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venerdì 28 marzo 2014

Il principio di autodeterminazione dei popoli.




La crisi ucraina, con la secessione della Crimea, ha riportato all'attenzione di tutti il principio di autodeterminazione dei popoli.

 Tale principio, che afferma il diritto dei popoli di scegliere autonomamente il proprio destino, è stato posto dal presidente degli Stati Uniti  d'America Woodrow Wilson a fondamento dell'ordine internazionale stabilito dai vincitori dopo la Prima guerra mondiale. La Carta delle Nazioni Unite (ONU), che ha valore di trattato internazionale e risale alla fine della Seconda guerra mondiale, lo ha recepito nell'articolo 1, paragrafo 2, attribuendo all'organizzazione il compito di "Sviluppare tra le nazioni relazioni amichevoli fondate sul rispetto e sul principio dell'eguaglianza dei diritti e dell'auto-decisione dei popoli, e prendere altre misure atte a rafforzare la pace universale".

In realtà questo principio, spesso connesso all'idea di nazione, ha svolto un ruolo assai negativo, determinando e legittimando guerre, genocidi, crudeltà e sofferenza. Il suo più lucido e coerente critico è stato Karl Popper:

"La  religione nazionalistica è ben radicata. Molti sono pronti a morire per essa, credendo che sia moralmente valida, e autentica. Ma si sbagliano... Poche fedi hanno generato più odio, crudeltà, e inutili sofferenze, della credenza nella validità del principio di nazionalità..." (Congetture e confutazioni, 2000, p. 624 e seg.).

Il "principio dello stato nazionale...deve la sua popolarità esclusivamente al fatto che si rivolge agli istinti tribali e che è il meno costoso e più sicuro metodo con cui può affermarsi un politico che non abbia niente di meglio da offrire" (La società aperta e i suoi nemici, Vol. I, 1981, p. 390).

"Le idee di Fichte e di Hegel portarono al principio dello stato nazionale e dell'auto-determinazione nazionale, un principio reazionario... che il democratico Wilson fece proprio. Questo principio è ovviamente inapplicabile in questa terra e specialmente in Europa, dove le nazioni (cioè i gruppi linguistici) sono così fittamente intricate che è assolutamente impossibile districarle. Le terribili conseguenze del tentativo di Wilson di applicare questo principio romantico alla politica europea dovrebbero essere ormai chiare a chiunque. Che l'assetto di Versailles fosse duro, è un mito; che ai principi di Wilson fosse mancato il consenso, è un altro mito. Il fatto è che tali principi non potevano essere applicati più coerentemente; e Versailles fallì soprattutto a causa del tentativo di applicare gli inapplicabili principi di Wilson" (La società aperta e i suoi nemici, vol. II, 1981, p. 418).

Questo principio  perverso è stato recentemente applicato in Kosovo ed è ora richiamato in Ucraina. E' però erroneamente ritenuto liberale. Un liberale dovrebbe invece far propria la massima latina "ubi bene ibi patria": la patria è dove è possibile condurre una vita buona.

venerdì 21 marzo 2014

Spending review? Non basta!



  Su La Stampa del 21 marzo 2014 Paolo Baroni ha delineato potenzialità e limiti della spending review di cui si parla da tempo:

" Arrivare a risparmiare 34 miliardi su un bilancio dello Stato che ne assorbe più di 700 sulla carta non dovrebbe essere un gran problema, perché alla fine stiamo parlando di un 5% scarso di spesa. Ciò non toglie che quello della spending review che il governo sta avviando si presenti come un vero e proprio percorso di guerra, fatto comunque di trabocchetti, ostacoli burocratici, prassi da scardinare, ma soprattutto volontà politiche da affermare e imporre ad ogni livello".

"Qui il rischio che si tocchi carne viva è concreto", scrive l' editorialista del quotidiano torinese. Eppure anche se portata alle sue estreme conseguenze la cosiddetta  spending review non potrebbe dare un apprezzabile impulso alla declinante economia.

La spesa pubblica italiana ammonta a circa ottocento miliardi di euro e corrisponde a oltre la metà del PIL. Per fronteggiare una tale spesa il fisco preleva oltre il 50% dello stesso prodotto interno lordo. E' verosimile che solo una riduzione della pressione fiscale su produttori, consumatori e risparmiatori pari a un quarto ( oltre centocinquanta miliardi) riesca a dare nuovo slancio a produzione e occupazione. Tale riduzione può avvenire senza incrementare il debito pubblico soltanto diminuendo in misura corrispondente la spesa pubblica. E' dunque necessario risparmiare più di  centocinquanta miliardi di euro, di gran lunga maggiori dei pochi miliardi obiettivo della sognata spending review.
Uno sguardo alla spesa pubblica dell' Eurozona purtroppo obbliga ad immaginare riforme strutturali ben più incisive. La spesa pubblica italiana è sostanzialmente in linea con quella media dei paesi dell' area euro. Ciò significa che una razionalizzazione della spesa, con eliminazione degli sperperi, senza riduzione dell' ampiezza del settore pubblico, consentirebbe di ottenere forse una efficienza europea ma non una adeguata diminuzione delle uscite pubbliche.


Di questa dura realtà ha recentemente preso atto il governo olandese, che per bocca dello stesso re ha prospettato la fine del welfare state.

Occorre parlare con franchezza ai ceti medi italiani ed alle imprese, proponendo un patto preciso: ad una importante diminuzione della pressione fiscale dovrà corrispondere l' assunzione di maggiori responsabilità. Solo gli indigenti avrebbero servizi gratuiti, mentre dovrebbero cessare i trasferimenti alle imprese, con un netto taglio del cosiddetto capitalismo relazionale.
 La società deve sempre più bastare a se stessa, alleggerendo lo stato di compiti ormai insostenibili. Minore intermediazione pubblica della ricchezza prodotta, certezza del diritto, concorrenza estesa a settori più ampi, educazione del cittadino alla libertà responsabile. Queste le necessarie premesse della ripresa auspicata. La strada è in salita, ma rappresenta la sola alternativa al declino.

venerdì 14 marzo 2014

Ucraina. Scontro di debolezze.




Mentre la crisi russo-ucraina sembra aggravarsi è opportuno dar conto  di alcuni lucidi interventi fuori del coro, che indicano prospettive di analisi e linee di condotta in larga misura condivisibili.
Su affarinternazionali.it  l'11 marzo 2014 il generale Vincenzo Camporini ha scritto:

"La Russia di Putin, che si sente l’erede di una storia millenaria, non è solo l’epigono dell’Unione Sovietica ma continua ad essere il paese più grande del mondo in termini di superficie, e non vuole essere schiacciato a occidente e a oriente da potenze che non riuscirà mai a percepire come amiche, anche perché consapevole delle sue insuperabili debolezze strutturali, dalla demografia in discesa al fatiscente quadro industriale, che non consentono alla dirigenza di Mosca di guardare con ottimismo alle decadi future. Ne consegue l’ansia di circondarsi di una fascia di paesi in qualche modo legati da un vincolo che, a seconda del punto di vista, si può definire di amicizia o di vassallaggio..."

"Quanto accaduto negli ultimi anni e in particolare negli ultimi mesi in Ucraina ha fortemente alimentato le preoccupazioni russe, con una spaccatura tra due fazioni che si sarebbe dovuta evitare e le cui colpe possono essere equamente distribuite: da un lato chi sogna un’impossibile riunificazione con Mosca, percepita come Grande Madre ed a cui è pesantemente legata, non fosse altro che per le forniture energetiche, dall’altro chi invece guarda all’Occidente come il solo attore che possa offrire una prospettiva di futuro sviluppo e di apertura di mercati che possa far rinascere un’economia ansimante. Due visioni percepite come confliggenti e mutuamente esclusive.
L’errore di entrambe le parti, Occidente e Russia, è stato quello di alimentare queste visioni senza cercare sagacemente una sintesi che avrebbe potuto, e potrebbe ancora, portare al superamento di queste opposte visioni: un grave errore, alimentato dalle reciproche diffidenze antiche di quasi un secolo cui è tempo di rimediare.
Non è obbligatorio che Kiev stia da una parte o dall’altra: bisogna trovare una via di mezzo che salvaguardi gli obiettivi a breve di entrambi e costituisca inoltre il fondamento di una futura collaborazione strategica che è storicamente indispensabile, per essere pronti ad affrontare con successo le sfide poste dell’emergere di culture e potenze la cui compatibilità con la visione del mondo che ci appartiene è dubbia e tutta da dimostrare". 

"È illuminante l’articolo di qualche giorno fa di Hanry Kissinger sul Washington Post, che sollecita un approccio mirato a attenuare le contrapposizioni interne all’Ucraina, mettendo da parte qualsiasi ipotesi di una sua adesione alla Nato che sarebbe inevitabilmente percepita da Mosca come atto ostile, ma aprendo a un rapporto più stretto con l’Unione europea, secondo uno schema che è stato definito di ‘finlandizzazione’ dell’Ucraina e che ha il potenziale di trasformare Kiev da terreno di scontro della opposte ambizioni (interne ed esterne), a ponte ideale tra Occidente e Mosca, su cui costruire un rapporto basato sulla fiducia e non sulla diffidenza. 
Non è una via agevole, anche perché presuppone una convincente azione di ‘moral suasion’ su chi oggi detiene le leve del potere in Ucraina, come su chi soffia sul fuoco delle tendenze separatiste, ma è una via che deve essere seguita con determinazione, in quanto figlia di una visione sensata e fattibile su cui si deve investire, in modo che da questa partita tutti possano uscire come vincitori".

L'analisi di Camporini  presenta significativi punti di contatto con altri autorevoli interventi.
Il 3 marzo 2014 Neil Melvin su sipri.org ha così commentato la situazione:

"While the origin of the crisis lies in the confrontation between ousted Ukrainian President Viktor Yanukovych and an opposition movement protesting against what it saw as a corrupt and illegitimate government, the catalyst for the violence has been the geopolitical struggle for Ukraine that has been played out over recent years between the transatlantic community and Russia.
Competition between the integration projects of the European Union (EU), in the form of its proposed Association Agreement with Ukraine, and Russia, through its Customs Union, has served to destabilize the delicate east-west balance in Ukrainian foreign and security policy and, thereby, put pressure on the fragile regional, linguistic and ethnic mosaic that makes up contemporary Ukraine".

Melvin sottolinea la portata della contesa geopolitica per l'Ucraina tra Occidente e Russia e il ruolo destabilizzante dei contrapposti progetti di integrazione. Da segnalare anche, su nationalinterest.org, l'attenta analisi proposta da Dimitri K. Simes e Paul J. Saunders:

 "Once the protests began, the administration essentially abandoned its efforts to persuade Russia that Ukraine’s Western orientation would be “win-win” and instead supported a “winner-takes-all” approach..."

" After Russian forces established control in Crimea, Obama returned to a policy process that has already failed repeatedly elsewhere: 1) make bold and moralistic pronouncements, 2) put America’s prestige and credibility on the line, and 3) produce no real policy. U.S. policy toward Syria has been the most visible and damaging application of this approach so far, but it is far from the only one. This is how an administration that entered office determined to rebuild America’s image has instead further marred it, discouraged allies, and emboldened foes—grand talk and no action. The administration’s peculiar combination of Bush-era self-righteousness with Obamian instinctive caution, whether through analysis-paralysis or simple timidity, offers the worst of both worlds".

"In the end, China’s rise is much more significant than Crimea’s fate, and the United States should avoid reacting to the Ukraine crisis in ways that could severely undermine its ability to manage this paramount priority. China and Russia are not allies today and Beijing will not publicly support Crimea’s self-determination, something that Chinese leaders clearly see as contrary to their view of their own country’s territorial integrity. Nevertheless, there is little doubt about Beijing’s views of who is to blame for the crisis in Ukraine—the West—or about China’s sympathy for Moscow. Leaving Moscow no alternative to a far stronger relationship with Beijing, possibly including new high-tech arms sales and even diplomatic support of China’s territorial claims, would be a Pyrrhic victory. Perversely, efforts to displace Russia’s gas exports to Europe, which current events are likely to accelerate, may make Russian-Chinese deals more likely by putting new pressure on Gazprom to accept the lower prices China is offering. As Henry Kissinger recently wrote, the administration should remember that “the test of policy is how it ends, not how it begins.”".

"Finally, Washington should think long and hard about America’s complex relations with China. If necessary, the United States can confront either Moscow or Beijing, but the U.S. should avoid a simultaneous break with both—something much more difficult to manage. We cannot afford further missteps.
Finally, we must keep a sense of perspective about Russia. Vladimir Putin may have seized Crimea, but he is not Adolf Hitler. History rarely repeats itself. Still, 2014 looks less like 1939 than 1914. In the decade preceding World War I, Russia was weakened by the 1904-05 Russo-Japanese war and its 1905 revolution, and consequently accepted several humiliating setbacks in the Balkans at the hands of the Austro-Hungarian Empire and Imperial Germany. In response, Tsar Nicholas II decided to consolidate his alliance with Britain and France and to modernize the Russian army. Moscow finally took a stand in August 1914, surprising Kaiser Wilhelm and Emperor Franz Joseph, who thought that Russia would not dare to call their bluff. Indeed, the resulting war was suicidal for Russia and its Tsar, but Nicholas took Germany and Austria-Hungary down the drain with him. In an era before nuclear weapons, millions of Europeans died. And the war’s apparent winners—Britain and France—soon faced terrible new challenges".

Due "tigri di carta" si contrappongono. Gli USA di Obama sono fiaccati dal consumo a debito, dal fallimento delle principali agenzie educative, dalla caduta dell'etica del lavoro e della responsabilità. Solo il rapido incremento della produzione di shale gas/oil compensa parzialmente  le insufficienti prestazioni del sistema.
La Russia di Putin è segnata da una tendenza demografica sfavorevole, dalla bassa produttività, dall'eccessiva dipendenza dall'esportazione di armi, materie prime, gas naturale e petrolio, dalla presenza di una sempre più numerosa popolazione islamica.
Questi due giganti malati, nessuno dei quali è più avvelenato da ideologie totalitarie, non hanno nulla da guadagnare da una prolungata lotta. O vincono o si indeboliscono ancora entrambi. La nuova superpotenza cinese e il fondamentalismo islamico sarebbero i veri vincitori di una contesa geopolitica senza valide ragioni, tale da evocare non Danzica ma Sarajevo.

venerdì 7 marzo 2014

Democrazia di scambio.




Oggi gli approcci macroeconomici e monetaristi alla crisi prevalgono. Le fondamenta sociali, culturali e morali del sistema paese, che invece costituiscono la parte decisiva del suo potenziale di crescita, restano nella migliore delle ipotesi sullo sfondo. Sul Corriere della Sera del 3 marzo 2014 il professor Ernesto Galli Della Loggia si pone coraggiosamente nella prospettiva corretta, dando ragguaglio della evoluzione dei rapporti tra politica e società italiane negli ultimi decenni:

"Qual è la causa profonda della crisi italiana, che ormai sappiamo bene essere una crisi niente affatto congiunturale? Un filo per imbastire una risposta adeguata lo si trova leggendo i saggi di un volume curato da Gianni TonioloL’Italia e l’economia mondiale dall’unità a oggi — e pubblicato nella bella collana storica della Banca d’Italia. Come spesso capita, la prospettiva dei tempi lunghi, soprattutto centrale nel saggio introduttivo del curatore, serve a far vedere meglio le cose".

"...il rapporto tra il Prodotto interno lordo pro capite italiano e quello degli Usa è tornato nel 2010 ai livelli del 1973. In questo secolo, insomma, la nostra crescita è semplicemente inesistente, e da un certo punto in poi inizia addirittura una decrescita. Un deterioramento complessivo di cui può essere considerato un preannuncio simbolicamente esemplare ciò che a cominciare dagli anni Ottanta avviene del rapporto debito/Pil: da circa il 60 per cento nel 1979 si passa in un solo decennio al 90, per arrivare nel 1992 al 105 per cento".

"...in Italia ciò che è venuto meno non è qualcosa che attiene direttamente all’economia, ma è piuttosto una generale «capacità sociale di crescita» (Toniolo). 
Diviene allora impossibile non collegare il ciclo economico a quello politico, e chiedersi se negli Anni 70/80, data di inversione del primo, non sia cominciato ad accadere anche nel secondo qualcosa di significativo che possa essere messo in relazione con esso. Ebbene, questo qualcosa è senz’altro accaduto, e si chiama avvento di un consenso elettorale ad alto tasso di contrattazione".

"...sempre maggiore libertà avrebbe richiesto maggiore responsabilità. Di cui invece, per varie ragioni qui troppo lunghe a dirsi, la società italiana non era certo pronta a farsi carico. In Italia maggiori spazi di democrazia vollero dire che a partire dagli anni Settanta si aprì un mercato elettorale nel quale diveniva sempre più difficile per il compratore politico opporsi alle richieste molteplici e inevitabilmente settoriali dei diversi gruppi sociali decisi a sfruttare al meglio il proprio voto. Si spiega in questo modo tutta una serie di fenomeni destinati nei decenni successivi ad aggravarsi e a produrre conseguenze negative molto importanti: l’espansione caotica e costosa dello Stato sociale, i sussidi indiscriminati alle imprese, il peggioramento della qualità dell’istruzione e della Pubblica amministrazione a causa di concessioni «permissiviste» dall’alto e pansindacalismi e agitazioni democraticiste dal basso. Nel mentre l’istituzione delle Regioni e le varie «riforme» non mancavano di produrre una progressiva perdita di controllo del centro su tutte le periferie e su tutti gli insiemi".

"...la società che prende il sopravvento si rivela per ciò che è: una società con un assai debole «capitale civico», familistica e corporativizzata, complessivamente poco istruita e poco interessata a informarsi, il cui interesse per la libera discussione è scarsissimo, dislocata geograficamente, divisa in interessi particolari accanitamente decisi ad autotutelarsi; dove il privato tende sempre a prevalere su ciò che è pubblico o a piegarlo al proprio servizio; dove non esistono élite sociali e culturali unanimemente riconosciute. Dove sì, le energie non mancano, ma dove si manifesta sempre fortissima la resistenza al cambiamento, al merito, alla mobilità".

"È compatibile — questo è il punto — una società del genere con un moderno sviluppo economico? E soprattutto: può riuscire a esprimere una strategia appena appena coerente rispetto allo sviluppo anzidetto un sistema politico che deve operare in un tale clima «democratico»? Che è costretto a contrattare periodicamente il proprio consenso con una tale società?".

E' del tutto evidente che il passaggio del paese alla modernità non è stato determinato e accompagnato da una adeguata evoluzione culturale e morale. Senza tale evoluzione la pressione esercitata dalla società aperta e dalla economia globalizzata diventa insostenibile. Domanda e offerta politiche si incontrano su personalità e soprattutto obiettivi incompatibili con i presupposti della crescita economica e sociale.
Da notare che tale deficit di capitale civico, culturale e morale può essere anche l'esito di una involuzione, del declino da una condizione di superiorità. Una involuzione siffatta ha segnato la stessa società statunitense che, dal livello raggiunto negli anni Cinquanta del secolo scorso, è scesa a quello di oggi. La rielezione di un pessimo presidente come Obama si spiega anche così:





Esiste una chiara asimmetria tra la distruzione di già esistenti e la formazione di nuove tradizioni, culture e moralità. Mentre la distruzione può essere molto rapida, l'emergenza è di regola lenta. Negli USA il fallimento delle principali agenzie educative si è rivelato determinante. Ma tale fallimento è stato almeno altrettanto decisivo nel nostro paese. Famiglia, scuola, chiese ed altre formazioni intermedie rilevanti non sono riuscite a formare cittadini, elettori, produttori e consumatori preparati, responsabili e lungimiranti.
Si tratta un fallimento temuto dagli stessi padri del grande pensiero liberale, che attribuivano notevole importanza all'educazione. Si veda per tutti Karl Popper:




Ocorre riportare al centro del dibattito pubblico questi temi, per indirizzare l'attenzione dell'opinione pubblica anche sui "fondamentali" inadeguati all'origine del declino italiano, culturale e morale prima che economico. Un paese così bello e dal grande passato merita l'impegno richiesto.



venerdì 28 febbraio 2014

Burocrazia buona e cattiva.

 


Giovanni Giolitti prima di assumere responsabilità di governo fu sostituto procuratore del Re  e poi resse la direzione delle Finanze, con lo stesso Depretis titolare del dicastero.
Ha scritto Giolitti nelle sue Memorie:

"Depretis aveva seco, quale Segretario generale, (che corrispondeva allora a quello che fu poi il Sottosegretario di Stato dei vari ministeri...), il deputato Sesmit Doda, che gli era stato imposto dagli elementi estremi del partito. Il Sesmit Doda era un brav'uomo, ma alquanto fantasioso, "furioso" come lo chiamava Depretis; non aveva pratica di amministrazione  e aveva chiamati al suo Gabinetto impiegati poco competenti; e mi mandava continuamente degli ordini cervellotici in contrasto con la legge, che io dovevo respingere, spiegando la ragione per cui non si potevano eseguire. Il Sesmit Doda se la prese e anzi s'insospettì, ed un giorno che eravamo assieme presso Depretis, egli accennò che nel dicastero "si congiurava". Io capii l'allusione, e gli risposi che se avessi voluto cospirare avrei avuto un mezzo semplicissimo, del quale egli mi sarebbe stato grato. Depretis, che era beffardo di temperamento, e se ne aspettava una divertente, m'incoraggiò: "Dica, dica." Allora io dissi: "Se io volessi congiurare contro il Ministero, mi basterebbe eseguire gli ordini che Ella mi dà... " Depretis scoppiò  in una risata, e Sesmit Doda, furioso, prese il cappello e se ne andò" (Giovanni GIOLITTI, Memorie della mia vita, 1922, p. 23 e seg.).

Il futuro grande statista liberale come alto dirigente della Pubblica amministrazione incarna così il burocrate competente e coraggioso, che richiama i politici alla realtà dei fatti e delle norme.

Gli italiani sono vittime di una burocrazia perversa e soffocante, ma della burocrazia una grande società non può fare a meno.  Ernesto Galli Della Loggia sul Corriere della Sera del 26 febbraio 2014 ha trattato con lucidità questo tema impopolare:

"Solo un micidiale semplificatore come Lenin o forse un addicted al blog di Beppe Grillo possono pensare che per amministrare uno Stato possa bastare l’esperienza di una cuoca (anche se alla cuoca il primo era pronto ad affiancare il plotone d’esecuzione, mentre il secondo forse è disposto, più mitemente, ad accontentarsi di Internet).
Il problema dunque non è burocrazia sì o no. Nel caso dell’Italia il problema è innanzitutto un problema di formazione e di reclutamento".

"Le burocrazie che danno buona prova di sé sono dappertutto quelle reclutate su base rigidamente meritocratica: cioè attraverso corsi di studi seri ed esami severi... Da noi, infatti, non solo a cominciare dal curriculum scolastico e universitario il criterio del merito è virtualmente scomparso, ma veri esami d’ingresso degni di questo nome si fanno ormai esclusivamente in pochissime amministrazioni..."

"In questo vuoto di meritocrazia il fattore decisivo da cui sempre più dipendono ingresso e carriera nell’alta burocrazia è diventato il mix formato da origine sociale, relazioni familiari e politica. Si tratta di un mix micidiale. Per due ragioni. Da un lato perché di fatto così si sancisce l’esclusione dall’élite del Paese di coloro che provengono dalle classi  meno abbienti e comunque meno favorite...La seconda ragione sta nel fatto che con una burocrazia la quale, essendo di scarsa qualità e potendo vantare pochi meriti propri, dipende dalla politica per il proprio reclutamento, per la sua ascesa ai vertici... va ovviamente a farsi benedire la necessaria distinzione tra politica e amministrazione. La seconda, che deve tutto alla prima, non avrà mai il coraggio di prenderla di petto e di opporsi con forza alle sue ragioni in nome dell’interesse generale - come invece sarebbe necessario".

Oggi molti politici accusano gli alti burocrati di impedire o rallentare l'attuazione delle riforme. Se ciò accade, come spesso accade, per  difendere interessi corporativi o per  avvantaggiare referenti politici, il biasimo deve essere severo. Ma se ciò avviene nel tentativo di frenare governanti e legislatori "fantasiosi",  "furiosi" e "poco competenti", allora  sembra opportuno riproporre la devastante risposta di Giolitti:

"Se io volessi congiurare contro il Ministero, mi basterebbe eseguire gli ordini che Ella mi dà... ".

venerdì 21 febbraio 2014

L'Ucraina che nessuno può volere.




L'Ucraina brucia. Lo scontro tra l'opposizione, in cui radicali e violenti acquistano un peso sempre maggiore, e il governo filorusso rischia di diventare aperta guerra civile. Questa situazione è evidentemente l'esito non solo di dinamiche interne, ma anche delle relazioni tra Russia e USA, segnate da una rilevante conflittualità.
Yanukovich è non soltanto odiato dai suoi oppositori, ma ormai criticato dai suoi referenti russi e condannato dalla Chiesa Ortodossa Ucraina (Patriarcato di Kyiv), una delle tre maggiori giurisdizioni ortodosse del paese. Su La Voce della Russia del 21 febbrao 2014 Andrey Fediašin scrive:

"Come riferisce il Servizio stampa del Presidente Yanukovich, a Kiev è stato raggiunto un accordo per la soluzione della crisi. Per l’Unione Europea ai negoziati hanno partecipato i titolari dei Ministeri degli Esteri della Germania e della Polonia Frank-Walter Steinmeier e Radosław Sikorski, il portavoce del Presidente russo, ombudsmen Vladimir Lukin, il Presidente Viktor Yanukovich e tre leader dell’opposizione – Arseny Jatsenuk, Oleg Tiagnibok e Vitaly Klichko
Ma ciò non significa affatto che l’Ucraina ha cominciato ad uscire a poco a poco dalla crisi.
La Russia per la prima volta dall’inizio della crisi ucraina nell’anno scorso ha espresso con toni assai rigorosi il suo atteggiamento verso ciò che sta avvenendo e verso l’incapacità funzionale difficilmente spiegabile di Kiev. Il primo ministro Dmitry Medvedev alla seduta del Consiglio dei Ministri del 20 febbraio ha detto, in particolare:
Noi, sicuramente, porteremo avanti il processo di cooperazione con i partner ucraini in tutte le direzioni concordate. Al tempo stesso a questo scopo è necessario che il potere in Ucraina sia legittimo ed efficace.
Fin qui Mosca non mai osato fare una critica così dura al governo di Yanukovich".

Mentre Marco Tosatti su La Stampa del 21 febbraio 2014 dà conto della condanna espressa dalla Chiesa Ortodossa Ucraina (Patriarcato di Kyiv):

"La Chiesa Ortodossa Ucraina ha deciso di non pregare più, nelle celebrazioni religiose, per i responsabili del governo di Kiev. “Prendendo atto del fatto che i ripetuti appelli della Chiesa a non usare le armi contro il popolo non sono stati ascoltati dalle autorità dello Stato; contro il popolo che le ha elette per servire il popolo e l’Ucraina, non per la violenza e l’omicidio, si è deciso di non pregare più per le autorità al potere durante le celebrazioni religiose”, afferma un comunicato firmato dal Patriarca Filarete. Inoltre il Patriarca e i vescovi chiedono alle autorità di smettere immediatamente di usare le armi contro la gente. E la Chiesa, a dispetto delle Scritture e della Costituzione dell’Ucraina, che parlano della necessità di pregare per i governanti, pregherà solo per l’Ucraina, il popolo ucraino, i morti e feriti negli episodi di violenza. 
Nel frattempo è partita un’iniziativa che chiede che Viktor Yanukovich sia scomunicato e colpito con anatema. La richiesta è rivolta al Sinodo della Chiesa Ortodossa Ucraina legata al Patriarcato di Mosca. L’iniziativa è partita da una nota scrittrice laica e religiosa, Tetyana Derkatch, che l’ha lanciata su Facebook e alti canali sociali, ed è ospitata dal RISU (Religious Information Service of Ukraine)".

Nessuna delle potenze coinvolte, Russia, USA e Unione Europea, trae realmente vantaggio da un'Ucraina in preda alla guerra civile. Devono migliorare le relazioni tra USA e Russia. Sono tanto importanti e numerosi i comuni interessi da rendere addirittura difficile da comprendere una contrapposizione così estesa e dura.
 Il muro ideologico è caduto ormai da tempo.  E' auspicabile che entrambi i governi collaborino per estendere il dominio dello stato di diritto, rafforzare la tutela della dignità umana, combattere la povertà, attenuare le pulsioni etniche e nazionaliste, sconfiggere il terrorismo fondamentalista e risolvere le crisi internazionali.

venerdì 14 febbraio 2014

Galileo Galilei. Cattolicesimo e scienza.




 Galileo Galilei, morto nel 1642, è da molti considerato il padre della scienza moderna. In realtà, fervente cattolico con due figlie suore e nonostante i contrasti sfociati nella condanna pronunciata dal Sant'Uffizio, diede ancor maggiore contributo alla definizione dei rapporti tra fede cristiana e studio della natura e alla affermazione di un corretto approccio interpretativo alla Bibbia.
Di  seguito le considerazioni di Stephen Jay Gould e  Imre Lakatos, che di Galilei sottolineano anche gli errori e il rudimentale, ingenuo empirismo.

"Galileo puntò il telescopio anche su Saturno, il più lontano dei pianeti noti a quel tempo, e vide i famosi anelli. Non riuscì però a visualizzare o interpretare in modo corretto ciò che aveva osservato, presumibilmente perchè nel suo mondo concettuale non c'era "spazio" per un oggetto così peculiare (e il telescopio era troppo rozzo per raffigurare gli anelli in modo abbastanza chiaro da costringere la sua mente, già confusa da tante sorprese, alla conclusione più peculiare e imprevista di tutte)".

"Galileo...interpretò Saturno come un corpo triplice, formato da una sfera centrale affiancata da due sfere minori a contatto con essa".

"Galileo non annuncia la sua soluzione per mezzo di espressioni come "congetturo", "ipotizzo", "inferisco" o "mi pare che sia l'interpretazione migliore...". Egli scrive invece audacemente "ho osservato" (Stephen Jay GOULD, Le pietre false di Marrakech, 2007, pag. 45 e segg.).

"Il falsificazionista sofisticato non si schiera nè con Galileo nè col cardinal Bellarmino. Non si schiera con Galileo, perchè sostiene che le nostre teorie di base possono essere tutte altrettanto assurde e inverisimili per la mente divina; e non si  schiera con Bellarmino, a meno che il cardinale non concordi sul fatto che le teorie scientifiche, a tempi lunghi, possano prima o poi portare a conseguenze vere sempre più numerose e a conseguenze false sempre meno numerose e che, in questo senso strettamente tecnico, possano aver "verisimilitudine" crescente" (Imre LAKATOS, La falsificazione e la metodologia dei programmi di ricerca scientifici, in Imre LAKATOS e Alan MUSGRAVE (a cura di), Critica e crescita della conoscenza, 1993, p. 266 e seg.).

Galilei fu costretto all'abiura dal Sant'Uffizio, posto agli arresti domiciliari in residenze  signorili e infine confinato nella sua villa di Arcetri.  Ma la condanna venne dopo un  processo preceduto da lunghe discussioni e dall'elaborazione di argomenti difensivi che si sono rivelati fondamentali per l'emersione della piena compatibilità tra scienza e fede cristiana.


Scrive Galilei in una lettera a Benedetto Castelli:

"Io crederei che l'autorità delle Sacre Lettere avesse avuto solamente la mira a persuader a gli uomini quegli articoli e proposizioni, che, sendo necessarie per la salute loro e superando ogni umano discorso, non potevano per altra scienza né per altro mezzo farcisi credibili, che per la bocca dell'istesso Spirito Santo. Ma che quel medesimo Dio che ci ha dotati di sensi, di discorso e d’intelletto, abbia voluto, posponendo l’uso di questi, darci con altro mezzo le notizie che per quelli possiamo conseguire, non penso che sia necessario il crederlo".

E in una lettera a Cristina di Lorena granduchessa di Toscana:

"...l’intenzione delle Spirito Santo essere d’insegnarci come si vadia al cielo, e non come vadia il cielo".

"Sopra questa ragione parmi primieramente da considerare, essere e santissimamente detto e prudentissimamente stabilito, non poter mai la Sacra Scrittura mentire, tutta volta che si sia penetrato il suo vero sentimento; il qual non credo che si possa negare essere molte volte recondito e molto diverso da quello che suona il puro significato delle parole. Dal che ne séguita, che qualunque volta alcuno, nell’esporla, volesse fermarsi sempre nel nudo suono literale, potrebbe, errando esso, far apparir nelle Scritture non solo contradizioni e proposizioni remote dal vero, ma gravi eresie e bestemmie ancora: poi che sarebbe necessario dare a Iddio e piedi e mani e occhi, non meno affetti corporali ed umani, come d’ira, di pentimento, d’odio, ed anco tal volta la dimenticanza delle cose passate e l’ignoranza delle future; le quali proposizioni, sì come, dettante lo Spirito Santo, furono in tal guisa profferite da gli scrittori sacri per accomodarsi alla capacità del vulgo assai rozzo e indisciplinato, così per quelli che meritano d’esser separati dalla plebe è necessario che i saggi espositori ne produchino i veri sensi, e n’additino le ragioni particolari per che e’ siano sotto cotali parole profferiti: ed è questa dottrina così trita e specificata appresso tutti i teologi, che superfluo sarebbe il produrne attestazione alcuna".

Tale compatibilità tra scienza e fede cristiana è oggi proclamata con lucida consapevolezza dai pastori della Chiesa. Esemplare in questo senso  il Messaggio di Giovanni Paolo II ai partecipanti alla plenaria della Pontificia Accademia delle Scienze:

"Da parte mia, nel ricevere il 31 ottobre 1992 i partecipanti all’Assemblea plenaria della vostra Accademia, ho avuto l’occasione, a proposito di Galileo, di richiamare l’attenzione sulla necessità, per l’interpretazione corretta della parola ispirata, di una ermeneutica rigorosa. Occorre definire bene il senso proprio della Scrittura, scartando le interpretazioni indotte che le fanno dire ciò che non è nelle sue intenzioni dire. Per delimitare bene il campo del loro oggetto di studio, l’esegeta e il teologo devono tenersi informati circa i risultati ai quali conducono le scienze della natura"

" Tenuto conto dello stato delle ricerche scientifiche a quell’epoca e anche delle esigenze proprie della teologia, l’Enciclica Humani generis considerava la dottrina dell’“evoluzionismo” un’ipotesi seria, degna di una ricerca e di una riflessione approfondite al pari dell’ipotesi opposta. Pio XII aggiungeva due condizioni di ordine metodologico: che non si adottasse questa opinione come se si trattasse di una dottrina certa e dimostrata e come se ci si potesse astrarre completamente dalla Rivelazione riguardo alle questioni da essa sollevate".

"Oggi, circa mezzo secolo dopo la pubblicazione dell’Enciclica, nuove conoscenze conducono a non considerare più la teoria dell’evoluzione una mera ipotesi. È degno di nota il fatto che questa teoria si sia progressivamente imposta all’attenzione dei ricercatori, a seguito di una serie di scoperte fatte nelle diverse discipline del sapere. La convergenza, non ricercata né provocata, dei risultati dei lavori condotti indipendentemente gli uni dagli altri, costituisce di per sé un argomento significativo a favore di questa teoria".




venerdì 7 febbraio 2014

Crisi. In difesa dell'euro.




Davide Colombo su Il Sole 24 ORE del 5 febbraio 2014 espone alcune delle principali ragioni che inducono a respingere il passaggio dall'euro a una moneta nazionale italiana destinata a svalutarsi.
Scrive Colombo:

"Qualche mese fa a mettere in fila almeno quattro fattori che hanno definitivamente affossato l'equazione uscita dall'euro = svalutazione = rilancio di export e Pil è stato il centro studi di Confindustria".

"Primo: la diffusione delle filiere globali riducono i vantaggi competitivi di una svalutazione. Non si vive più in un mondo in cui le imprese delle economie avanzate producono interamente in casa i loro beni e servizi importando solo materie prime. Ora si produce importando anche i semi-lavorati che servono a produrre i beni finali da esportare...la svalutazione del cambio renderebbe queste importazioni assai più costose annullando l'eventuale guadagno di competitività".

"Secondo: i sistemi bancari in crisi renderebbero difficile ottenere nuovo credito".

"Terzo: la più lenta risposta dell'export in un contesto concorrenziale nel quale i paesi più avanzati possono giocare sulla qualità dei loro beni e servizi piuttosto che sul prezzo. La spiegazione è semplice: serve tempo (e nuovi investimenti) per sostituire i semi-lavorati importati con produzioni proprie e mentre questa "sostituzione" si determina la concorrenza degli altri paesi avanza con la qualità (a parità di prezzo) dei loro prodotti".

"Quarto: se tutti svalutano nessuno ci guadagna...Nel caso dei paesi deboli dell'eurozona la svalutazione sarebbe contemporanea e a guadagnarci di più sarebbero quelli con le maggiori quote di export destinate all'area euro, quindi l'Italia vedrebbe diluiti di molto gli eventuali vantaggi".

"C'è un ultimo argomento proposto dagli analisti del Centro studi di Confindustria: per esportare di più (dopo aver svalutato) occorre poter contare su un'ampia base industriale capace di produrre beni commerciabili internazionalmente".

L'articolo di Colombo richiama l'attenzione su alcuni aspetti fondamentali della questione, che sorprendentemente sono spesso trascurati nel dibattito pubblico. A partire dall'ovvia considerazione che una valuta serve non solo per vendere, ma anche per comprare. L'Italia è un paese trasformatore, povero di materie prime e fonti energetiche. Una eventuale svalutazione determinerebbe un rilevante aumento dei costi di materie prime, energia e semilavorati.
E' poi perfino banalmente vero che prodotti e servizi sono competitivi non solo per il loro prezzo, ma anche e soprattutto per la loro qualità e che la svalutazione può non compensare la presenza di importanti fattori che diminuiscono la competitività.
Va inoltre sottolineato che difficilmente la risposta produttiva allo stimolo rappresentato dalla svalutazione sarebbe adeguata. Basti pensare, per quanto riguarda i semilavorati, agli ostacoli frapposti dalle istanze di tutela ambientale (chimica di base, siderurgia, monocolture intensive).
Le insufficienti prestazioni del sistema scolastico, la scarsa capitalizzazione e la modesta dimensione delle imprese, la disciplina del lavoro e l'assetto delle relazioni industriali sono altre ragioni che anche in presenza di una svalutazione impedirebbero una efficace reazione del sistema produttivo.
In questa corretta prospettiva la proposta di uscire dall'eurozona appare assolutamente da rigettare. A tal punto questa misura si rivela dannosa da essere segno distintivo fondamentale. Chi la prospetta non riceva il consenso di chi desidera per il paese un genuino sviluppo economico e civile.

venerdì 31 gennaio 2014

L'età dell'oro.



La nostalgia è utile quando ci spinge a cercare i fattori del passato benessere, le ragioni di un successo che vorremmo replicare. Nell'immaginario di molti italiani l'età dell'oro è rappresentata dagli anni Ottanta del secolo scorso. Ma il riferimento a parametri più oggettivi e universalmente apprezzabili, oltre al mito costruito nei media, consente di individuare nel ventennio successivo alla fine della Seconda guerra mondiale vissuto dagli Stati Uniti d'America il periodo per molti versi più favorevole. Il professor Luigi Zingales, nel suo recente Manifesto capitalista, ci fornisce importanti elementi di comprensione:

"...nel 1975, l'americano medio guadagnava il 74% in più di suo padre. Il sogno americano sembrava alla portata di tutti".

"Come ha insegnato Adam Smith, la ricchezza delle nazioni viene determinata fondamentalmente dalla loro produttività. E gli Stati Uniti vantavano un vantaggio di produttività enorme nei confronti del resto del mondo, che consentiva loro di distribuire la ricchezza creata fra la popolazione. Una ragione di questo vantaggio era la tradizione di rispetto della legge e dei diritti di proprietà che ha sempre caratterizzato la nazione e che allora era particolarmente rara nel mondo".

"Un altro fattore cruciale per la superiorità dell'America in termini di produttività era la sua forza lavoro. Grazie alla propria tradizione democratica (anzi, populista), gli Stati Uniti nel dopoguerra erano uno dei Paesi più istruiti del mondo. Nel 1950, quando il 44% della popolazione globale era analfabeta e soltanto l'8,2% aveva conseguito un diploma di scuola superiore, le percentuali corrispondenti negli Stati Uniti erano 2,2 e 37%".

"...lo sforzo bellico aveva imposto alle imprese americane di modernizzare e migliorare la loro produttività, rendendo il Paese la forza industriale di gran lunga preminente nel mondo. L'eccesso di offerta di materie prime nel dopoguerra abbassò il prezzo reale del petrolio, del minerale di ferro e di altre materie prime. I prezzi reali delle materie prime a uso industriale si dimezzarono tra il 1950 e il 1970, consentendo ai cittadini americani di migliorare rapidamente il proprio tenore di vita" (Luigi ZINGALES,  Manifesto capitalista - Una rivoluzione liberale contro un'economia corrotta, 2012, p. 173 e seg.).

Alle condivisibili considerazioni di Zingales si può aggiungere, seguendo la lezione di Tocqueville,  che in quegli anni ormai lontani negli USA ancora era comune e sentito un Cristianesimo capace di richiamare alla responsabilità e all'adempimento dei più elementari doveri, mentre un efficace addestramento alla democrazia si realizzava nelle assemblee e nei comitati. Ne risultava un paese libero e dal benessere sempre più diffuso, sia pure con l'irrisolta questione della effettiva emancipazione dei cittadini di colore. Così si espresse Karl Popper nella sua più importante opera autobiografica:

"L'America  mi piacque fin dal primo istante, forse perchè prima avevo qualche pregiudizio nei suoi confronti. Nel 1950 c'era un senso di libertà, di indipendenza personale, che non esisteva in Europa e che, pensavo, era ancor più forte che in Nuova Zelanda, il paese più libero che io conoscessi" (Karl POPPER, La ricerca non ha fine - Autobiografia intellettuale, 1978, p.132).

La storia non si ripete mai. Ma una attenta riflessione sul passato ci consente di individuare chiavi di lettura promettenti.

venerdì 24 gennaio 2014

Crisi. Così si alimenta l'illusione.





 Due grandi linee di approccio alla crisi si confrontano nel dibattito pubblico.  Alcuni prendono a modello le politiche economiche adottate negli USA e in Giappone. Altri sottolineano i problemi  posti dalla globalizzazione e l'esigenza di ripristinare nella cosiddetta economia reale i presupposti di una produzione competitiva, idonea a creare buona e vitale occupazione.
Questa sostanziale dicotomia si rileva giustapponendo una intervista all'economista Nouriel Roubini su Radio24 a un recente dibattito tra Andrea Montanino e Michele Boldrin.
 Emerge chiara da una parte la sopravvalutazione della crescita negli Stati Uniti. In questi l'incremento del PIL è in buona misura spiegabile con l'aumento delle rimanenze di invenduto, con la ripresa del credito al consumo e con la rivoluzione energetica dello shale gas/oil.  L'occupazione non migliora apprezzabilmente. Aumentano infatti gli occupati a tempo parziale non volontari e gli scoraggiati, mentre i nuovi posti di lavoro sono spesso di bassa qualità, creati prevalentemente nei settori della grande ristorazione, del commercio, dell'assistenza sanitaria e agli anziani, in attesa che il basso costo dell'energia dia maggior slancio alla manifattura. Non si dà inoltre ragguaglio dei rischi derivanti dalla politica monetaria accomodante destinata a venire meno in tempi non lunghi.
Montanino e Boldrin danno invece vita a un dibattito attento ai nodi dell'economia reale, dove scuola, innovazione produttiva, burocrazia, pressione fiscale, spesa pubblica e globalizzazione costituiscono i temi principali. La grande crisi in atto, che non presenta i tratti di quelle cicliche, affonda le proprie radici nei difetti strutturali del sistema paese gettato nella competizione economica globale, accompagnati e in larga misura causati dal fallimento delle principali agenzie educative.
In quest'ultima corretta prospettiva il cosiddetto rigore si rivela non solo causa ma soprattutto conseguenza della crescita insufficiente, tale per la debolezza dei suoi fattori. La natura strutturale della crisi va ben spiegata a chi ne è vittima. Solo da questa precisa consapevolezza si può ripartire. Attribuire all'euro, all'Europa e alla Germania in particolare colpe che sono soltanto nostre non ci aiuterà a risolvere i nostri problemi. Lasciamo questi facili alibi ad economisti inadeguati e a politici spacciatori di illusioni.





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