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mercoledì 10 novembre 2010

Stephen Jay Gould. Anche lo scienziato non sa e non può.


S.J.Gould

Stephen Jay Gould, nato nel 1941 a New York e scomparso nel 2002, è stato un insigne biologo e paleontologo. Ha insegnato ad Harvard e alla New York University. Come storico della scienza e divulgatore ha esercitato una profonda influenza. Le sue opere sono state tradotte in tutto il mondo.
Cresciuto in una famiglia ebrea del ceto medio, con genitori progressisti ed aperti, era agnostico e politicamente vicino alla sinistra radicale americana.
Come scienziato della natura si è dedicato prevalentemente allo studio dell'evoluzione, contribuendo all'elaborazione della teoria degli equilibri punteggiati. Secondo tale teoria, nel corso della lunga storia dell'evoluzione della vita sulla terra, i cambiamenti evolutivi si concentrano in periodi relativamente brevi, a causa di eventi intensamente stressanti.
Ma forse ancor più rilevante è stato il suo contributo alla riflessione sulla scienza. In quest'ambito si è distinto per l'incisivo approccio critico, per la vastità degli interessi e soprattutto per la profonda comprensione degli esiti migliori della filosofia occidentale.
Sono da ricordare, in particolare, le sue idee sulla compatibilità tra fede religiosa e scienza, le sue convinzioni indeterministe, la sua accettazione del dualismo fatti - norme e della inderivabilità delle prescrizioni morali dalle descrizioni della natura (legge di Hume).
Ha sostenuto la compatibilità tra scienza e fede sulla base della distinzione dei loro ambiti. La scienza descrive la natura, mentre la religione si occupa di morale e del rapporto tra l'uomo e la divinità. Gould così sostanzialmente ha ripreso il pensiero di Galileo Galilei, secondo il quale la scienza ci dice come va il cielo, mentre le Scritture ci indicano come si va in Cielo.
Gould, assertore dell'inderivabilità dei valori dai fatti, fu sempre vivace fautore della libertà di coscienza, contrario a ogni positivismo morale. Il vantaggio evolutivo rappresentato da determinati abitudini e comportamenti non ne determina la bontà sotto il profilo morale.
Egli ha spesso messo in rilievo la grande asimmetria tra la costruzione e la distruzione dei sistemi complessi, che sono costruiti lentamente ma possono essere distrutti rapidamente, spesso in pochi istanti da eventi catastrofici. Gould è stato indeterminista non solo rispetto alla natura e all'evoluzione indistintamente, ma anche con riguardo particolare alla storia umana. L'uomo non può prevedere il futuro. Egli ha esposto lucidamente la sua posizione con queste parole, da Le pietre false di Marrakech, ed. 2007, pagg. 366 e 367:

"L'uomo può anche essere l'organismo più intelligente che sia mai apparso sulla faccia della Terra, ma rimane estremamente inetto su certi problemi, specialmente quando l'arroganza emotiva si combina con l'ignoranza intellettuale. L'incapacità di predire il futuro è fra le nostre maggiori inettitudini, non tanto - in questo caso - per un limite del nostro cervello, quanto come conseguenza di principio della genuina complessità e dell'autentico indeterminismo del mondo.
Conosco soltanto un antidoto al pericolo principale derivante da questo miscuglio incendiario di arroganza e ignoranza. Data la nostra incapacità di predire il futuro, e specialmente la nostra frequente incapacità di prevedere, in un futuro non immediato, le funeste conseguenze di fenomeni che inizialmente sembrano insignificanti e addirittura risibili (qualche renna malata di carbonchio oggi, un'intera popolazione umana colpita dall'epidemia domani), un freno morale potrebbe essere la nostra unica àncora di salvezza.
Il buon senso, nella forma vitale di freno morale, è stato sfidato nel modo più serio e grave dagli scienziati che sviluppano tecnologie d'avanguardia e immaginano perciò di poter controllare, o almeno prevedere con precisione, qualsiasi sviluppo futuro. Io faccio parte della comunità degli scienziati, ma vorrei illustrare il valore del freno morale come contrappeso a vie pericolose tracciate o dall'autocompiacimento o da un'attività deliberata, e alimentate dalla falsa fiducia di saper prevedere il futuro."

Di Gould si può leggere in rete questo brillante scritto, compreso anche nell'ultimo volume pubblicato in Italia dello scienziato statunitense, I Have Landed.
Stephen Jay Gould è stato uno dei grandi scienziati capaci di pensare criticamente la scienza. Rappresenta un ottimo rimedio contro i vizi del dibattito sulla scienza in corso nel nostro paese, strumentalizzato ed avvelenato da chi se ne avvale nella guerra politico culturale in atto, soffocandolo nelle angustie di un positivismo di stampo ottocentesco.


venerdì 5 novembre 2010

Movimento del Tea Party. Cosa devono insegnare quelle vecchie casse di tè.

I coloni americani che nel 1773 gettarono il tè inglese nelle acque del porto di Boston erano esasperati non per le tasse troppo alte sul tè bensì, paradossalmente, per l'esenzione da tasse e dazi sul tè stabilita con il Tea Act a favore della Compagnia inglese delle Indie orientali.
La drastica riduzione del carico fiscale consentì alla Compagnia delle Indie di vendere il tè nelle colonie americane a prezzi fortemente ribassati. I commercianti e i contrabbandieri di tè americani furono danneggiati e reagirono buttando in mare le casse di tè della Compagnia. Si trattò soprattutto, insomma, di una questione di concorrenza.
La galassia di gruppi che formano il movimento del Tea Party ha svolto un ruolo decisivo nel passaggio di consensi verso i candidati repubblicani nelle recenti elezioni statunitensi. Meno tasse, meno stato, più trasparenza, ritorno alla Costituzione, più spazio alla iniziativa ed alla libertà individuali, meno potere a Wall Street. Queste le idee guida del movimento.
Le vecchie casse di tè nel porto di Boston devono però ricordare ai sostenitori contemporanei del Tea Party la dimensione globale dei problemi. La libertà che si chiede per l'economia è vantaggiosa in ambito internazionale? A quali condizioni?
Vale poi la pena di chiedersi se uomini come quelli che crearono una grande nazione ci sono ancora. Quei coloni avevano spalle robuste e spesso una solida famiglia alle spalle.
Quanti americani di oggi hanno le qualità necessarie per assumersi la responsabilità di sè e del proprio paese? Quanto è significativa la caduta dell'etica della responsabilità e del lavoro?
Alcune grandi compagnie statunitensi hanno bilanci in ordine e si affermano nei mercati internazionali. Ma quante aziende invece non sono competitive? Quante non sono in grado di affrontare con successo la concorrenza straniera?
Se lo stato diventa più leggero, meno invadente ed oppressivo, gli individui e le imprese, le famiglie, le chiese, le associazioni sapranno riprendere il posto che a loro spetta? La ricostruzione delle istituzioni non basta. Occorre una ricostruzione morale dei cittadini ed una ripresa di quella libertà responsabile che ha fatto grandi gli Stati Uniti.
Il movimento del Tea Party è insieme espressione della crisi presente e motivo di speranza. Per i repubblicani, che porteranno alle urne sostenitori finora non attivi elettoralmente. Per il paese, che ha bisogno di trovare in una tradizione rinnovata e ravvivata ragioni, strumenti ed obiettivi per risalire la china.
Ma devono emergere leaders capaci di coordinare spinte contraddittorie, di trasformare in efficiente amministrazione aspirazioni, sentimenti e volontà che nascono anche dal rifiuto di fare i conti con la complessità dei problemi.
In bocca al lupo USA!


lunedì 1 novembre 2010

Teoria del complotto o della cospirazione. La leggenda che allontana dalla verità e aiuta i peggiori.






Soprattutto in periodi di crisi vengono con insistenza proposte spiegazioni complottiste e cospirative dei mali che ci affliggono. Essi sarebbero in larga misura il frutto intenzionale dell'opera di potenti, o gruppi di potenti, cinici ed avidi. Si tratta di una lettura della realtà irrazionale, errata e fuorviante. Perchè i potenti non sono abbastanza potenti, sbagliano, ignorano. La loro condotta produce conseguenze impreviste, non volute.
Le teorie del complotto affascinano. Forniscono una spiegazione facile ed immediata, ma ci allontanano dalla verità, che raramente è evidente, manifesta. La realtà è sotto i nostri occhi, ma è complessa, sfuggente. Se vogliamo tentare seriamente di risolvere i nostri problemi dobbiamo accettare la complessità, fare i conti con essa, lavorare duramente per scoprire errori, responsabilità e possibilità. Che, appunto, sono visibili ma difficili da leggere, da comprendere, da realizzare. Quando un intellettuale imputa i nostri guai a complotti e cospirazioni, se non ci sta vendendo un romanzetto, diffidiamo. Difficilmente ci dirà cose interessanti.


Scrive Karl Popper in Congetture e confutazioni (pagg. 580 e 581 - ed. 2000):

la "teoria sociale della cospirazione... E' l'opinione secondo cui tutto quel che accade nella società - comprese le cose che la gente, di regola, non ama, come la guerra, la disoccupazione, la povertà, le carestie - sono il risultato di un preciso proposito perseguito da alcuni individui, o gruppi potenti. Quest'opinione è assai diffusa, anche se si tratta, in certo senso, indubbiamente, di una specie di superstizione primitiva... è, nella sua forma moderna, il tipico risultato della secolarizzazione delle superstizioni religiose."

"Contro questa teoria sociale della cospirazione non sostengo, ovviamente, che le cospirazioni non abbiano mai luogo. Affermo invece due cose: in primo luogo, che non sono molto frequenti e non modificano le caratteristiche della vita sociale. Supposto che le cospirazioni cessino, ci troveremmo ancora di fronte, fondamentalmente, agli stessi problemi di sempre.
In secondo luogo, sostengo che esse riescono assai di rado. I risultati conseguiti, di regola, differiscono ampiamente da ciò cui si mirava (si pensi, ad esempio, alla cospirazione nazista)".

"...comprendiamo, chiaramente, che non tutte le conseguenze delle nostre azioni sono intenzionali, e dunque, che la teoria sociale della cospirazione non può essere vera, perché equivale all'asserzione che tutti gli eventi, anche quelli a prima vista non premeditati da alcuno, sono l'esito deliberato dell'azione di coloro che ad essi miravano per interesse".

Concetti analoghi Popper ha espresso nella Società aperta e i suoi nemici, in particolare nel suo capitolo quattordicesimo.

Per la comprensione del problema è ancora utilissima la lettura del Saggio sui potenti di Piero Melograni (ed. 1977), che scrive (pag. 123):

"Ma in tutti i luoghi l'assetto politico-sociale è il risultato di tendenze e di forze numerose e complesse, materiali e spirituali, razionali e irrazionali, difficilmente controllabili. Nel continuo, intricato, ondeggiante accavallarsi di tutte queste forze e tendenze deve essere cercata la spiegazione delle diverse situazioni storiche nelle quali gli individui e le collettività si trovano concretamente ad operare. Gli stessi capi... sono profondamente condizionati e spesso addirittura travolti dalla circostante realtà".



domenica 24 ottobre 2010

Victor Zaslavsky. Una vita per la libertà e la verità.

Il professor Victor Zaslavsky è nato a San Pietroburgo, allora Leningrado, nel 1937. Suo padre, professore di metallurgia, era un "vecchio bolscevico", cioè era entrato nel partito prima del 1917. Sua madre, medico, divenne membro del partito due anni dopo la rivoluzione d'Ottobre. Come altri bolscevichi del periodo rivoluzionario che riuscirono a sopravvivere al Terrore staliniano furono da questo duramente colpiti nelle convinzioni e negli affetti.
Victor Zaslavsky intraprese lo studio della sociologia quando già esercitava la professione di ingegnere minerario. Passò successivamente al lavoro universitario. Costretto ad emigrare con la sua famiglia si stabilì in Canada, ottenendone la cittadinanza. Insegnò in università statunitensi e canadesi. Negli ultimi anni ha insegnato sociologia politica in Italia. E' scomparso nel 2009. Sua moglie e collaboratrice è stata la professoressa Elena Aga Rossi, insigne storica dell'Italia contemporanea e della Guerra Fredda.
Si deve principalmente al professor Zaslavsky il recente profondo rinnovamento della storiografia relativa al Partito comunista italiano. Egli, avvalendosi della conoscenza del russo, sua lingua madre, dell'esperienza diretta della Russia sovietica e soprattutto della possibilità di consultare fondamentali documenti conservati negli archivi russi, ha riscritto la storia del comunismo italiano collocandolo in un contesto internazionale.
Alla luce delle direttive sovietiche e dei rapporti di forza tra le grandi potenze, le decisioni dei dirigenti comunisti italiani e le vicende del partito sono state rilette e ricostruite su basi nuove e realistiche, abbandonando l'impostazione apologetica prevalente nell'opera degli storici italiani.
A Victor Zaslavsky va anche riconosciuto il merito di aver posto con chiarezza il problema dell'eredità politica e culturale lasciata dal vecchio partito comunista italiano, nonchè di aver sollevato con coraggio la questione della responsabilità morale e politica dei dirigenti e degli intellettuali italiani che fino al crollo dell'Unione Sovietica ne hanno agevolato l'azione e favorito l'influenza.
Scrive Zaslavsky nel suo fondamentale "Lo stalinismo e la sinistra italiana" (pag. 8 e 39):

"Ci sono purtroppo numerosi indizi significativi che i conti con lo stalinismo non sono stati ancora fatti e che l'eredità totalitaria continua a pesare sulla società italiana. Ancora oggi persistono la cultura politica della divisione del mondo in due campi, la mentalità della lotta permanente che necessita di avere un "altro" come nemico; l'esagerazione dei contrasti e il rifiuto dell'azione politica bipartisan; la mobilitazione sociale costante, i cui tradizionali scopi, bersagli e metodi risalgono ai totalitarismi del secolo passato".

"Per l'insieme dei dirigenti politici e degli intellettuali si pone con tutta la sua gravità il problema della complicità con un regime totalitario. Stabilire il grado di questa complicità dovrebbe diventare uno dei compiti dello storico che, facilitato dalla distanza temporale e basandosi su documenti e su testimonianze, cerchi di arrivare a una sua imparziale valutazione".

In rete Zaslavsky si può leggere qui:


http://www.ideazione.com/rivista/1998/marzo_aprile_1998/agarossi_zaslavski_2_98.htm

http://www.loccidentale.it/autore/victor+zaslavsky


Tra le principali opere pubblicate in Italia di Victor Zaslavsky da segnalare il notevole Lo stalinismo e la sinistra italiana, già citato.
Poi Storia del sistema sovietico. L'ascesa, la stabilità, il crollo.
Quindi, con Elena Aga Rossi, Togliatti e Stalin - Il PCI e la politica estera staliniana negli archivi di Mosca.

Sempre validissimo, per uno sguardo approfondito sulla Russia del Novecento, é:

Mihail HELLER e Aleksandr NEKRIC, Storia dell'Urss. Dal 1917 a Eltsin.

venerdì 15 ottobre 2010

Luigi Einaudi. Un liberale contro il proporzionalismo.





Luigi Einaudi (1874 - 1961) è stato uno degli esponenti più autorevoli, lucidi ed influenti del liberalismo italiano.
Laureato in giurisprudenza, fu professore universitario e giornalista. Senatore del Regno già nel 1919, con l'avvento del regime fascista la sua attività subì progressive limitazioni.
Si rifugiò in Svizzera dopo l'8 settembre 1943 e rientrò in Italia nel 1944. Nel 1946 fu eletto deputato all'Assemblea costituente. Dal 1945 al 1948 fu governatore della Banca d'Italia. Con De Gasperi presidente del Consiglio fu titolare di ministeri economici. Nel maggio 1948 diventò il secondo presidente della Repubblica italiana.
Nell'ambito del liberalismo italiano si distinse per la sua concezione unitaria della libertà, tratta dalla tradizione dei paesi di lingua inglese. Per Einaudi ogni aspetto della libertà contribuisce alla sua affermazione. Le libertà civili ed economiche sono interdipendenti e tutte necessarie alla realizzazione di una società liberale. In un articolo del 1944 espresse la sua radicale opposizione ai sistemi elettorali proporzionali, unitamente ad una visione del ruolo del parlamento pragmatica e dominata dalla preoccupazione di assicurare al paese governi stabili ed efficienti:

"È necessario dichiarare invece apertamente che questa della rappresentanza delle opinioni è, come tante altre, come ad esempio quella della autodecisione dei popoli o della separazione assoluta del potere legislativo da quello esecutivo o della sovranità dei parlamenti sui governi, e, peggiore di tutte, della sovranità piena degli stati indipendenti, una concezione distruttiva, anarchica, inetta a dar vita a governi saldi".

"I parlamenti non sono società di cultura od accademie scientifiche. Sono organi, il cui scopo unico è quello di formare governi stabili e di controllarne l'azione. Come disse il primo ministro del primo governo laburista, Ramsay Mac Donald, le elezioni non si fanno per contare le opinioni... ma si fanno per mettersi d'accordo in primissimo luogo sul nome della persona che in qualità di primo ministro sarà chiamato a governare il paese, e in secondo luogo sul nome di coloro che collaboreranno con lui o che ne criticheranno l'operato. Le elezioni hanno cioè per scopo di creare il consenso (consensus e non census) intorno ad un uomo ed al suo gruppo di governo ed intorno a chi oggi sarà il suo critico e domani ne prenderà il posto se gli elettori gli daranno ragione. Se non si vuole l'anarchia, questo e non una sterile accademica rassegna di opinioni è lo scopo unico preciso di un buon sistema elettorale".

"Vogliamo che il numero dei partiti, dei gruppi, dei sottogruppi parlamentari si moltiplichi all'infinito? Dobbiamo in tal caso scegliere la proporzionale; ma dobbiamo nel tempo stesso sapere che, così facendo, avremo fatto quel che meglio si poteva per impedire il funzionamento di un governo solido, duraturo ed operoso".

"In fondo, la proporzionale è il trionfo delle minoranze; ognuna delle quali ricatta le altre ed il governo, il quale dovrebbe essere l'espressione della maggioranza, per costringere parlamenti e governi a votare e proporre leggi volute dai singoli gruppi".

"L'errore massimo di principio della proporzionale è di confondere la lotta feconda delle parti, dei gruppi, degli ideali, dei movimenti, la quale ha luogo nel paese, con la deliberazione e l'azione dei parlamenti e dei governi".

Una lezione alta ed ancora pienamente attuale.

venerdì 8 ottobre 2010

Nobel per la pace al dissidente cinese Liu Xiaobo. Per Obama non cambia niente.

Gli stessi ambienti politico-culturali che hanno deciso l'attribuzione ad Obama del Nobel per la pace questa volta hanno conferito il prestigioso premio al dissidente cinese Liu Xiaobo.
Da tempo i rapporti tra USA e Cina sono tesi. Commercio, valute, crisi coreana e Taiwan rappresentano i principali problemi in discussione. Il Nobel di oggi, mentre difende principi irrinunciabili, mette in difficoltà sotto il profilo dell'immagine un competitore duro, sempre meno disposto a compromessi, ma non muta significativamente il quadro dei rapporti internazionali.
Anche in questo ambito la posizione del presidente americano sembra molto difficile. In Afghanistan si prepara un'uscita di scena che assume sempre più i tratti del fallimento, della resa. Obama ha investito le risorse del proprio paese in una guerra che non si può vincere, quella afghana, ponendo a rischio il faticoso successo ottenuto da Bush in Iraq.
I militari iracheni sanno di non essere autosufficienti per almeno altri dieci anni e si oppongono al ritiro USA, che dovrebbe avvenire entro il 2011. Perfino l'ex ministro di Saddam Tarek Aziz afferma che in questo modo il suo paese sarà "lasciato in mano ai lupi".
Obama, espressione di una cultura politica che ha perso ogni genuino contatto con la realtà, prigioniero della propria propaganda, si comporta ogni giorno di più come il liquidatore della potenza americana.
L' intenzione di fronteggiare la nuova emergenza irachena con il ricorso a molte migliaia di contractors mostra tutta la sua inadeguatezza di fronte a problemi che richiederebbero ben altre risorse politiche, morali e materiali. Gli USA sono sempre di più la "tigre di carta" che la satira di regime maoista allora poteva soltanto sognare.


giovedì 30 settembre 2010

Fede e ragione. "Quando sono debole, è allora che sono forte".

Il Cristianesimo si rivolge all'uomo nella sua interezza, quindi non solo al cuore ma anche alla ragione. Il suo nucleo è costituito dalla cristologia, cioè da quanto attiene a Gesù Cristo, alla sua morte e risurrezione. E' del tutto privo di caratteristiche esoteriche. Si offre tutto alla conoscenza di tutti. Non ci sono parti della dottrina cristiana riservate alla conoscenza di iniziati. Questa sua apertura è talmente netta da fargli assumere significativi tratti antintellettualisti.
Nel corso della sua storia millenaria è venuto a contatto con le più importanti correnti filosofiche. Il Magistero della Chiesa cattolica ne ha utilizzato quando necessario l'apparato concettuale per presentare, diffondere e difendere il messaggio cristiano, quindi prevalentemente nella prospettiva apologetica.
Individuerei in particolare due linee di sviluppo dottrinale, sempre ricondotte ad una visione sostanzialmente unitaria, segnate da accentuazioni diverse e non prive di qualche elemento apparentemente divergente.
La prima pone in rilievo la capacità umana di cogliere oggettive ed assolute verità metafisiche e morali. L'uomo già con le sue sole facoltà razionali sarebbe in grado di avvicinarsi alla Rivelazione, di predisporsi ad essa, perfino di conseguire, sia pure assai confusamente ed imperfettamente, alcuni suoi contenuti.
A questa linea è riconducibile, ad esempio, questo passo dell'enciclica Humani Generis di Pio XII:

"Benché la ragione umana, assolutamente parlando, con le sue forze e con la sua luce naturale possa effettivamente arrivare alla conoscenza, vera e certa, di Dio unico e personale, che con la sua Provvidenza sostiene e governa il mondo, e anche alla conoscenza della legge naturale impressa dal Creatore nelle nostre anime, tuttavia non pochi sono gli ostacoli che impediscono alla nostra ragione di servirsi con efficacia e con frutto di questo suo naturale potere".


La seconda linea invece mette in evidenza l'insufficienza della sapienza umana e la radicale novità della Rivelazione, indicando nella consapevolezza dei limiti e della debolezza di tale sapienza una condizione necessaria per l'accoglienza della salvezza che Dio ci offre. Questa via sembra percorrere Giovanni Paolo II nel seguente brano della sua enciclica Fides et Ratio:

" Il rapporto del cristiano con la filosofia, pertanto, richiede un discernimento radicale. Nel Nuovo Testamento, soprattutto nelle Lettere di san Paolo, un dato emerge con grande chiarezza: la contrapposizione tra "la sapienza di questo mondo" e quella di Dio rivelata in Gesù Cristo. La profondità della sapienza rivelata spezza il cerchio dei nostri abituali schemi di riflessione, che non sono affatto in grado di esprimerla in maniera adeguata.
L'inizio della prima Lettera ai Corinzi pone con radicalità questo dilemma. Il Figlio di Dio crocifisso è l'evento storico contro cui s'infrange ogni tentativo della mente di costruire su argomentazioni soltanto umane una giustificazione sufficiente del senso dell'esistenza. Il vero punto nodale, che sfida ogni filosofia, è la morte in croce di Gesù Cristo. Qui, infatti, ogni tentativo di ridurre il piano salvifico del Padre a pura logica umana è destinato al fallimento. " Dov'è il sapiente? Dov'è il dotto? Dove mai il sottile ragionatore di questo mondo? Non ha forse Dio dimostrato stolta la sapienza di questo mondo? " (1 Cor 1, 20), si domanda con enfasi l'Apostolo. Per ciò che Dio vuole realizzare non è più possibile la sola sapienza dell'uomo saggio, ma è richiesto un passaggio decisivo verso l'accoglienza di una novità radicale: " Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti [...]; Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono " (1 Cor 1, 27-28). La sapienza dell'uomo rifiuta di vedere nella propria debolezza il presupposto della sua forza; ma san Paolo non esita ad affermare: " Quando sono debole, è allora che sono forte " (2 Cor 12, 10)"

Si tratta, come detto, di una diversa accentuazione di elementi tutti presenti nelle Scritture e nella Tradizione. E la differenza non cade sulla parte centrale della fede cristiana, rappresentata dalla cosiddetta cristologia.
Viene in sostanza in questione l'approccio apologetico da adottare. E allora vale la pena di considerare con attenzione le opinioni del professor Dario Antiseri che, indagando il possibile rapporto tra fede e ragione, prende le mosse dalla tendenza per seconda esaminata e propone un approccio alla fede cristiana imperniato su una concezione critica della ragione umana. Arrivando a valutare favorevolmente perfino gli esiti relativistici dell'etica contemporanea che, quando demolisce gli assoluti terrestri, fa spazio alla Rivelazione cristiana. Antiseri si richiama al pensiero di Pascal anche nella critica della morale naturale e del diritto naturale.
Egli scrive:

"In realtà, sebbene non sia stata l'unica, persiste nel mondo cattolico una tradizione che, dichiarandosi come la sola filosofia cristiana ortodossa, sostiene che c'è un sapere razionale con "tratti di oggettività e magari di incontrovertibilità" in grado di portare alla dimostrazione dell'esistenza di entità metaempiriche. La ragione, insomma, dimostrerebbe l'esistenza di quell'Ente metaempirico che poi il cristiano individuerebbe nel Dio di Gesù Cristo. E' così che la metafisica, dimostrando l'esistenza di Dio, appronterebbe i praeambula fidei configurandosi come ancilla theologie".

"Ad una ragione forte (o supposta tale), troppo sicura di sé e che presume di dimostrare la negazione dello spazio della fede ovvero, viceversa, di dimostrare l' esistenza di enti metaempirici, si è venuta progressivamente sostituendo un'idea di razionalità sempre più consapevole dei suoi limiti e che impone di reimpostare la questione dei rapporti tra ragione e fede. Di contro ad una ragione fondazionista e giustificazionista si impone una ragione non-giustificazionista stando alla quale la scienza non offre certezze, l'etica è senza verità, le metafisiche sono prive di fondamenti assoluti.
In tale prospettiva...svaniscono le dimostrazioni certe o magari incontrovertibili dell'esistenza di Dio ovvero della negazione dell'esistenza di Dio. Al loro posto subentra uno spazio di possibilità dove si fa ineludibile, perché ineludibile è la "grande domanda", la scelta atea o quella di fede". (D. ANTISERI, Cristiano perché relativista, relativista perché cristiano, 2003, pagg. 4 e 5)

E poi ancora:

"Per un cristiano, ciò che è bene e ciò che è male lo stabilisce il Vangelo o la ragione umana? E se lo stabilisse la ragione umana, non dovremmo allora dare ragione ai sostenitori della “dea ragione”, per i quali “mestier non era parturir Maria”?
Per un cristiano solo Dio è assoluto, per cui tutto ciò che è umano non può essere che storico, contestabile, relativo.
Il cristiano, pena la sua metamorfosi in idolatra, può predicare l’assolutezza di qualche cosa umana, comprese le proposte etiche?"

" L’umana ragione non è capace di fondare in modo univoco e incontrovertibile i valori, e la morale non trova il suo porto nella ragione. Lo trova nella fede, nel Dio dei cristiani. “La vera religione c’insegna i nostri doveri”. La vera giustizia è quella “secondo a Dio piacque di rivelarcela”. Solo Dio è “il vero bene” dell’uomo. In fondo, tutti i nostri “lumi” potranno solo farci conoscere che in noi non troveremo “né la verità né il bene”. In breve, “senza la fede l’uomo non può conoscere né il suo vero bene né la giustizia”. E la fede cristiana – dono da parte di Dio e scelta da parte dell’uomo – è una fede che va predicata, proposta e testimoniata, e non imposta. E se Pascal ha ragione, la presunzione di sapere, di conoscere, al di fuori della Sacra Rivelazione, che cosa sia il vero bene, non è forse una presunzione anticristiana? "





Come non pensare appunto a san Paolo che afferma: "Quando sono debole, è allora che sono forte "?



venerdì 24 settembre 2010

Le difficoltà di Obama e la crisi americana.

La ripresa economica americana è più lenta e debole del previsto. La popolarità di Obama scende mentre tra poco più di un mese le elezioni di midterm potrebbero rovesciare l'attuale maggioranza al Congresso. Gli Stati Uniti sono oggi come due anni fa un paese diviso e disorientato. Lo stesso disorientamento che ha portato Obama alla presidenza oggi, in altre direzioni e con differenti modalità, determina il successo del Tea Party.
Ma le ragioni profonde della crisi restano troppo spesso in ombra. La globalizzazione rapida e senza regole ha messo a nudo problemi di produttività e di competitività soltanto in parte mascherati dal successo di alcune grandi compagnie. Appare insostenibile una crescita stimolata dal debito privato ed ora anche da quello pubblico. La disgregazione delle famiglie, l'indebolirsi dell'etica del lavoro e della responsabilità, l'insufficiente propensione al risparmio individuale e familiare, l'inefficienza della scuola pubblica, la diffusione di stili di vita autodistruttivi minano i pilastri di una ripresa economica diffusa e solidamente proiettata nel futuro.
Le riforme di Obama, dirette a tamponare la crisi con l'imponente ricorso alla spesa pubblica e con discussi interventi in ambito assistenziale, non incidono realmente su quelle fondamenta sociali e morali che sono chiamate a reggere il paese ed a consentirne un solido sviluppo. Si tratta del resto di ambiti dove le tradizioni svolgono un ruolo decisivo. Esiste una significativa asimmetria tra la capacità dello stato di contribuire alla distruzione di un assetto tradizionale tramite riforme dalle conseguenze spesso impreviste e l'idoneità dello stato stesso a promuovere ed a consolidare altre auspicate tradizioni. Qui distruggere è assai più facile che costruire.
Occorre insomma ottenere una consapevolezza più precisa delle ragioni profonde della debolezza del paese ed assumere comportamenti conseguenti, abbandonando visioni e programmi che di questa debolezza sembrano insieme causa ed espressione. Con l'obiettivo di ricostruire una solida e vitale democrazia liberale, capace di confrontarsi con successo con il rinnovato autoritarismo cinese.
Se Obama non rinnegherà se stesso, le sue promesse ed i suoi programmi del suo grande paese potrà essere solo il liquidatore, il curatore fallimentare. E non per molto. Questo video, uno spot di Sarah Palin, mostra un'America profonda che noi europei spesso non comprendiamo. La sua reazione può ancora sorprendere. Vedremo quale direzione prenderà.




mercoledì 15 settembre 2010

Il nuovo autoritarismo nell'età della globalizzazione. I problemi di efficienza delle democrazie liberali.

Nell'economia globalizzata gli imprenditori si procurano ormai liberamente i fattori della produzione in qualsiasi parte del mondo, dove sono più convenienti, mentre i consumatori acquistano beni e servizi provenienti anche dai paesi più lontani.
Queste relazioni collegano gli interi sistemi paese come vasi comunicanti. Si produce una pressione ad uguagliare tutti gli elementi che determinano, anche indirettamente, la convenienza dei fattori della produzione, dei prodotti e dei servizi. 
Tali elementi comprendono le caratteristiche della pubblica amministrazione, la presenza e il modo di operare di partiti e sindacati, perfino le forme di stato e di governo. Sono rilevanti la prontezza dei governi a prendere decisioni, la rapidità nell'eseguirle, la loro capacità di fare, tener fermi ed attuare programmi a lunga scadenza, di imporre la costruzione di infrastrutture necessarie a comunità locali recalcitranti, di influire adeguatamente sulla propensione di individui e famiglie al risparmio ed al differimento della soddisfazione dei desideri.
Bisogna francamente ammettere che i rinnovati regimi autoritari del Ventunesimo secolo, tra i quali il cinese rappresenta ormai un modello, eliminati o ridotti i tratti di ferocia ed ottusità che prima li caratterizzavano pesantamente, costituiscono ormai sotto questo profilo antagonisti delle democrazie liberali assai insidiosi.
Tali democrazie tendono al contrario ad avere processi decisionali pubblici lenti e farraginosi, a subordinare l'azione dei governi alle tendenze ondivaghe dell'opinione pubblica sotto la pressione di scadenze elettorali ravvicinate, a subire eccessivamente il condizionamento dei sindacati. Esistono insomma per le democrazie occidentali evidenti problemi di efficienza.
Quali soluzioni? Premesso che le tradizioni in questo ambito rivestono un ruolo molto importante e si formano in larga misura spontaneamente, occorre riconoscere che le riforme ipotizzabili sembrano assai impopolari.
Si dovrebbe limitare il ruolo degli istituti di democrazia diretta, rafforzare per converso i tratti rappresentativi delle istituzioni democratiche, diradare le consultazioni elettorali, diminuire il peso dei parlamenti, soprattutto escludendo la possibilità di modificare i provvedimenti di spesa presentati dai governi al vaglio dei parlamenti stessi, adottare sistemi elettorali intensamente maggioritari su base nazionale, favorire la stabilità dei governi, circoscrivere attentamente le competenze delle autonomie locali.
Svolta autoritaria? Morte della libera democrazia? No! Ritorno al suo ruolo essenziale di consentire la sostituzione dei governi cattivi senza spargimento di sangue, seguendo percorsi istituzionali predeterminati. Nell'Atene democratica classica Pericle pose a fondamento e giustificazione della democrazia rappresentativa il principio secondo il quale non tutti possono governare, ma tutti devono poter giudicare chi governa. Troppo a lungo ci siamo allontanati da questa corretta visione delle possibilità e del ruolo della democrazia.



giovedì 9 settembre 2010

Libertà religiosa e tolleranza. Libertà e tolleranza non devono essere causa della propria distruzione


Negli Stati Uniti la proposta di costruire una moschea a Ground Zero ha determinato una accesa controversia tra favorevoli e contrari. I primi, tra i quali il sindaco Bloomberg e lo stesso presidente Obama, hanno invocato i principi costituzionali di libertà religiosa e di tolleranza.
Però il richiamo di Obama a tali principi presta il fianco ad obiezioni fondamentali. In realtà libertà e tolleranza non solo possono ma devono essere limitate e regolate. Va poi sottolineato che le religioni sono molto diverse tra loro quanto a contenuti ed effetti sul piano sociale, culturale, istituzionale e perfino economico.
Solo regole e limiti possono garantire a tutti uguale libertà e tolleranza. Ed ancora solo regole e limiti possono evitare che libertà e tolleranza siano causa della propria distruzione. Uno dei più lucidi ed influenti intellettuali liberali del Novecento, Karl Popper, scrive nella Società aperta e i suoi nemici, nota 4 al capitolo settimo del volume primo:

"Se estendiamo l'illimitata tolleranza anche a coloro che sono intolleranti, se non siamo disposti a difendere una società tollerante contro l'attacco degli intolleranti, allora i tolleranti saranno distrutti, e la tolleranza con essi."

"Noi dovremmo quindi proclamare, in nome della tolleranza, il diritto di non tollerare gli intolleranti. Dovremmo insomma proclamare che ogni movimento che predica l'intolleranza si pone fuori legge e dovremmo considerare come crimini l'incitamento all'intolleranza e alla persecuzione, allo stesso modo che consideriamo un crimine l'incitamento all'assassinio, al ratto o al ripristino del commercio degli schiavi."

Molto importante è inoltre porre in rilievo che non tutte le religioni sono compatibili con le istituzioni libere e la società aperta. Oggi l'esigenza di osservare i canoni del "politicamente corretto" prevale sul rispetto della verità. Ma non è sempre stato questo l'approccio prevalente. I grandi precursori del pensiero liberale non erano certo dominati da tali preoccupazioni.
Significative le parole di Tocqueville nella Democrazia in America, libro terzo, parte prima, capitolo quinto:

"... nel Corano non solo dottrine religiose, ma anche massime politiche, leggi civili e criminali e teorie scientifiche. Il Vangelo, invece, parla solo dei rapporti generali degli uomini con Dio e fra loro. Al di fuori di questo non insegna nulla e non obbliga a credere nulla. Questo soltanto, fra mille altre ragioni, basta a mostrare che la prima di quelle due religioni non può dominare a lungo in tempi di...democrazia, mentre la seconda è destinata a regnare anche in quei secoli come in tutti gli altri."

E, prima di lui, Montesquieu, nel libro ventiquattresimo, capitoli quarto e terzo dello Spirito delle leggi:

"Per quanto riguarda il carattere della religione cristiana e quello della religione musulmana, si deve senz'altro abbracciare l'una e respingere l'altra: perchè per noi è molto più evidente che una religione debba addolcire i costumi degli uomini, di quanto non sia evidente che una religione è la vera.

E' una sciagura per la natura umana che la religione sia data da un conquistatore. La religione maomettana, la quale non parla che di spada, influisce ancora sugli uomini con quello spirito distruttore che l'ha fondata.

La religione cristiana è lontana dal dispotismo puro: infatti, essendo la mitezza tanto raccomandata nel Vangelo, essa si oppone alla collera dispotica con cui il principe si farebbe giustizia e metterebbe in pratica le sue crudeltà.

.....dobbiamo al cristianesimo, nel governo un certo diritto politico, e nella guerra un certo diritto delle genti, di cui l'umanità non potrebbe mai essere abbastanza riconoscente."

La società aperta e le istituzioni libere hanno bisogno di difensori forti ed attenti. Senza di essi anche i più solidi baluardi cadono.




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