte della colonna sonora di uno dei film più noti di Stanley Kubrick: Barry Lyndon.
Di seguito i link alle versioni di:





















che entra a far parte della colonna sonora del Barry Lyndon di Kubrick (1975)


martedì 12 aprile 2011

Economicismo.

L'espressione economicismo (o economismo), pur essendo usata anche per contrassegnare preferenze e visioni morali, acquista particolare importanza nel dibattito sui fattori che determinano i processi storico-sociali, le vicende economiche e gli stessi sviluppi del pensiero umano.
Ha scritto Karl Popper in Congetture e confutazioni, 2000, pagg. 564 e 565:

"...sono convinto che l'economicismo di Marx - l'enfasi da lui posta sullo sfondo economico quale base ultima di ogni sorta di sviluppo - è sbagliato e di fatto insostenibile. Ritengo che l'esperienza della realtà sociale mostri chiaramente che in determinate circostanze l'influenza delle idee (rafforzate magari dalla propaganda) può superare in importanza e sostituirsi alle forze economiche. Inoltre, concesso che è impossibile comprendere compiutamente gli sviluppi mentali senza comprendere il loro sfondo economico, è almeno altrettanto impossibile comprendere gli sviluppi economici trascurando, per esempio, lo sviluppo delle idee scientifiche o religiose".

Ideologie, teorie scientifiche e religioni sono opere della mente umana, seppure non progettate da singoli individui. Anche se non incarnate in oggetti fisici producono effetti nella realtà e devono quindi essere considerate reali. Nella tripartizione istituita da Popper appartengono al "Mondo 3", quello, appunto, " dei contenuti di pensiero, o per meglio dire, dei prodotti della mente umana" (L'Io e il Suo Cervello, vol. I, 1982, pagg. 52 e segg.).

Uno straordinario esempio di influenza determinante di fattori non economici è stata autorevolmente considerata la rapida espansione araba del VII secolo. Henri Pirenne, tra i massimi esponenti della storiografia europea del Novecento, studioso incline alle indagini quantitative e attento ai fattori economici, nel suo Maometto e Carlomagno, parte seconda, capitolo primo, ha scritto:

"La conquista araba, che si scatena contemporaneamente sull'Europa e sull'Asia, non ha precedenti: la rapidità dei suoi successi può essere paragonata soltanto a quella con cui si costituirono gli imperi mongoli di un Attila, o, più tardi, di un Genghiz Khan o di un Tamerlano. Ma quelli furono tanto effimeri quanto la conquista dell'Islam fu duratura. Questa religione ha ancora oggi i suoi fedeli in quasi tutte le terre in cui si era imposta sotto i primi califfi. La sua diffusione fulminea è un vero miracolo paragonata alla lenta espansione del cristianesimo.
Di fronte a questa irruzione cosa sono le conquiste, tanto a lungo arginate e così poco violente dei Germani che dopo secoli riuscirono appena a rosicchiare i confini della Romania?"

"Tutto questo si spiega senza dubbio con l'imprevisto, con lo smarrimento degli eserciti bizantini disorganizzati e sconcertati di fronte a un nuovo modo di combattere; con il malcontento religioso e nazionale dei monofisiti e dei nestoriani di Siria, ai quali l'Impero non vuol fare alcuna concessione; col malcontento della Chiesa copta d'Egitto e con la debolezza dei Persiani.
Ma tutte queste ragioni non sono sufficienti a spiegare un trionfo così assoluto. L'immensità dei risultati conseguiti è sproporzionata rispetto all'importanza del conquistatore".

Evidentemente l'entusiasmo religioso ha svolto un ruolo decisivo. Va insomma sottolineata l'importanza di ideologie, teorie e visioni religiose nella spiegazione storica. La storia delle idee rappresenta una componente fondamentale della ricerca storica. Per il Novecento in particolare sono da citare Francois FURET, Il passato di un' illusione e Robert CONQUEST, Il secolo delle idee assassine.



martedì 5 aprile 2011

La loggia P 2 secondo Francesco Cossiga.



Il 3 febbraio 1871 Roma diventò capitale del Regno d'Italia. Nel 1877 nacque la loggia massonica Propaganda, destinata a raccogliere notabili del nuovo stato italiano giunti a Roma. Sciolta durante il regime fascista, fu ricostituita dopo la Liberazione con il nome Propaganda Due, P 2. Le sue vicende, in particolare durante gli anni Settanta, fino al 1981, sono state oggetto di indagini della Magistratura e di una commissione parlamentare guidata dalla democristiana Tina Anselmi.
Aveva almeno un migliaio di iscritti, soprattutto militari, membri dei servizi segreti, diplomatici, politici e giornalisti. Sulla natura di questa associazione e sulla sua attività si scatenarono battaglie politiche e polemiche giornalistiche che periodicamente riprendono vigore, alimentate dalla presenza nella vita pubblica italiana di alcuni ex membri di tale associazione segreta. Le indagini giudiziarie e parlamentari, pur non dissipando tutti i dubbi, portarono al suo scioglimento ed a una riforma della legislazione sulle associazioni segrete.
L'ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga, recentemente scomparso, ha delineato una personale lettura di quelle vicende, interpretate soprattutto con riferimento alla dura contrapposizione tra Unione Sovietica e Stati Uniti d'America, particolarmente intensa proprio alla fine degli anni Settanta ed all'inizio degli anni Ottanta.
La presenza in Italia del più grande partito comunista dell'Occidente, ancora in quegli anni, durante la segreteria Berlinguer, dipendente dai finanziamenti e dalle direttive sovietichecontribuisce a rendere verosimile la ricostruzione presentata da Cossiga nel suo La versione di K. Sessant'anni di controstoria, 2009, pagg. 129 e segg. Scrive il presidente emerito:

"Io alla storia di Licio Gelli e della loggia massonica P2, almeno come è stata raccontatata, non ci ho mai creduto".

"La P2 non è stata un'invenzione di Gelli. La P2, che vuol dire Propaganda 2..., è quella del Gran Maestro, nata con la presa di Porta Pia. Fu creata per trasferirvi tutte le autorità politiche e militari che venivano a Roma"

"La mia ipotesi è questa. Io mi sono letto tutti i nomi della lista P2, tutti. Alcuni non li conosco, altri li conosco, però erano quasi tutti filo americani e anticomunisti. Quasi tutti fermi, anzi, fermissimi filo americani e anticomunisti. La chiave del giallo, secondo me, è proprio qui.
Per capire, è però inevitabile che io apra un'altra delle mie parentesi. Durante il secondo conflitto mondiale, nel governo svizzero c'era una corrente filo germanica. E il comandante in capo dell'Esercito svizzero tentennava di fronte all'eventualità di una resistenza a oltranza. Ufficiali e sottufficiali di diverso orientamento formarono allora una società segreta, si chiamava "Lega di Nidvaldo" (conosciuta anche come Gotthardverein), in ricordo della ferma lotta dei nidvaldesi contro lo straniero Napoleone. Giurarono, formalmente predisponendosi al tradimento, che se il governo federale, il loro governo, avesse concesso il passaggio ai tedeschi attraverso la Svizzera, loro si sarebbero opposti. Poi, avendo gli alleati vinto la guerra, il governo elvetico e il procuratore generale della confederazione si guardarono bene dal procedere contro di loro. Anche se si erano mobilitati segretamente per opporsi agli ordini del governo legittimo.
Perchè dico questo? Perchè quando ho letto la lista della P2 ho subito pensato che quella era la nostra Lega di Nidvaldo: non contro i nazifascisti, ma contro i comunisti. Lo dissi anche in un'intervista al "Corriere della Sera", ma Gelli volle smentirmi, non so perchè".

"Allora, mettiamo che l'amministrazione americana cercasse di creare la Gotthardverein in Italia. Che fa? Cerca di mettere insieme un'organizzazione in cui ci sono i vertici della diplomazia, delle Forze Armate, della Polizia e così via. E prende a modello quello che è il modello comune degli Stati Uniti e cioè il modello della loggia massonica".

La narrazione di Cossiga ha almeno un grande merito: inserisce le vicende italiane nel più ampio contesto internazionale. Senza questo approccio globale la comprensione appare impossibile. L'Italia non basta per spiegare se stessa.

sabato 26 marzo 2011

Cultura di stato, stato della cultura.

Nel 1991 l'Unione Sovietica si dissolse. Victor Zaslavsky, esaminando il passaggio dall'URSS alla Russia post-sovietica, a proposito dell'intelligencija russa ha scritto:

"la cultura di massa occidentale penetra nella società russa e riceve il consenso popolare; la popolazione sempre di più focalizza la sua attenzione sui problemi della vita quotidiana e della sopravvivenza. In queste nuove condizioni, "l'intelligencija russa come strato sociale, con la sua missione di diffondere una cultura ideologica e una particolare visione del mondo, diventa obsoleta e inutile".

E, riferendosi ai suoi membri che non riescono ad adattarsi alla nuova situazione:

"E' l'intelligencija sovietica che produce una valanga di scritti catastrofisti sulla rovina imminente della Russia e della civiltà russa. Queste previsioni sono provocate da un fenomeno sociale ben noto che si manifesta quando un gruppo, destinato a scomparire dalla scena storica, confonde la propria sparizione con la fine generale della società e della cultura".
(Victor ZASLAVSKY, Storia del sistema sovietico, 2009, pagg. 272 e 273).

Leggendo queste parole è difficile non vedere qualche analogia con l'attuale situazione italiana. Nel Secondo dopoguerra i rapporti di forza tra le grandi potenze hanno costretto il Partito comunista italiano ad operare nella legalità costituzionale.
L'obiettivo di ottenere un'egemonia irreversibile, il cui raggiungimento era precluso in ambito politico istituzionale dalla vigenza delle regole democratiche, è stato perseguito in ambito culturale avvalendosi di un ceto intellettuale gravato della "missione di diffondere una cultura ideologica e una particolare visione del mondo".
I relitti di questo ceto, rafforzati da elementi formati negli ideali e nei metodi del nuovo radicalismo occidentale militante, rappresentano la componente forse prevalente, certamente più rumorosa, della "cultura" posta a rischio dal minacciato taglio dei finanziamenti ministeriali. Taglio ora ridimensionato grazie ad un aumento delle imposte sulla benzina.
Certi vizi della "cultura di stato" di stampo sovietico sono riscontrabili perfino nella lirica e nel cinema che assorbono gran parte del discusso Fondo unico per lo spettacolo: impostazione ideologica e scelte artistiche conseguenti, insufficiente produttività, spreco. Il Corriere della Sera ci offre dati significativi.
Molto discutibili sono spesso, come detto, anche le stesse scelte artistiche. Qui un video che presenta uno dei momenti più belli dell' Europa Riconosciuta di Antonio Salieri.




L'opera, eseguita al Teatro alla Scala di Milano nel 2004, è stata prodotta con interpreti di altissimo livello (Diana Damrau), con la regia di Ronconi e la direzione di Muti. E' probabile che pure i costi siano stati altissimi.
Ma, benchè interessante sotto il profilo storico, è uno spettacolo complessivamente noioso, poco attraente anche per un pubblico attento e preparato. Per questa via, tanto spesso percorsa, l'autofinanziamento pare davvero impossibile.
Quali rimedi? Buona gestione finanziaria, più produttività, scelte artistiche innovative ma sagge, grande qualità coniugata con una costante attenzione al pubblico, autofinanziamento, apertura all'impresa privata. Insomma meno cultura di stato per migliorare lo stato della cultura.


giovedì 17 marzo 2011

Le lampade di Quintino Sella.

Il 17 marzo 1861 Vittorio Emanuele II di Savoia fu proclamato Re d'Italia. Celebriamo il centocinquantesimo anniversario della unificazione italiana ricordando che il lavoro ed il risparmio, non la tronfia retorica, hanno costruito l'Italia unita che guarda al futuro con fondata speranza.
E allora dobbiamo citare il primo grande statista dell'Italia unita, Giovanni Giolitti, e il ministro delle finanze che dette al nuovo stato le risorse finanziarie indispensabili per consolidarsi, Quintino Sella. Sella, ingegnere e scienziato di formazione e professione, durante i primi dieci anni di vita del Regno d'Italia fu ripetutamente ministro delle finanze. Giolitti, nelle Memorie, mette in rilievo le sue grandi intelligenza, cultura e laboriosità. Racconta anche un curioso episodio, rivelatore di un clima morale prima che politico contrassegnato da rigore e senso dello stato.
Scrive Giolitti:
"Era allora in funzione la Commissione per la perequazione dell'imposta fondiaria...la quale...prolungava le sue sedute e i suoi lavori nella notte. Il lavoro si faceva ad un tavolo con lampade a petrolio, e i commissari si lagnavano del puzzo di quelle lampade e chiedevano si sostituissero con lampade ad olio. Ma Sella, che si era accorto che l'olio veniva sottratto, non ne voleva sapere. Allora si presentarono a lui, in forma fra allegra e solenne, due dei commissari, Depretis e Valerio, per commuoverlo, e Valerio esclamò: " Vedi, per non soffrire del puzzo del tuo petrolio, verrò a lavorare con due candele in tasca." "Bravo!" gli rispose il Sella, "così mi risparmi anche il petrolio!" E rifiutò la piccola concessione".

I campioni della retorica nazionalista, gli interventisti della Prima guerra mondiale, il Mussolini dell'alleanza con il regime nazista e delle leggi razziali, i capi di un partito comunista finanziato e diretto dall'Unione Sovietica, hanno posto a rischio l'unità, la libertà e la grandezza dell'Italia. I sostenitori del lavoro, dell'impresa e del risparmio, Giolitti, Sella, De Gasperi e Einaudi le hanno conservate e sviluppate.
Questa è la lezione della storia che i nostri giovani, particolarmente in questa giornata di festa, devono apprendere.

mercoledì 9 marzo 2011

Giustizia. In nome del popolo italiano.



L'ampio ricorso alle giurie popolari, quando non è supportato da solide tradizioni come negli Stati Uniti, non è privo di inconvenienti. Ma, questo premesso, quella statunitense è una giustizia che guarda alle esigenze dei cittadini e risponde a questi del proprio andamento.
I rappresentanti della pubblica accusa americani sono sostanzialmente semplici avvocati dello stato o degli enti pubblici territoriali. Direttamente o indirettamente l'esercizio della pubblica accusa è soggetto al controllo degli elettori. E' un'organizzazione della giustizia che distingue nettamente le funzioni e le prerogative della pubblica accusa da quelle della magistratura giudicante. Si tratta di una distinzione che, sia pure in forme e con accentuazioni diverse, rappresenta la regola nelle democrazie.








Il caso italiano costituisce un'eccezione. La distinzione tra magistratura giudicante e requirente (pubblico ministero) è così debole da porre la difesa in posizione di subalternità. Mentre la collaborazione dell'ordine giudiziario con i poteri e gli organi costituzionali risulta sfavorita. Difficile poi è far valere una precisa responsabilità per gli errori compiuti.
Montesquieu, nel suo Spirito delle leggi, chiedeva che il potere giudiziario fosse affidato a tribunali non permanenti, formati da non professionisti tratti dal popolo. Questi giudici popolari temporanei, secondo il filosofo francese, dovrebbero essere soltanto "la bocca della legge", costituendo così un potere "invisibile e nullo". Bisogna infatti evitare, pensava Montesquieu, che il giudice sia anche legislatore. Perché in questo caso il potere sulla vita e la libertà dei cittadini sarebbe arbitrario. Le preoccupazioni del grande francese sono tuttora da condividere, anche se la complessità contemporanea impone di lasciare lo spazio necessario alla professionalità. 
Secondo l' articolo 101 della Costituzione italiana :

"La giustizia è amministrata in nome del popolo.
I giudici sono soggetti soltanto alla legge".

In termini liberali potremmo dire che la giustizia deve essere amministrata in nome dei cittadini per soddisfare il loro bisogno di tutela. Nulla di più e nulla di meno.

martedì 1 marzo 2011

Le origini delle rivolte in Nord Africa e Medio Oriente. Le ragioni dei pessimisti.

Meno di dieci anni fa Bernard Lewis nel suo fondamentale La crisi dell' Islam (2004, pag. 103) ha scritto:

"La combinazione fra bassa produttività e alto tasso di natalità in Medio Oriente contribuisce alla formazione di una miscela instabile, composta in larga e crescente misura di giovani disoccupati, ignoranti e frustrati. Secondo tutti gli indici delle Nazioni Unite, della Banca mondiale e di altre autorità, i paesi arabi - in settori come la creazione di posti di lavoro, l'istruzione, la tecnologia, e la produttività - sono sempre più indietro rispetto all'Occidente. Peggio ancora, le nazioni arabe sono indietro anche rispetto alle più recenti reclute della modernità di tipo occidentale, come la Corea, Taiwan e Singapore"

Le considerazioni del professor Lewis sono ancora in larga misura illuminanti, pur dovendosi oggi porre in rilievo la straordinaria crescita di grandi paesi come la Cina, l'India e il Brasile.
Al loro rapido sviluppo si è accompagnato un aumento dei prezzi degli alimentari, da molti ritenuto uno dei principali inneschi delle rivolte.
Sergio Romano, su Panorama del 24 febbraio 2011, pag. 109, scrive:

"Le rivoluzioni hanno spesso una matrice ideologica. Ma le rivolte scoppiano generalmente quando la fame richiama nelle piazze, insieme agli studenti universitari, il popolo minuto delle periferie, i disoccupati, gli operai a cui il salario non garantisce più una decorosa sopravvivenza. Quelle di Tunisi, del Cairo e di Alessandria sono scoppiate quando l'aumento dei consumi nei paesi emergenti (Cina, India e Brasile), insieme alla carestia nelle campagne della Repubblica Popolare Cinese, ha provocato la brusca impennata dei prezzi delle derrate alimentari".

Come vedono tutto ciò gli abitanti dei paesi in rivolta? Con quali occhi leggono questi devastanti effetti della globalizzazione? Tre sembrano gli elementi fondamentali da evidenziare.
Il primo, troppo spesso misconosciuto, è rappresentato dalle esacerbate sensibilità e consapevolezza storiche dei musulmani e degli arabi in particolare.
Scrive Bernard Lewis nell'opera citata, pag. 5:
"I popoli musulmani, come tutti i popoli del mondo, sono stati plasmati dalla loro storia, ma a differenza di altri ne sono fortemente consapevoli".
Fin dall'infanzia i musulmani vengono formati nella memoria di un grande passato. Tale memoria contribuisce ad accrescere la delusione per il presente.
Si deve poi sottolineare la lunga sopravvivenza, pressoché nell'intera regione, di sistemi caratterizzati da un forte ruolo dello stato nell'economia. Iraq, Siria, Egitto, Libia, Algeria. In questi paesi i regimi autoritari baathisti o socialisti hanno costruito società in cui sempre più gli individui chiedevano allo stato, non al proprio lavoro, la soddisfazione dei bisogni fondamentali. E lo stato riusciva a trovare un minimo di consenso spesso soltanto grazie alla vendita del petrolio e del gas o agli aiuti delle superpotenze. In tali società si è diffusa una mentalità per diversi aspetti simile a quella dell'"uomo sovietico" stato-dipendente descritta dagli studiosi dell'URSS e dei sistemi sovietici (si veda, per tutti, Victor ZASLAVSKY, Storia del sistema sovietico, 2009, pag. 182 e segg.).
Vanno infine posti in evidenza gli effetti delle nuove tecnologie. Internet e trasmissioni satellitari hanno consentito un contatto purtroppo in genere superficiale con la modernità, con le sue opportunità e, più spesso, con le sue promesse. In questo contatto affondano le radici le diffuse aspettative irrealistiche che presumibilmente hanno spinto tanti giovani a sollevarsi contro i governanti corrotti ed autoritari.

Con queste premesse quali sviluppi si possono congetturare? A medio termine le rivolte produrranno danni alle economie nazionali. Meno turisti, meno investimenti stranieri, meno produzione, più disoccupazione, più emigrazione.
La sperata evoluzione democratica potrebbe determinare un aumento della spesa pubblica, del debito e dell'influenza del fondamentalismo religioso.
Nessuna speranza per queste popolazioni? E' impossibile prevedere il futuro. E non si possono controllare processi caotici come quelli in atto. Se qualcuno ha pensato di riuscire in queste imprese e trarne vantaggio si è sbagliato. Da nuovi assetti e consapevolezze potranno forse emergere novità positive. Ma nella storia il peggio è sempre possibile.




venerdì 25 febbraio 2011

L'ex ambasciatore Ronald P. Spogli sulle relazioni tra Italia e Stati Uniti.

Ronald P. Spogli, imprenditore di origini italiane, nato nel 1948, è stato ambasciatore degli Stati Uniti in Italia dal 2005 al 2009, durante la presidenza di George W. Bush.

"Nella frenesia di segnar punti a proprio vantaggio, che domina l'infuocata scena politica italiana in questo momento, ciò che è andato perso è il giudizio imparziale sui rapporti tra Italia e Stati Uniti instaurati da Silvio Berlusconi e dai governi da lui guidati".

"Gli Stati Uniti non hanno miglior alleato dell'Italia sul continente europeo".

"Dai Balcani, dal Libano, dall'intera area del Medio Oriente fino in Iraq e Afghanistan, il contributo italiano in termini di uomini, materiali e aiuti finanziari a sostegno di politiche e iniziative condivise resta impareggiabile. Quando è stata invitata ad appoggiare un obiettivo americano, l'Italia non si è mai tirata indietro. La nostra cooperazione alla difesa è in continuo sviluppo e oggi i nostri rispettivi Paesi godono di una relazione tra le più strette e variegate, tra tutti i rapporti bilaterali militari".

"Una collaborazione così intensa ha contribuito a innalzare l'Italia a una statura senza precedenti sulla scena politica internazionale. Spesso giudicata in passato un partner di secondo piano, dal 2000 in poi l'Italia ha assunto una posizione di grande rilievo sul palcoscenico mondiale tra i Paesi del G8. In un articolo pubblicato su questo quotidiano nel settembre del 2010, ho avuto modo di commentare come l'Italia abbia saputo, in meno di un decennio, abbandonare la tradizionale immagine di peso piuma a livello mondiale per trasformarsi in un importante e prezioso collaboratore per il mantenimento della pace e della stabilità.
Sotto il profilo storico, per quanto forti e reciprocamente vantaggiosi siano stati in passato, solo con l'insediamento del governo di Silvio Berlusconi nel 2001-2006 i nostri rapporti politici hanno raggiunto la preminenza di cui godono oggi. L'eccellente rapporto personale tra il presidente Bush e il premier Berlusconi è nato da una visione condivisa delle sfide e delle opportunità a livello globale e del modo migliore per affrontarle. Difatti, l'ascesa dell'Italia ad attore chiave sulla scena internazionale è coincisa con un periodo di intensa collaborazione tra Italia e Stati Uniti che si protrae fino ad oggi ed è stata favorita sul versante italiano in primo luogo dai governi Berlusconi del 2001-2006 e del 2008 fino ai nostri giorni. Benché la coalizione di Prodi del 2006-2008 abbia appoggiato anch'essa la maggior parte degli interventi americani - con l'importante eccezione dell'Iraq - nessuno ha mai sostenuto con pari lealtà e coerenza le posizioni politiche americane come Silvio Berlusconi".

"Per il suo spirito collaborativo, l'America ha un debito di gratitudine nei confronti del premier Silvio Berlusconi".

In realtà dopo la Seconda guerra mondiale l'Italia, potenza regionale sconfitta, e gli Stati Uniti, superpotenza globale impegnata prima nella dura contrapposizione all'Unione Sovietica poi nella lotta alle organizzazioni terroriste, hanno costantemente avuto un forte interesse alla collaborazione politico-militare.
Alle tradizionali ragioni dell'alleanza si aggiunge oggi la particolare esiguità delle risorse finanziarie che lo stato italiano può destinare alle Forze Armate. La stretta collaborazione in questo settore con gli Stati Uniti consente di rimediare parzialmente ai problemi creati dall'insufficienza degli investimenti.
Buono è il coordinamento anche con i principali paesi dell' Unione Europea. Ma l'efficienza di un'alleanza è in larga misura determinata da tradizioni e precedenti storici. Complessivamente senz'altro a favore degli Stati Uniti d' America.

lunedì 14 febbraio 2011

La dignità delle donne.





"I diamanti sono il miglior amico di una ragazza".
Questo scintillante personaggio interpretato da una splendida Marilyn Monroe è l'insuperata rappresentazione di "una donna che sia consapevole di essere seduta sulla propria fortuna e ne faccia - diciamo così - partecipe chi può concretarla". L'efficace espressione è di Piero Ostellino.

Dunque non da ora in questo senso la dignità della donna è in pericolo. In che modo le donne possono realmente affermare la loro dignità? Con lo studio ed il lavoro prima di tutto.
Scrive il professor Luca Ricolfi su Panorama del 3 febbraio 2011 (pag. 89):
"Non passa giorno senza che la stampa denunci il dramma dell'occupazione in Italia. Due milioni di disoccupati 1 miliardo di ore di cassa integrazione nel solo 2010, quasi 30 giovani su 100 alla ricerca di un lavoro. E poi il dramma del precariato, la difficoltà di conquistare un lavoro stabile e farsi una famiglia".

"Tutto vero". "Però... Però le cose non sono semplici come sembrano. Ancora alla fine del 2008, a crisi ampiamente iniziata, le aziende lamentavano una drammatica mancanza di laureati, in particolare nei settori tecnico-scientifici: ingegneria, matematica, biologia, geologia, chimica, farmacia, agraria. Ed è di pochi giorni fa la notizia che nei prossimi anni potremmo trovarci a dovere importare 15-20 mila medici dall'estero, specie in alcune specialità in sofferenza: anestesia, radiologia, pediatria, nefrologia, geriatria, chirurgia.
In breve, è vero che i laureati non trovano lavoro, ma è anche vero che ci sono in giro troppo pochi laureati nei settori pregiati. I giovani preferiscono le lauree deboli, facili e a basso contenuto scientifico, oppure si indirizzano in massa verso lauree erroneamente ritenute forti, come economia, giurisprudenza e psicologia, dove la promessa di grandi guadagni è bilanciata dal fatto che i laureati sono troppi rispetto ai posti disponibili. Non va meglio sul versante dell'istruzione tecnica e professionale. Da anni le organizzazioni imprenditoriali lamentano la mancanza di pavimentatori, idraulici, elettricisti, informatici, esperti di telecomunicazioni, infermieri, operai specializzati, solo per fare qualche esempio. Però gli istituti tecnici e professionali sono snobbati dalle famiglie, che per i propri figli, e specialmente per le ragazze, preferiscono un'istruzione di tipo liceale, anche se spesso questa non si conclude né con una laurea né con l'acquisizione di un mestiere ben definito.
Per non parlare di quel che accade nel caso dei lavori più umili, particolarmente diffusi in un paese arretrato come l'Italia. Qui i posti di lavoro che si creano ogni anno sono moltissimi, ma agli italiani interessano sempre meno. Basti pensare che fra la fine del 2007 e la fine del 2010, nel cuore della crisi, gli immigrati conquistavano più di 500 mila nuovi posti di lavoro, in gran parte in occupazioni a basso contenuto professionale, sebbene il livello medio di istruzione degli stranieri sia comparabile a quello degli italiani.
Alla fine, a ben rifletterci, il problema della disoccupazione in Italia ha due facce. La mancanza di una seria politica industriale ha fatto sì che nel nostro Paese i posti di lavoro altamente qualificati scarseggiassero. Nello stesso tempo le scelte delle famiglie, ostili al lavoro manuale non meno che agli studi impegnativi, hanno finito per illudere un'intera generazione, cui ora risulta difficilissimo cogliere le non molte occasioni che il mercato del lavoro ancora offre".

Già ora, complessivamente, in Italia le donne si laureano più e meglio degli uomini. Ma siano in testa anche nell'accettare la sfida posta dal mercato del lavoro nei termini esposti da Ricolfi. Siano le prime a dedicarsi agli studi e ai lavori più impegnativi. Non temano mercato e concorrenza, severi con le imprese che non impiegano i più capaci. E scelgano uomini determinati a fare altrettanto. Sarà l'intero paese a ringraziare, reso migliore dal lavoro, non dalla retorica.




giovedì 10 febbraio 2011

Il parlamento nelle democrazie liberali contemporanee.

Luigi Einaudi (1874 - 1961) è stato uno dei pochi grandi liberali italiani. Giurista ed economista, fu governatore della Banca d'Italia, titolare di ministeri economici nei governi De Gasperi e secondo presidente della Repubblica italiana.

"I parlamenti non sono società di cultura od accademie scientifiche. Sono organi, il cui scopo unico è quello di formare governi stabili e di controllarne l'azione. Come disse il primo ministro del primo governo laburista, Ramsay Mac Donald, le elezioni non si fanno per contare le opinioni, per fare il censimento (census, in inglese) delle sette, dei ceti, dei partiti, dei movimenti, dei gruppi sociali, religiosi, politici, ideologici in cui si fraziona una società, la quale sia composta di uomini vivi e pensanti; ma si fanno per mettersi d'accordo in primissimo luogo sul nome della persona che in qualità di primo ministro sarà chiamato a governare il paese, e in secondo luogo sul nome di coloro che collaboreranno con lui o che ne criticheranno l'operato. Le elezioni hanno cioè per scopo di creare il consenso (consensus e non census) intorno ad un uomo ed al suo gruppo di governo ed intorno a chi oggi sarà il suo critico e domani ne prenderà il posto se gli elettori gli daranno ragione. Se non si vuole l'anarchia, questo e non una sterile accademica rassegna di opinioni è lo scopo unico preciso di un buon sistema elettorale".

Einaudi conosceva bene l'evoluzione delle democrazie parlamentari nella prima metà del Novecento. In particolare appare qui chiaro il riferimento alla forma di governo inglese, caratterizzata dalla preminenza del primo ministro rispetto al resto del governo ed alla maggioranza parlamentare.
Il futuro presidente della repubblica mostra di essere ben consapevole delle esigenze delle società e delle economie occidentali. I processi decisionali pubblici devono conformarsi ad elevati standards di efficienza.
Egli cita i fondamentali compiti di controllo ed ispettivi del parlamento, chiamato ad esaminare l'attività della pubblica amministrazione.
Una lezione pienamente attuale, che ci richiama alla realtà.



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